A cura di don Angelo Lorenzo Pedrini
SOLENNITA’ DI CRISTO RE DELL’UNIVERSO – 2019
Celebriamo la solennità di Cristo Re dell’universo. Parlare di Cristo come Re, oggi, nel 2019, per alcuni di noi, soprattutto per i più giovani, può avere il gusto dello stantio, del retrò, un linguaggio d’altri tempi, di un qualcosa di ormai sorpassato, come sono le monarchie nel mondo (alcuni popoli le hanno ancora e ne vanno fieri… bah, qualche sano dubbio ce lo poniamo…). E invece no. Il regnare di Gesù è totalmente diverso dal regnare dei re della terra. Tranne una dinastia, come ci ha accennato la prima lettura (2Sam 5): quella dei re di Israele, che erano re-pastori: uomini chiamati da Dio a prendersi cura del popolo, in particolare delle fasce più deboli ed esposte della popolazione (nella Bibbia si parla infatti di orfani e vedove).
Dicevamo, la discordanza, meglio dire la contrapposizione con gli altri re della terra è netta:
I re del mondo hanno regno e sudditi. Gesù ha amici e fratelli.
Il re decide tutto da solo. Gesù non decide nulla se non aver prima consultato suo padre.
I re del mondo hanno una carta costituzionale. Gesù ha le beatitudini.
I re del mondo hanno una regina: Gesù ha una sposa, la Chiesa e una Madre come regina.
I re del mondo hanno un trono elegante e solenne: Gesù ha una croce.
I re del mondo hanno una corona preziosa: Gesù ha una corona di spine.
I re del mondo hanno un mantello di porpora: Gesù ha la sua nudità e la sua povertà.
I re del mondo hanno un puledro di razza: Gesù cavalca asini.
I re del mondo hanno un castello o un grande palazzo: Gesù non ha un luogo dove posare il capo (Mt 8,20).
I re regnano e governano sui loro sudditi; Gesù invece si mette a servirli e lava loro i piedi;
I re sono sempre i primi; Gesù è sempre l’ultimo di tutti;
I re, per essere rispettati, mostrano la sua forza con la violenza; Gesù invece è mite e umile di cuore;
I re vogliono essere temuti; Gesù invece vuole essere amato.
Gesù è Re perché serve. E il servizio è una delle espressioni più alte dell’amore. Gesù è re perché dona la vita. E l’amore di Gesù prende la forma del perdono.
Infatti, la seconda cosa che stupisce di questo vangelo è che il primo cittadino del paradiso è un disgraziato, un ladro, uno che ha sbagliato ma è stato raggiunto dalla misericordia di Dio che lo ha riabilitato, lo ha reso di nuovo figlio. Allora è il caso di dire: c’è veramente speranza per tutti. Nessuno si senta escluso, nessuno si senta fuori dall’amore di Dio. Nessuno è escludo; nessuno è fuori dall’amore di Dio (almeno che uno voglia starsene fuori, ovviamente).
Ma questa regalità di Gesù cosa c’entra con noi?
Anzitutto siamo chiamati a partecipare della regalità di Cristo, regnando sulla nostra vita, ossia facendola diventare una cosa seria, non banalizzandola, non sprecandola, ma vivendola in pienezza.
Poi siamo chiamati a partecipare alla regalità di Cristo facendoci pastori, cioè gente che si prende cura degli altri, in particolare di chi non ce la fa.
Carissimi, domandiamoci sinceramente: ma a me, questo Re piace? Non tanto vero?
Eppure è l’unico re che vince. Noi adoriamo e siamo i discepoli, i collaboratori e i continuatori di questo re.
Gli altri in un primo tempo sembrano essere i vincitori, ma perdono e passano. Lui vince e resta. Solo chi ama, infatti non passa ma resta per sempre.
XXXIII domenica del T.O. – anno C – 2019 Luca 21,5-19
Gesù si è ormai stabilito a Gerusalemme ed insegna nel Tempio. Il brano che ci è stato proposto dalla liturgia è la prima parte del discorso escatologico di Gesù (discorso sulla fine dei tempi), che fa riferimento alla conclusione dell’anno liturgico della Chiesa.
Gesù inizia a parlare e annuncia la distruzione del tempio (distruzione che avverrà per opera dei romani, nel 70 d.C., pochi anni dopo la morte e risurrezione di Cristo). Con queste parole egli ci invita a riporre la nostra fiducia in lui e non nelle cose che passano. Dice infatti un canto: passeranno i cieli; passerà la terra, ma ciò che non passa è la tua Parola.
Poi Gesù utilizza il linguaggio apocalittico, uno dei linguaggi presenti nella Bibbia, per parlare delle cose future, ma soprattutto per introdurre il tema della testimonianza: in un mondo in costante cambiamento e in continua trasformazione Gesù ci esorta a non avere paura e soprattutto, in questo gran caos, a non venir meno al nostro grande compito, alla nostra grande missione di cristiani: offrire la nostra testimonianza, semplice, umile, ma anche coraggiosa, audace, entusiasta, appassionata!
Come essere oggi, ‘capitani coraggiosi’, apripista di uno stile evangelico?
Cosa oggi fa dire agli altri: cavolo, questo ha una marcia in più, questo crede in quello che dice e quello che fa?
- La gentilezza;
- La passione per ciò che sei chiamato a fare;
- L’onestà con cui lo fai;
- La semplicità e la trasparenza;
- L’ascolto empatico (ascoltare con il cuore)
Concludiamo con una bella storia di questi giorni che ha come protagonista un professore, Niccolò Pagani, pubblicata da Massimo Gramellini sul Corriere della Sera (14-11-2019):
Per alcune settimane nei televisori delle famiglie in procinto di andare a cena è apparso un italiano lontano dagli stereotipi. Uno che non insultava nessuno e azzeccava persino i congiuntivi. Un mite tutt’altro che debole, capace di vincere il titolo di campione del gioco «L’eredità» per dodici puntate di fila. Fa l’insegnante, si chiama Niccolò Pagani e gli manca solo una sillaba per essere omonimo del grande violinista. Però anche lui non ha concesso il bis: si è dimesso a sorpresa dal titolo di re del quiz per tornare dai suoi studenti, e lo ha fatto con una lettera che in tempi normali sarebbe banale, mentre in questi suona quasi rivoluzionaria. «Il mio posto è là, tra i miei ragazzi. Ogni mattina in prima linea, dimostrando ai giovani che la gentilezza vince sulla violenza e la cultura sull’ignoranza; che il sorriso sconfigge la rabbia e l’ironia batte l’odio. Insegnando loro a non impugnare i coltelli, ma i libri. E a sostituire gli spintoni con gli abbracci». Un insegnante come ce ne sono tanti e come dovrebbero essere tutti. Innamorato della scuola e della sua missione sottopagata e scarsamente considerata, al punto da sentirne il richiamo irresistibile proprio quando stava cominciando a diventare più facile arrendersi alle lusinghe della popolarità. Si dice che ogni fase della vita assomigli a un esercizio ginnico, dove più di tutto conta l’atterraggio, l’uscita di scena. Se è così, il professor Pagani ci ha dato una bella lezione.
