Alessandro D’Avenia: «Il celibato è una scelta, a volte fare l’amore è dare una carezza»

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Lo scrittore della fragilità parla del nuovo libro e fa un bilancio dei suoi 40 anni. «Sono innamorato di Dio e delle persone. E quando vivi un sentimento così profondo che fai? Te lo tieni stretto.

«Ancora adesso, a quarant’anni anni, mi sorprende il modo in cui i miei genitori mi dimostrano che per loro sono importante. Questo mi dà una forza che nessuno può togliermi», dice Alessandro D’Avenia e racconta della mattina di un mese fa — il 2 maggio, giorno del suo compleanno — colazione nello stesso bar milanese in cui si trova ora, con vista su Santa Maria delle Grazie: «Ci eravamo salutati il giorno precedente a Roma: loro tornavano a casa, a Palermo, mentre io ero diretto a Milano, per riprendere la scuola. Così il 2 mi alzo, vengo qui e, colpo di scena, li vedo entrare e venirmi incontro per un abbraccio: avevano passato la notte da mia sorella, volevano esserci per farmi gli auguri a sorpresa. Sono cose del genere che mi hanno permesso di diventare l’uomo che sono».

Quanto è piena la sua vita? C’è il successo dei suoi libri: l’ultimo, «L’arte di essere fragili» (Mondadori), dallo scorso novembre è nella classifica dei più venduti, «pensavo di togliermi uno sfizio e fare un libro per i professori, sulla scuola che sogno con una letteratura al servizio della vita e non solo del programma, e invece…». C’è il suo lavoro di insegnante di italiano e latino al liceo San Carlo di Milano: «Ogni mattina, durante l’appello, guardo i miei studenti, uno per uno. Loro si spazientiscono. “Dai prof, è una tortura, perché lo fa?”. E io rispondo: perché voi siete più importanti della lezione. Curare le relazioni è la forma dell’amore nel nostro tempo veloce, fatto tutto di prestazioni anziché di presenze».

E l’amore di coppia? «Sto bene così — risponde — , ho scelto di dedicare la mia vita ai ragazzi, a scuola e nel volontariato. Mantenere il celibato è una decisione che ho maturato nel tempo. Non significa rinunciare all’amore, ma viverlo seguendo altre strade, quelle dove mi porta la mia passione, raccontare e ascoltare storie, a scuola, in teatro, nei libri. Non sono un filantropo e basta: la mia vita è piena del rapporto con Dio (ma non ho la vocazione sacerdotale) e il mio amore per lui, in fondo, ha un aspetto sentimentale: senza, non posso vivere».

Forse la ragazza giusta deve ancora arrivare. «Sono incantato dalla grazia femminile — precisa — ma Dio che è la fonte di quella grazia mi ha incantato ancora di più. Il mio non è idealismo, né sentimentalismo, né fuga dalla realtà. È un amore profondo, che cresce giorno per giorno e trabocca. E quando hai la fortuna di vivere un amore così, che fai? Te lo tieni stretto. I primi a restare perplessi sono i miei studenti: le loro reazioni vanno dal “che peccato” — e queste sono le ragazze — al “ma non ha voglia di una famiglia sua?”». Lei cosa risponde? «Li guardo e dico: vi sembra che io non abbia dei figli?».

Le chiederanno del sesso, di come riesca a vivere senza. «Raccontare l’incanto o il disincanto del sesso è raccontare l’amore. Noi facciamo l’amore come amiamo, il sesso rivela com’è la nostra capacità di amare. A volte fare l’amore è semplicemente dare una carezza. Oggi, al contrario di ciò che si pensa, vedo poca trasgressione, cioè capacità di andare oltre se stessi, di crescere. Essere fedeli è trasgressivo, essere gentili anche quando si è stanchi, chiedere scusa, sorprendere con un’attenzione inattesa è erotico».