XXXII domenica del T.O. – anno C – 2019 Luca 20,27-38
Nel vangelo che la liturgia ci ha presentato in questa XXXII domenica del T.O., Gesù è arrivato a Gerusalemme e sta concludendo il suo viaggio.
Alla vigilia della sua passione, lo troviamo a insegnare nel Tempio e l’episodio che ci è stato proposto fa parte delle controversie che Gesù ha con i capi del popolo di Israele, in questo caso con i sadducei.
Questa classe, questa corporazione, ricca e aristocratica, era composta dagli alti funzionari del tempio e, al contrario dei farisei, non credevano nella risurrezione dei morti. Sono loro a porre un “caso” a Gesù, con il duplice scopo di fare uno sgambetto a Rabbì Jeshua, e di mettere in ridicolo la fede dei farisei e del popolo.
La domanda fa riferimento alla legge di Mosè: nel popolo ebraico, quando un uomo sposato moriva, il fratello dell’uomo era obbligato a sposare la cognata vedova, qualora non avesse avuto figli (Dt 25,5). In questo modo si garantiva la discendenza. Qual è il problema? “in caso di risurrezione, questa donna che è stata moglie di sette uomini (un caso portato alle estreme conseguenze), di chi sarà moglie?”
Gesù risponde in due modi:
- La risurrezione non è un prolungamento della vita sulla terra, ma è qualcosa di nuovo, che ha a che fare con una profonda trasformazione della nostra vita, dove cesseranno i vìncoli terreni e dove vivremo in pienezza il nostro essere figli di Dio e dunque fratelli e sorelle tra di noi. (La formula del matrimonio dice infatti: “finché morte non ci separi”).
- Gesù afferma che Dio non è il Dio dei morti (tutte le religioni pagane avevano i loro dèi che vegliavano le tombe dei defunti – necropoli – regno dei morti), ma dei vivi, di coloro che vivono per lui e con lui (per questo Gesù cita i patriarchi: Abramo, Isacco, Giacobbe).
Sapete qual è la prima chiamata-vocazione dell’uomo? La chiamata alla vita. Dio ci crea per la vita e perché, credendo, possiamo avere la vita nel suo nome, dice san Giovanni nel suo vangelo (20,31).
Il libro del Deuteronomio ci invita: “scegli la vita” (30,19) e sconfiggi la morte!
Una morte che non ha solo il volto della morte fisica, ma che assume varie forme: una morte che si veste di violenza, di indifferenza, di odio, di razzismo, di cultura dello scarto, di manipolazione della vita umana, di traffico di organi, di inquinamento ambientale, di denaro sporco accumulato a danno degli altri, di ogni tipo di dipendenza che rende schiavi
Ecco la grande battaglia che si gioca nel mondo e anche nella vita di ciascuno di noi: non tanto tra la morte e la vita, ma tra la morte e l’amore (eros e thànatos).
Perché la morte, che tutto divora, è capace di mangiarsi anche la vita; ma c’è una cosa che le è indigesta, che le sta sullo stomaco: l’amore. Fateci caso: quando diciamo “ti amo” stiamo dicendo a qualcuno: “tu non devi morire e io mi impegnerò affinché questo non accada”.
“L’amore vince la morte; solo l’amore ci consente di affrontare lo scandalo della fragilità del nostro essere, la cui massima espressione è la morte”, dice Alessandro D’Avenia nel suo libro “L’arte di essere fragili” (p.198, Mondadori Editore, Milano 2016). L’amore è il vero nemico, la vera forza che resiste alla morte ed ha il potere di sconfiggerla.
Se ci facciamo caso, è stata la vita di Cristo.
Continua Alessandro D’Avenia (p.195, ibidem): “Solo chi ha consuetudine con l’Infinito conosce la propria finitezza, accetta la morte e non la nasconde; solo chi accetta la morte sa vivere”.
Cari fratelli e sorelle nella fede, siamo chiamati a vivere di una vita che non muore, che si alimenta alla sorgente dell’amore: ricevuto, donato, offerto e condiviso.
XXXI domenica del T.O. – anno C – 2019 Luca 19,1-10
Il vangelo di questa domenica è molto bello e interessante: è la storia di un incontro, tra Gesù e un ricco capo dei pubblicani, cioè i pubblici peccatori, coloro che non si curavano di niente e di nessuno, esattori delle tasse corrotti e ladri, che portavano via i soldi alla povera gente e se li intascavano per arricchirsi.
Ma questo ‘tappetto’ (Zaccheo era basso di statura) ha un desiderio nel cuore. Sente che la sua vita non sta andando come vorrebbe, probabilmente stanno nascendo in lui dei rimorsi di coscienza; vorrebbe cambiare vita ma da solo non ce la fa.
Tu che desideri porti nel cuore? Cosa vorresti cambiare della tua vita? Hai il desiderio di diventare un uomo – una donna migliore? Il cancro per una persona non è una malattia; il cancro per una persona è non desiderare più nulla; aver perso il desiderio di migliorare, di crescere, di fare un passo in più, di andare avanti. E ci si siede, ci si incupisce, ci si deprime e a volte si muore dentro. Zaccheo probabilmente ha fatto questa esperienza che lo sta mangiando, corrodendo, logorando, svuotando.
Zaccheo vuole vedere Gesù. Questo è il suo desiderio profondo. Vuole vedere la luce in fondo al tunnel (in cui si è più o meno liberamente cacciato).
Noi ci diciamo cristiani. Ma abbiamo nel cuore il desiderio di “vedere Gesù”, il desiderio di incontrarlo, il desiderio di farlo diventare uno di casa nostra? Dio abita casa mia? Dio abita il mio cuore, la mia coscienza, i miei pensieri, le mie scelte, le mie decisioni? Altrimenti c’è qualcosa che non va…
Zaccheo crea le condizioni per l’incontro: sale su un sicomoro. E’ una scelta un po’ ambigua: da una parte lo fa per vedere Gesù, ma dall’altra non vuole essere visto, si nasconde.
Gesù lo vede e gli dice: “ve sò dal broc!”; “oggi desidero fermarmi a casa tua”. Voglio diventare un tuo familiare. Mi apri la porta? Mi fai entrare? La fede sta tutta qui: “scese in fretta e lo accolse pieno di gioia”.
Gli altri mormorano contro Gesù “è entrato in casa di un pubblico peccatore!” Come al solito, la gente non capisce niente. Gesù aveva già detto: “non sono venuto per i sani, sono venuto per i sani; non sono venuto per coloro che si considerano giusti; sono venuto per coloro che si considerano peccatori e hanno bisogno di me”.
Attraverso l’incontro con Gesù la vita di Zaccheo cambia. Si alza (il verbo della risurrezione) e dice: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto».
Qual è la prova provata che tu hai incontrato realmente Gesù? Quando non fai più le cose di prima, ma ne fai di più belle, di più giuste, di più sante. L’incontro con Dio ti rende più generoso, più onesto, più sincero, più trasparente, più solidale, meno bacchettone nei confronti degli altri.
Gesù dice a Zaccheo: oggi hai incontrato la salvezza. Dio è riuscito a ricrearti, a renderti una persona nuova, migliore, perché ti sei fidato che questa cosa potesse davvero accadere. Si avverano le parole del salmo: “Crea in me o Dio un cuore nuovo. Vedi se percorro una via di menzogna e guidami sulla via della vita”.
Un esercizio per la settimana: sono capace di vedere Gesù? Dove lo vedo? Dio non ti vola in testa, o peggio sopra la testa… Dio lo vedi e lo incontri nel volto dei tuoi familiari (che fatica!); Dio lo incontri nella persona che hai sposato; nel volto dei tuoi figli; nelle persone fragili e bisognose; nella tua comunità; nei poveri e nei sofferenti; nelle persone con cui lavori; nelle persone a cui ti dedichi; nelle persone che ti vogliono bene e che ti vogliono male. Dio lo incontri nella vita. Te ne accorgi?
TUTTI I SANTI – 2019
Celebriamo la solennità di tutti i santi, gli ‘amici di Dio’, i testimoni della fede; coloro che hanno preso sul serio il vangelo e attraverso la loro vita hanno manifestato le grandi opere di Dio e soprattutto la sua misericordia e il suo amore verso di noi. La prima lettura, tratta dal libro dell’apocalisse, li identifica in una “moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, etnia, popolo e lingua” (7,9). E’ l’immagine della Chiesa cattolica, cioè universale.
Sfatiamo subito un mito: i santi non sono superuomini, non sono eroi, non sono miti non ben identificabili. Sono persone. Con i loro talenti e i loro limiti, le loro ricchezze e le loro fragilità, i loro punti di forza e i loro talloni d’Achille. E più il santo si è mostrato vulnerabile agli occhi del mondo, più si è rivelata la forza, la grandezza dell’opera di Dio.
Nella Chiesa ci sono i ‘grandi’ santi: pensiamo agli apostoli, ai padri della Chiesa, ai grandi uomini e alle grandi donne che con la loro vita e le loro scelte hanno cambiato le sorti di un’intera nazione, di un continente o del mondo intero (pensiamo a san Francesco, d’Assisi, Santa Caterina da Siena, San Benedetto…)
Ma ci sono anche i ‘piccoli’ santi: papa Francesco li chiama i santi della porta accanto, i santi del quotidiano (perché è nella vita di tutti i giorni che si vive la santità).
Diventa santo non colui che fa cose stratosferiche, eccezionali, magniloquenti, ma colui che cerca di far bene le cose di tutti i giorni. Anche di Gesù dicevano: “ha fatto bene ogni cosa…” (Mc 7,37).
I santi umili, silenziosi, discreti, schivi, ma capaci di portare il bene di Dio e di fare tanto bene agli altri.
Pensiamo a tante mamme e a tanti papà che hanno donato la propria vita per il bene della famiglia e dei figli;
a quanti hanno faticato e sofferto in un lavoro compiuto in modo onesto e rispettoso;
ai molti giovani che non hanno perso la speranza, ma si sono rimboccati le maniche per “lasciare il mondo meglio di come lo avevano trovato”;
a tanti anziani che hanno vissuto la vecchiaia o la malattia come offerta per il bene altrui;
ai tanti uomini e donne che si spendono per il bene pubblico;
ai tanti volontari che offrono parte del loro tempo e delle loro energie per far crescere la comunità;
alla tanta gente che ha imparato a perdonare (magari anche rimettendoci di persona) perché ha capito che il perdono è la forma più grande dell’amore.
Cari fratelli e sorelle, guardiamo con affetto e ammirazione ai santi per ricevere da Dio e dalla loro intercessione la forza per diventare santi noi.
Lasciamoci meravigliare e sorprendere dalla loro eredità morale e spirituale, per impreziosire la nostra vita con la bellezza delle loro scelte, la semplicità della loro condotta, l’entusiasmo e il coraggio della loro testimonianza, la ricchezza della loro fede.
XXX domenica del T.O. – anno C – 2019 Luca 18,9-14
Il vangelo di questa domenica si collega a quello di domenica scorsa. Gesù ci sta insegnando cos’è la preghiera e qual è la preghiera gradita a Dio, cioè il modo corretto di relazionarsi con Lui.
Ci viene narrata ancora una parabola, quella del fariseo e del pubblicano; tuttavia per comprenderla occorre che facciamo riferimento all’introduzione di Luca: Gesù disse ancora una parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri (v.9).
Ecco le due situazioni che cozzano con la vera preghiera, la preghiera filiale:
la prima stortura – ipocrisia è il sentirsi giusti. Se uno si sente giusto non ha bisogno di Dio. E infatti la preghiera del fariseo non è una preghiera (è un monologo!) perché tutta incentrata sull’io: Signore ti ringrazio perché IO non sono come gli altri… IO digiuno due volte alla settimana… IO pago le decime di tutto ciò che possiedo… io, io, io e l’asino mio… da notare che il tipo fa molto di più di quanto gli viene chiesto!