Lei scrive per i ragazzi: sono loro il suo pubblico. «È un’etichetta che mi hanno appicciato addosso: il numero di libri venduti dimostra che non è così. Comunque non ci trovo niente di male: il pezzo di mondo che osservo tutti i giorni è quello della scuola e i ragazzi sono come cristalli, si lasciano leggere dentro, mentre più tardi, a 30 o 40 anni, impariamo tutti a mettere una maschera, diventiamo opachi, ma ciò di cui abbiamo profondamente bisogno resta uguale: che cosa ci affranca dalla morte, dal continuo cadere delle cose? I ragazzi vivono la fragilità delle relazioni da cui vengono, le stesse dei loro genitori, del tessuto famigliare. La grammatica delle relazioni andrebbe riscritta, dalla A alla Z».

Le sue relazioni come sono? «A me interessano le relazioni buone. Quanto tempo dedica un professore ad ogni singolo alunno? Quanto tempo dei nostri pasti è dedicato al volto di chi sta a tavola con noi? Ma più vado avanti, più sperimento la mia incapacità ad amare nel modo profondo che vorrei. Così rilancio, rilancio sempre».

Nel nuovo libro, ogni capitolo ha il nome di una donna, alla quale il narratore — unica voce maschile — chiede di raccontare la propria storia. Un libro al femminile per spiegare l’amore agli uomini? «Non mi interessa spiegare niente a nessuno, ma godermi la magia della narrazione, dando parola a ciò che altrimenti resta invisibile, prima di tutto a me stesso. Il dramma di un’educazione sentimentale basata sul possesso, per esempio: l’altro conta solo se mi è utile. Ma in amore o si fa morire l’altro per affermare se stessi, o si muore (metaforicamente) per lui. Ho scelto di far parlare le donne perché sanno meglio degli uomini il paradosso dell’amore. È un testo ispirato da un inatteso stupore e dolore: stavo lavorando su Leopardi e le parole sono arrivate senza che ne avessi il controllo razionale».

Essere felici è possibile? «Io ho una vita bellissima. E felice perché impegnata in ciò che amo, fatica compresa. Mi ha colpito il racconto di un amico: stava litigando con la moglie quando il loro bimbo si è messo in mezzo, con una foto del loro matrimonio. Il messaggio era chiaro: guardatevi, voi vi amate, voi siete questi della foto. Ha ricordato ai genitori che se loro si spezzano, anche lui si spezza. Oggi si dà per scontato che se c’è una crisi, la relazione finisce. Ma quel bambino e i miei studenti ci chiedono altro: dimostrami che sono la cosa migliore che ti sia capitata, che il mio essere qui è una benedizione per il mondo. Non penso che questa sia letteratura per ragazzi, ma per uomini e donne che sperano nel futuro e l’unico modo è imparare ad amare davvero, con le nostre fragilità, cadute, fallimenti. A quarant’anni ne ho collezionati così tanti da sapere che in futuro potrà andare solo meglio».

Articolo tratto da un’intervista rilasciata al Corriere della sera, 2 giugno 2017, a cura di Daniela Monti

PERCORSO DELLE DIECI PAROLE

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Comunichiamo che il cammino riprende DOMENICA 22 OTTOBRE (2017) dalle 19.00 alle 20.30 presso il Centro di Spiritualità diocesano, via Medaglie d’Oro 10 a Crema. Con la prima serata di quest’anno pastorale concluderemo il QUARTO COMANDAMENTO, mentre la settimana successiva avvieremo il QUINTO. A questo punto non si potrebbe iniziare il percorso. Tuttavia ci fossero giovani interessati, possono contattare don Angelo Pedrini (3491676749) per un colloquio privato, per verificare le singole richieste.

Vi aspettiamo!

L’equipe delle dieci parole

(don Angelo, Fabio, Rosy, Davide, Silvia, Angela, Arianna)

DISCORSO DI PAPA FRANCESCO AI PARTECIPANTI AL CONVEGNO INTERNAZIONALE PROMOSSO DALLA CONGREGAZIONE PER IL CLERO – sabato 7 ottobre 2017

(…) Il tema della formazione sacerdotale è determinante per la missione della Chiesa: il rinnovamento della fede e il futuro delle vocazioni è possibile solo se abbiamo preti ben formati.