Esercizio: proviamo a contare quante volte, mentre parliamo con gli altri, diciamo il pronome personale “IO”… oppure quante volte ci capita di fare i superbi, i saccenti, i prepotenti, gli arroganti, i permalosi… che fatica star vicino, relazionarsi a gente così… io sono bravo, io sono bello, io sono intelligente e la mia vita è solo e unicamente merito mio… ma quando mai?????
La seconda stortura – ipocrisia, collegata e conseguenza della prima è il disprezzo degli altri. Di-sprezzare, ovvero non dare il giusto prezzo, il giusto valore.
Proviamo a pensare alle tante volte che, relazionandoci con gli altri, ne vediamo solo i difetti, le mancanze, le caratteristiche fastidiose… quanta fatica a riconoscere i pregi, i talenti, la bellezza dell’altro. Quanto è importante esercitarsi ad avere uno sguardo buono verso gli altri, che non mette al primo posto le mancanze e le imperfezioni ma cerca di trovare le positività e i lati migliori dei fratelli e delle sorelle. Perché tutti abbiamo dei lati luminosi e dei lati bui. Occorre scegliere da che parte guardare, che lato della medaglia osservare… E’ lo sguardo della fede: ti do fiducia, perché a me ogni giorno, Dio mi concede, ripone in me la sua fiducia.
Infine, soffermiamoci un attimo sulla preghiera del pubblicano e sui suoi gesti:
- Si ferma a distanza: segno di rispetto… l’accorgersi di una presenza…
- Non osa nemmeno alzare gli occhi al cielo (lo sguardo basso): segno di umiltà
- Si batte il petto: riconosce il proprio errore, limite, fragilità, insufficienza, il proprio peccato
- E pronuncia, sussurra la preghiera: Dio, abbi pietà di me peccatore.
Poche parole, pochi gesti, nessuna ostentazione, nessun merito da rivendicare, ma lo stare a faccia a faccia con se stessi e con Dio. E quando hai pesi sulla coscienza e non riesci più a guardarti in faccia, allora ecco che accade: ti apri all’amore di Dio, che salva, che perdona, che ricrea, che ti fa nuovo. Puoi rialzarti, ripartire, puoi ricominciare. Dio non ti guarda di traverso, Dio ti guarda con occhi di padre e ti dona quella fiducia e quella forza che ti aiuta a rivolerti bene.
Queste parole le capisci sono se ne hai fatto esperienza. Ti è capitato di affidarti a Dio con le parole: Signore, abbi pietà di me, peccatore? Ti auguro che ti capiti. Sarà tutta un’altra storia… sarà tutta un’altra musica, sarà tutto un altro Dio.
Chiedi al Signore la grazia di saper imparare a pregare così.
XXIX domenica del T.O. – anno C – 2019 Lc 18,1-8
Il tema del vangelo di questa domenica è semplice e chiaro: Gesù ci invita alla preghiera, o meglio all’atto di pregare. E ci dice anche la modalità: con insistenza, senza stancarsi (per calcare la mano utilizza l’avverbio “sempre”). Per questo Gesù racconta ai suoi discepoli la parabola del giudice iniquo e della vedova importuna (potremmo anche chiamarla invadente, molesta, sgarbata). Raccontando questa similitudine Gesù estremizza il ruolo dei due personaggi e porta alle estreme conseguenze la situazione: la donna vedova che vuole a tutti i costi che le venga fatta giustizia e il giudice che non glene frega niente della donna e dei suoi problemi, ma siccome questa continua ad insistere (per usare un’immagine che può dare l’idea, come una mosca che continua a ronzarti intorno o come una zanzara che continua a pungerti) le da quello che chiede. E Gesù conclude dicendo: se questo giudice disonesto ha concesso giustizia a questa donna, Dio padre non ascolterà il grido di coloro che si fidano e si affidano a Lui?
Per un cristiano la preghiera deve essere come per un essere umano l’aria che respira. Ascoltiamo questa storia:
Un giorno, un giovane monaco pose una domanda al suo Abate: signor Abate, vorrei sapere cos’è la preghiera. L’abate lo portò al centro del chiostro dove c’era una fontana, e ripetutamente prese la testa del giovane monaco e la immerse per un po’ di minuti nella fontana, al punto che il povero stava per affogare. Il giovane monaco, seccato, disse: signor Abate perché mi avete fatto questo? L’Abate rispose: non volevi sapere cosa fosse la preghiera? La preghiera è come l’aria che tanto desideravi mentre eri sott’acqua.
Infine la preghiera non è riempirsi la bocca di parole; non è dire formule a memoria; la preghiera è anzitutto ascolto, di un Dio che mi parla ed io apro le orecchie e il cuore perché ha qualcosa di importante da dire alla mia vita. Ascoltiamo:
Un giorno un giovane monaco disse al suo maestro: “Abbà, dimmi qual è l’opera più difficile del monaco”, e l’altro rispose: “Dimmi tu quale pensi che sia”. Il giovane monaco disse: “Forse è la vita comune”, ma l’abbà rispose: “No, no, figliolo, prima o poi gli uomini, per cattivi che siano, a forza di stare insieme, si vogliono bene”. L’altro riprese: “Ma allora qual è? La castità?”. “No, figliolo, tu senti la castità come un problema grosso perché hai vent’anni, ma aspetta ancora qualche anno, e tutto si acquieterà”. “Ma allora cos’è, padre, l’opera più difficile del monaco? Forse la teologia, studiare Dio, parlare di Dio?” L’abbà gli disse: “No figliolo, guardati intorno: quanti ecclesiastici parlano di Dio dalla mattina alla sera! Sei mai stato nelle chiese? Tutti discutono su Dio!… No, no – continuò l’anziano – è tanto facile parlare su Dio, molta gente di Chiesa se non avesse quello da fare non saprebbe come passare la giornata”. “A questo punto dimmelo tu, abbà, qual è l’opera più difficile del monaco”. “È pregare – pregare dando del tu a Dio! Questa è l’opera più difficile”».
Pregare è imparare, a fatica, a dare del “Tu” a Dio. Pregare è desiderare di avere una relazione, un rapporto, un dialogo con Lui. Per questo che la preghiera è difficile, meglio dire impegnativa: perché è l’incontro di due alterità, come in una coppia; ciò richiede l’umiltà del saper ascoltare, del saper ringraziare, del saper domandare, del saper chiedere scusa. Del fidarsi di un “altro” che tiene a te e ti vuol bene.
E se ci dovesse capitare di provare la sensazione che Dio non ascolti le nostre preghiere, ricordiamoci che Dio non sempre esaudisce i nostri desideri, ma sempre realizza e mantiene le sue promesse di bene (D. Bonhoeffer).
XXVIII domenica del T.O. – anno C – 2019 Lc 17,11-19
Gesù è in viaggio verso Gerusalemme: il ‘grande viaggio’, secondo Luca. Non prende scorciatoie, anzi allunga il tragitto.
Prima osservazione: Gesù attraversa Galilea e Samaria: attraversare significa desiderio di conoscere, di imparare, di mettersi in gioco, di incontrare, di creare relazioni. Gesù non gioca in difesa ma si espone, la rischia, ci prova. Un Dio “in trincea”… noi siamo figli di un Dio così… un Dio che non si tira indietro ma gioca d’anticipo!
Gesù supera i confini e va a trovare chi si sente lontano da Dio, chi la pensa diversamente da lui, chi non ha le sue stesse tradizioni, il suo credo religioso, la sua cultura. Gesù cerca l’incontro; lo provoca, lo stimola, crea le condizioni perché avvenga…
Sono uno che cerca l’incontro? Oppure cerco lo scontro? Oppure sto bene solo con me stesso? O solo con quelli che mi danno ragione?
In questa ricerca Gesù trova dei lebbrosi.
Lebbrosi lo siamo un po’ tutti. La lebbra è una malattia che emargina ma soprattutto è un virus che ti chiude e ti fa sperimentare la solitudine. Che cos’è l’inferno se non il sentirsi soli, abbandonati da tutti?
Quali sono le nostre, le mie lebbra (le mie malattie, le mie dipendenze)?
- L’individualismo…
- Il consumismo…
- Le ideologie…
- Lo sfruttamento delle risorse del pianeta, l’inquinamento ambientale ma non solo, anche l’inquinamento delle parole e della verità: pensiamo a tutto il dibattito sulle fake news…
Uno torna e ringrazia. Gli altri nove spariscono.
C’è chi vive in atteggiamento del “tutto mi è dovuto” (anche in famiglia!); c’è chi invece sperimenta la gratuità e dunque la riconoscenza. Siamo chiamati a riconoscerci debitori e non creditori!
Sant’Ignazio di Loyola diceva: “prega come se tutto dipendesse da Dio e lavora come se tutto dipendesse da te”.
“Alzati e và, la tua fede ti ha salvato!”
Alzati: vivi da risorto, da uno che si lascia rialzare dalla forza che proviene dal Signore.
Và: continua a camminare; non fermarti… Dice un canto: non cedere alla notte!
La fede ti salva: era il tema del vangelo di domenica scorsa. Fede: fiducia in Dio per avere fiducia in me stesso e negli altri.
XXVII domenica del T.O. – anno C – 2019 Lc 17,5-10
Il vangelo di questa domenica inizia con una accorata richiesta dei discepoli a Gesù: “Signore, accresci in noi la fede!” (v.5); potremmo anche tradurre: “Signore fai crescere in noi la fede!”
Per cogliere bene il senso di questa frase occorre far riferimento al contesto in cui è stata detta: siamo nel capitolo diciassettesimo del vangelo di Luca e Gesù ha appena pronunciato un discorso sull’inevitabilità degli scandali e sulla necessità del perdono senza condizioni. Ascoltando questo insegnamento gli apostoli si pongono una domanda: “e chi ce la fa a vivere così? A mettere in pratica tutto questo?”
Per questo i dodici pongono a Gesù una delle più belle, più sincere, più semplici ma anche più grandiose dell’esperienza cristiana: “fai crescere in noi la fede!”
Cosa dice questa richiesta?
- Anzitutto che la fede è un dono di Dio e non un merito dell’uomo, dei suoi sforzi e della sua bravura (eresia pelagiana). Anche la frase che chiude la prima lettura che abbiamo ascoltato va su questa linea: “il giusto vivrà per la sua fede”, dove qui è la fede che ti rende giusto; non sei tu che ti conquisti il ‘podio’ della giustizia! La fede ce l’hanno tutti: occorre avere gli occhi adatti per riconoscerla!
- “Fai crescere”: la fede è dinamica: può crescere, può regredire. L’unica cosa che la fede non può fare è stare in stand by, immobilizzata, paralizzata, bloccata. Domandiamoci: la mia fede sta crescendo? Cosa la fa crescere? La mia fede sta regredendo? Cosa la fa regredire?
- I discepoli chiedono a Gesù il dono della fede. Non chiedono a Dio di essere buoni e bravi, perfetti. Non chiedono il dono di andare sempre a messa; non chiedono di conoscere tutta la Bibbia a memoria; non chiedono di entrare nella ‘stanza dei bottoni’… (a dir la verità glelo avevano già chiesto prima ma era andata loro male…)
- Infine ci soffermiamo sul termine: fede. Evidentemente i discepoli stano chiedendo la fede in Gesù. Ma questa fede “cristiana” non è per niente staccata da quella che possiamo chiamare fede ‘antropologica’: fiducia in italiano.
La fede stimola la vita e la vita alimenta la fede: è un movimento circolare!
Fede: fiducia in Dio, fiducia nella vita, fiducia in me stesso; fiducia negli altri; fiducia nella storia, nell’avvenire, nel futuro; fiducia nei traguardi raggiunti; fiducia anche nelle batoste, nelle ferite, nelle sofferenze; fiducia nell’incomprensibile, nell’imprevedibile, nello sconvolgente, del destabilizzante…
Perché avere fiducia? Perché la fiducia fa miracoli: essa è quella forza divino-umana capace di sradicare le montagne, di far cambiare il corso dei fiumi; di cambiare i cuori, le anime, le persone. Capace di farti fare cose che mai avresti pensato potessi fare…
Non temere! Continua solo ad avere fede! (Mc 5,43)
Prova a pensare cosa significa ‘aver fede’…
- Quando non ne va in fila una… e senti il mondo crollarti addosso…
- Quando ti sembra di aver sbagliato tutto…
- quando hai sulle spalle un tradimento che non riesci a portare…
- quando hai genitori da accudire…
- quando hai dei figli da far crescere, che fanno il contrario di ciò che tu hai loro insegnato…
- quando il tuo corpo e la tua testa sembrano non funzionare più come vorresti…
- quando hai perso una persona cara, un punto di riferimento…
- quando sembra che tu abbia perso te stesso/a; quando non sai più chi sei, non sai più dove vai, non sai più per chi corri, per chi ti affanni, per chi ti impegni, per chi ti sacrifichi…
- quando anche la più piccola e fioca fiamella sembra stia per spegnersi…
Dare fiducia, ottenere, conquistarsi la fiducia altrui, è la grande avventura della vita; è la sfida delle sfide, è giocarsi tutto, è decidere di vivere o morire.
Signore, concedimi il dono di fidarmi totalmente di te, per fidarmi di me, per imparare a fidarmi degli altri, offrendo loro fiducia.
Infine, l’ultima parte del vangelo ci dice che la fede ci porta nel campo dell’inutilità: chiamati a riconoscerci “servi inutili” non perché non abbiamo niente da fare, ma perché facciamo ciò che non torna nel conto della spesa; perché non entriamo più nel sistema rivendicativo di chi accaparra diritti e ricompense dovute: “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8).
XXVI domenica del T.O. – anno C – 2019 Lc 16,19-31
Il vangelo di questa domenica ci propone ancora una volta (come le domeniche precedenti) il tema della ricchezza, e lo fa attraverso una parabola (meglio sarebbe dire un racconto con finalità catechetica) semplice, diretta, che non ha bisogno di una dettagliata spiegazione: la si capisce al volo!
Il racconto narra la storia di un ricco (una volta veniva chiamato epulone, cioè di una ricchezza ingorda, esagerata, ostentata, “grassa”) e di un povero, di Nome Lazzaro (vv.19-21). Interessante notare che il povero viene chiamato per nome, al contrario del il ricco che rimane “innominato”.
Nella seconda parte del brano (v.22) è raccontata la morte dei due personaggi: Lazzaro viene accolto da chi impersonifica la fede ebraica, il patriarca Abramo; mentre il ricco è “nei tormenti”, simbolo del dolore causato dalla lontananza da Dio, sorgente della vita eterna.
Nella terza sezione (vv.21-32) viene descritto il destino dei due, che segna un capovolgimento, un ribaltamento delle rispettive situazioni: Lazzaro è accolto da Abramo; il ricco invece patisce la lontananza da Dio (gli inferi).
Prima affermazione: il ricco non sta male, non soffre perché è ricco ma perché è un egoista, ripiegato su se stesso, chiuso all’amore di Dio e dei fratelli. Il povero non viene accolto da Dio in quanto povero in sé ma perché ha fatto della sua povertà una occasione per aprirsi a Dio.
E’ importante capire bene il senso di questo racconto, attraverso il quale Gesù vuole farci riflettere sull’agire di Dio.
Cosa fa Dio? Dio privilegia il povero. Ma non il povero in quanto tale, non il povero in senso solamente sociologico del termine. I “poveri di JHWH (makairoi)” di cui parla la Bibbia sono “i mendicanti”: coloro che, sperimentando una necessità, un bisogno, un vuoto, gridano a Dio, tendono a Lui le loro mani, si fidano e si affidano, credono fermamente che Dio possa essere loro vicino, possa essere il loro conforto, il loro sostegno, la loro forza per risorgere, per rinascere, per ricominciare, per rialzarsi in piedi.
Essere poveri nella Bibbia non è prima di tutto una situazione, una condizione; è un atteggiamento, una disposizione del cuore. Gesù ci invita a riconoscere la nostra povertà, affidandoci a Lui.
Il povero a livello sociologico (povero di mezzi, di beni) di per sé è neutro (nè cattivo nè buono): può vivere da persona risentita, rancorosa, pretenziosa, arrogante, ripiegata su di sé, oppure può fare della sua situazione esistenziale un trampolino di lancio per far crescere la propria fede. Il povero tuttavia ci ricorda chi siamo: non gente che conquista, gente che accaparra, che sfrutta ma gente che riceve, gente che sperimenta che le cose importanti che costituiscono la nostra vita sono puro dono, immeritato e gratuito: la vita, l’amore, l’amicizia, la famiglia, il dono dei figli…
Il povero comunque ci pro-voca. In che modo?
- Anzitutto stando attenti a tutte le forme di povertà, perché non c’è solo la povertà materiale, ma ce ne sono tante altre della stessa gravità: la povertà culturale, la povertà affettiva, la povertà relazionale, la povertà (che chiamiamo fragilità) psicologica…
- E poi la povertà ci pro-voca, come uomini e come cristiani, alla lotta, al combattimento, alla reazione di fronte soprattutto allo sfruttamento e alla violenza di tanti nostri fratelli e sorelle; alle tante vite calpestate e umiliate, dall’ingordigia di chi pretende di avere potere sugli altri, di chi si sente in diritto di sfruttare le persone; di calpestare la loro dignità e i loro diritti. (Nella parabola il ricco, ormai nell’aldilà, continua a sfruttare Lazzaro, a considerarlo un suo servo, un suo schiavo, che deve fare le cose che lui gli dice).
E qui mi vengono in mente i grandi problemi sociali, che affliggono il mondo del lavoro (compresa la nostra nazione):
Quanta gente sfruttata nel mondo del lavoro, soprattutto donne e bambini; quanta gente sfruttata da cooperative; dal caporalato, da aziende che hanno fatto dello stile mafioso o clientelare il loro modo di fare impresa…
Ma anche il tema dello sfruttamento coloniale (chiediamoci il perché di tanti flussi migratori provenienti dall’Africa); il tema della delocalizzazione del lavoro; la piaga dolorosissima delle “morti bianche” (le morti sul lavoro).
Gesù in questa domenica ci sta dicendo: se vuoi essere mio discepolo non puoi prescindere da alcuni valori fondamentali, quali l’onestà, la giustizia sociale, il corretto uso dei tuoi beni, dei tuoi talenti e delle tue qualità. Non vivere da egoista, vivi una vita dignitosa, ringrazia per ciò che hai e metti a disposizione di chi ha bisogno ciò che sei chiamato a riconoscere come dono e non come conquista tua.
Ultima annotazione: alla fine del vangelo troviamo la risposta che Abramo da al ricco, in riferimento ai suoi fratelli: “Se non ascoltano Mosè e i profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti (v.31).
Una frase enigmatica… ma non troppo: Gesù ci sta invitando a riflettere che la sua risurrezione non convince la gente con la forza dell’evidenza o del miracolo. Per credere nella risurrezione occorre il rischio della conversione e della fiducia. Gesù diventa accessibile e noi possiamo accettarlo o rifiutarlo solo nell’esperienza di fede (F.Bovon).
XXV domenica del T.O. – anno C – 2019 Lc 16,1-13
Il vangelo di questa domenica ci ha presentato una delle parabole più ostiche e di difficile interpretazione di tutto il vangelo: la parabola dell’amministratore disonesto ma scaltro.
Anzitutto possiamo dire che Gesù non vuole assolutamente lodare la disonestà di questo amministratore e neanche la sua infedeltà al padrone.
Il padrone della parabola invece loda la scaltrezza del servo che lo ha truffato. Perché? perché i figli di questo mondo sono più scaltri dei figli della luce (v.8b).
Un teologo afferma: se i figli della luce mettessero nelle cose dello Spirito, cioè nel loro rapporto con Dio, l’intelligenza e la tempestività che gli imbroglioni mettono nelle loro imprese truffaldine e nel loro malaffare, la Buona Notizia si sarebbe già diffusa in tutto il mondo! (B.Corsani)
Cosa intende l’evangelista (e dunque Gesù stesso) con il termine “scaltrezza”?
- Anzitutto si sottolinea l’urgenza e la prontezza di prendere una decisione, rischiando (perché una decisione non si prende mai a ‘rischio zero’). Decidersi per Dio non è una scelta che si può tirare per le lunghe o “balà n’dal manèch” come si dice nell’espressione dialettale…
- In seconda battuta possiamo notare la determinazione dell’azione del servo: non sta tanto a pensare, a rimuginare… agisce, consapevole delle conseguenze della sua decisione.
- Terzo significato della scaltrezza è la capacità di mettere tutte le proprie forze ed energie a servizio di un obiettivo. Il servo disonesto ha come obiettivo la ricchezza e mette questa sua qualità a servizio di quest’ultima. Ma pensiamo anche a tutte quelle persone che vivono con passione altre scelte o attività, ad esempio politiche, economiche, sportive… magari ci siamo dentro anche noi..), notiamo che sono molto impegnate, cariche di passione, si danno da fare con grande entusiasmo… tutto questo ci dice che spesso ci impegniamo un sacco verso cose che hanno importanza relativa, poi, sulle cose della fede arranchiamo, siamo pigri, abitudinari, stanchi, annoiati, scontenti…
Il cristiano invece deve mettere tutte le sue forze, le sue energie, la sua determinazione per arricchirsi davanti a Dio (san Paolo).
Gesù infatti ci ha detto: non potete servire Dio e la ricchezza (v.13), dove il verbo servire significa “farsi un idolo”, prostrarsi, trovarsi schiavi.
Qui Gesù fa riferimento alla ricchezza materiale ma non solo: ricchezza materiale perché indurisce il cuore dell’uomo ma soprattutto perché lo illude di essere autosufficiente, di bastare a se stesso, di non aver bisogno di niente e di nessuno.
E se ti senti a posto, giusto, appagato, sazio, con tutti i conti in ordine, come l’uomo che non deve chiedere mai (come diceva una nota pubblicità di alcune decine di anni fa), allora stai sicuro che non sentirai mai il bisogno di Dio e se anche Dio dovesse venire a bussare alla tua porta, le tue orecchie saranno sorde. In questo senso, mi sembra molto vera la frase: “Dio ti parla perché tu hai scelto di ascoltarlo”.
Cari fratelli e sorelle, non stanchiamoci di cercare la vera ricchezza, e di farlo con scaltrezza, con quella prontezza, con quella decisione, con quel coraggio di chi sa che “dov’è il suo tesoro, là è anche il suo cuore” (Mt 6,20).
XXIV domenica del T.O. – anno C – 2019 Lc 15,1-10 (forma breve)
Il vangelo di questa domenica ci offre come spunto di meditazione per la nostra vita di fede l’intero capitolo 15esimo di Luca. Qui incontriamo le parabole della misericordia, che ci rivelano il volto di un Dio misericordioso: non acido, vendicativo, rancoroso permaloso, ma “Abbà”, ‘padre’, che vuol bene ai suoi figli, in special modo a coloro che sbagliano, riconoscono il proprio peccato, la propria fragilità e finitudine, il proprio limite, e non si fanno remore di chiedere aiuto a Dio, andando incontro a Lui con il fardello della loro sofferenza, della loro fatica, della loro vergogna.
Questo è colui che chiamiamo, nella nostra tradizione cristiana, il “cristiano peccatore”:
- colui che non ha problemi di farsi vedere ‘nudo’ davanti a Dio, perché sa di trovarsi davanti all’amore fatto carne, alla sorgente dell’amore.
- Il peccatore, è anche colui che smette di difendersi, si mostra davanti a Dio smascherato, indifeso, con le sue debolezze e fragilità, avendo la certezza incrollabile che proprio quelle debolezze e fragilità, messe nelle mani di Dio, diventano forza per ricominciare.
A chi gli chiedeva: “Abbà, che cosa fai oggi?”, Antonio, il padre dei monaci, ormai novantenne, rispondeva: “Io oggi ricomincio”.
- Colui che nella sua preghiera dice “Signore, amami, amami soprattutto quando me lo merito meno, perché sarà il momento che ne avrò più bisogno”.
Se ci mettiamo davanti a Dio così siamo sicuri di una cosa: che lo rendiamo il Dio più felice del mondo: “ci sarà più gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte che per novantanove che si presumono giusti e che pensano di non aver bisogno di conversione”, dice Gesù.
E cosa fa Dio quando lo riconosciamo come “Padre buono, misericordioso, lento all’ira e grande nell’amore, che non ci tratta secondo i nostri peccati, e non ci ripaga secondo le nostre colpe (salmo 103)?
Fa festa, gioisce, le sue viscere si muovono a compassione (il significato della parola ‘misericordia’), le farfalle iniziano a volare nel suo stomaco… Dio è fiero di noi, perché la nostra forza sta nel mettere in Lui la nostra fragile vita.
Oltre alle parabole della misericordia, in settimana, andiamoci a rileggere l’incontro di Gesù con Zaccheo. A proposito di questo episodio, concludo con una storiellina:
In una parrocchia francese, la catechista detta la preghiera del ‘Padre nostro’ ai bambini. Quando si mette a correggere il compito, segna come errore la frase: «Que ta volontè soit fête» che significa: «che la tua volontà sia festa». La catechista riconsegna il ‘Padre nostro’ corretto al bambino e gli dice: «Hai fatto un errore». Il bambino risponde: «no maestra, non è stato un errore; ho voluto proprio scrivere così». Quel bambino si chiamava Zaccheo
Quel bambino può essere ciascuno di noi, se avremo il coraggio di accogliere nella nostra vita il vero volto di Dio, che ci ha rivelato Gesù. La conversione sta tutta qui!
XXIII domenica del T.O. – anno C – 2019 Lc 14, 25-33
Dopo la sosta nella casa di un capo dei farisei (il vangelo di domenica scorsa) Gesù riprende il cammino verso Gerusalemme. Siamo in un momento particolarmente felice e favorevole per il ministero pubblico di Gesù e Luca lo sottolinea: una folla numerosa andava con Gesù (v.25).
A questa folla Gesù impartisce un insegnamento che a prima vista sembra smorzare gli animi, tarpare le ali, raffreddare i facili entusiasmi: al Signore non interessano i grandi numeri ma la qualità della vita cristiana e l’autenticità nel viverla. E infatti comunica le condizioni per essere suoi discepoli: impegnative, serie, esigenti, radicali.
26«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.
Il verbo greco utilizzato addirittura parla di “odiare”… Che significa? Non che dobbiamo disprezzare i legami familiari ma che questi trovano il vero senso e assumono il giusto significato e il giusto posto solo nella relazione con il Signore: nel rapporto con Lui i nostri rapporti personali vengono arricchiti, trasfigurati, vissuti nella loro verità più profonda. Amare per amore e nell’amore di Cristo.
27Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
La vita stessa e il discepolato sono “un portare la propria croce” e unirla a quella di Cristo. Per tanti di noi non sono parole vuote o teoriche ma vita vissuta:
- essere discepolo è accettare le proprie fragilità e farle diventare motivo di crescita;
- essere discepolo è fare il proprio dovere, anche quando costa;
- essere discepolo è vivere onestamente il proprio lavoro;
- essere discepolo è prendersi cura dei propri cari;
- essere discepolo è caricarsi delle croci degli altri, anche se fa male o non ce la si fa;
- essere discepolo è stare sempre dalla parte della verità, magari anche pagando di persona, senza alimentare menzogne, calunnie, violenze fisiche o verbali;
- essere discepolo è accettare la diversità dell’altro come una ricchezza e non come un limite;
- essere discepolo è tenere desta la propria coscienza e orientarla verso il bene.
Nella seconda parte del vangelo troviamo due parabolette: quella della torre e quella del re in battaglia. Gesù ci invita e ci ricorda che l’avventura della fede non è una passeggiata priva di ostacoli; che la sequela non è una “toccata e fuga”; che l’andare dietro a lui (e non stagli davanti!) non deve essere un fuoco di paglia, ma richiede tempo, pazienza, impegno e perseveranza, tra grandi slanci, brusche frenate, rovinose cadute, sorprendenti rinascite.
Il vangelo di Giovanni si conclude con Gesù che dice a Pietro: “Seguimi” (21,19). Seguire Gesù è una cosa seria: significa dimenticarsi per ritrovarsi in Dio; significa riconoscersi fragili per ritrovarsi forti; significa riscoprirsi miti e umili per sperimentare la vera grandezza.
Facendo sintesi, mi piace concludere parafrasando una frase di sant’Ignazio di Loyola: “agisci come se tutto dipendesse da te, sapendo che in realtà tutto trova la sua sintesi in Dio”.
XXII domenica del T.O. – anno C – 2019 Lc 14,1.7-14
L’insegnamento che Gesù ci rivolge in questa domenica è chiaro, semplice e diretto: per essere felice e per far felici gli altri devi camminare sulle strade dell’umiltà e della mitezza. Un insegnamento quanto mai attuale in una società e in un mondo (Chiesa compresa) dove chi urla di più è il più ascoltato; dove chi sgomita riesce ad avere i posti migliori; dove chi si impone sugli altri ha quasi sempre la meglio. Gesù ci sta dicendo: a prima vista (e a breve termine) il mondo sembra andare così, ma le cose realmente (e a lungo termine) non vanno in questo modo: alla fine i nodi vengono sempre al pettine e alla fine la giustizia viene sempre ristabilita, anche perché il tempo fa il suo corso e prima o poi smaschera soprusi, violenze, imposizioni, vessazioni e ingiustizie. Mi piace questa frase e la considero profondamente vera: “I furbi si credono furbi ma alla fine verranno smascherati dalla loro stessa falsa furbizia”.
Lungo il cammino che lo conduce verso Gerusalemme Gesù si prende una pausa e si ferma a pranzo in casa di un capo della sinagoga: l’atteggiamento nei confronti del Rabbì di Nazareth non è dei più benevoli: il fatto che i farisei stessero ad osservarlo indica che lo tenevano sotto controllo. Gesù a sua volta li osserva (c’è un gioco di sguardi) e scruta il loro comportamento: “diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti”.
Qui salta fuori la nostra smania di protagonismo, di essere i primi: sul posto di lavoro, in famiglia, nel gruppo di amici… lo si può fare con i gesti, ma anche con le parole e con lo stile di chi vuole imporre la propria persona, le proprie ragioni, il proprio modo di vedere le cose. Di chi non si lascia arricchire dagli altri ma pretende di avere sempre la verità in tasca. Come irritano persone del genere! E magari in questa categoria ci siamo dentro anche noi… Gente permalosa, invidiosa, spaccona, rancorosa, acida, mai contenta di niente e di nessuno…
Gesù non parla per sentito dire ma porta il suo esempio personale, il suo stile di vita:
- È lui che ha scelto l’ultimo posto, fin dalla nascita: “