Tuttavia, ciò che prima di tutto vorrei dire è questo: la formazione sacerdotale dipende in primo luogo dall’azione di Dio nella nostra vita e non dalle nostre attività. È un’opera che richiede il coraggio di lasciarsi plasmare dal Signore, perché trasformi il nostro cuore e la nostra vita. Questo fa pensare all’immagine biblica dell’argilla nelle mani del vasaio (cfr Ger 18,1-10) e all’episodio in cui il Signore dice al profeta Geremia: «Alzati e scendi nella bottega del vasaio» (v. 2). Il profeta va e, osservando il vasaio che lavora l’argilla, comprende il mistero dell’amore misericordioso di Dio. Scopre che Israele è custodito nelle mani amorevoli di Dio, che, come un vasaio paziente, si prende cura della sua creatura, mette sul tornio l’argilla, la modella, la plasma e, così, le dà una forma. Se si accorge che il vaso non è venuto bene, allora il Dio della misericordia getta nuovamente l’argilla nella massa e, con tenerezza di Padre, riprende nuovamente a plasmarla.

Questa immagine ci aiuta a capire che la formazione non si risolve in qualche aggiornamento culturale o qualche sporadica iniziativa locale. E’ Dio l’artigiano paziente e misericordioso della nostra formazione sacerdotale e, come è scritto nella Ratio, questo lavoro dura per tutta la vita.

Ogni giorno scopriamo – con san Paolo – di portare «questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi» (2 Cor 4,7), e quando ci distacchiamo dalle nostre comode abitudini, dalle rigidità dei nostri schemi e dalla presunzione di essere già arrivati, e abbiamo il coraggio di metterci alla presenza del Signore, allora Lui può riprendere il suo lavoro su di noi, ci plasma e ci trasforma.

Dobbiamo dirlo con forza: se uno non si lascia ogni giorno formare dal Signore, diventa un prete spento, che si trascina nel ministero per inerzia, senza entusiasmo per il Vangelo né passione per il Popolo di Dio. Invece, il prete che giorno per giorno si affida alle mani sapienti del Vasaio con la “V” maiuscola, conserva nel tempo l’entusiasmo del cuore, accoglie con gioia la freschezza del Vangelo, parla con parole capaci di toccare la vita della gente; e le sue mani, unte dal Vescovo nel giorno dell’Ordinazione, sono capaci di ungere a loro volta le ferite, le attese e le speranze del Popolo di Dio.

E veniamo ora a un secondo aspetto importante: ciascuno di noi preti è chiamato a collaborare con il Vasaio divino! Non siamo solo argilla, ma anche aiutanti del Vasaio, collaboratori della sua grazia. Nella formazione sacerdotale, quella iniziale e quella permanente – tutte e due sono importanti! – possiamo riconoscere almeno tre protagonisti, che si trovano anch’essi nella “bottega del vasaio”.

Il primo siamo noi stessi. Nella Ratio è scritto: «Il primo e principale responsabile della propria formazione permanente è il presbitero stesso» (n. 82). Proprio così! Noi permettiamo a Dio di plasmarci e assumiamo «gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5), solo quando non ci chiudiamo nella pretesa di essere un’opera già compiuta, e ci lasciamo condurre dal Signore diventando ogni giorno sempre più suoi discepoli. Per essere protagonista della propria formazione, il seminarista o il prete dovrà dire dei “sì” e dei “no”: più che il rumore delle ambizioni umane, preferirà il silenzio e la preghiera; più che la fiducia nelle proprie opere, saprà abbandonarsi nelle mani del vasaio e alla sua provvidente creatività; più che da schemi precostituiti, si lascerà guidare da una salutare inquietudine del cuore, così da orientare la propria incompiutezza verso la gioia dell’incontro con Dio e con i fratelli. Più che l’isolamento, cercherà l’amicizia con i fratelli nel sacerdozio e con la propria gente, sapendo che la sua vocazione nasce da un incontro d’amore: quello con Gesù e quello con il Popolo di Dio.

Il secondo protagonista sono i formatori e i Vescovi. La vocazione nasce, cresce e si sviluppa nella Chiesa. Così, le mani del Signore che modellano questo vaso d’argilla, operano attraverso la cura di coloro che, nella Chiesa, sono chiamati a essere primi formatori della vita sacerdotale: il Rettore, i Direttori Spirituali, gli educatori, coloro che si occupano della formazione permanente del Clero e, sopra tutti, il Vescovo, che giustamente la Ratio definisce come «primo responsabile dell’ammissione in Seminario e della formazione sacerdotale» (n. 128).

Se un formatore o un Vescovo non “scende nella bottega del vasaio” e non collabora con l’opera di Dio, non potremo avere sacerdoti ben formati! Ciò esige una cura speciale per le vocazioni al sacerdozio, una vicinanza carica di tenerezza e di responsabilità verso la vita dei preti, una capacità di esercitare l’arte del discernimento come strumento privilegiato di tutto il cammino sacerdotale. E – vorrei dire soprattutto ai Vescovi – lavorate insieme! Abbiate un cuore largo e un respiro ampio perché la vostra azione possa valicare i confini della diocesi ed entrare in connessione con l’operato degli altri fratelli Vescovi.

Sulla formazione dei preti occorre dialogare di più, superare i campanilismi, fare scelte condivise, avviare insieme buoni percorsi formativi e preparare da lontano formatori all’altezza di questo compito così importante. Abbiate a cuore la formazione sacerdotale: la Chiesa ha bisogno di preti capaci di annunciare il Vangelo con entusiasmo e sapienza, di accendere la speranza là dove le ceneri hanno ricoperto le braci della vita, e di generare la fede nei deserti della storia. Infine, il Popolo di Dio. Non dimentichiamolo mai: la gente, con il travaglio delle sue situazioni, con le sue domande e i suoi bisogni, è un grande “tornio” che plasma l’argilla del nostro sacerdozio.

Quando usciamo verso il Popolo di Dio, ci lasciamo plasmare dalle sue attese, toccando le sue ferite, ci accorgiamo che il Signore trasforma la nostra vita. Se al Pastore è affidata una porzione di popolo, è anche vero che al popolo è affidato il sacerdote. E, nonostante le resistenze e le incomprensioni, se camminiamo in mezzo al popolo e ci spendiamo con generosità, ci accorgeremo che esso è capace di gesti sorprendenti di attenzione e di tenerezza verso i suoi preti. È una vera e propria scuola di formazione umana, spirituale, intellettuale e pastorale. Il prete, infatti, deve stare tra Gesù e la gente: con il Signore, sul Monte, egli rinnova ogni giorno la memoria della chiamata; con le persone, a valle, senza mai spaventarsi dei rischi e senza irrigidirsi nei giudizi, egli si offre come pane che nutre e acqua che disseta, “passando e beneficando” coloro che incontra sulla strada e offrendo loro l’unzione del Vangelo. Così il prete si forma: fuggendo sia da una spiritualità senza carne, sia, viceversa, da un impegno mondano senza Dio.

Carissimi, la domanda che deve scavarci dentro, quando scendiamo nella bottega del vasaio, è questa: Che prete desidero essere? Un “prete da salotto”, uno tranquillo e sistemato, oppure un discepolo missionario a cui arde il cuore per il Maestro e per il Popolo di Dio? Uno che si adagia nel proprio benessere o un discepolo in cammino? Un tiepido che preferisce il quieto vivere o un profeta che risveglia nel cuore dell’uomo il desiderio di Dio?

La Vergine Maria, che oggi veneriamo come Madonna del Rosario, ci aiuti a camminare con gioia nel servizio apostolico e renda il nostro cuore simile al suo: umile e docile, come l’argilla nelle mani del vasaio. Vi benedico e, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie.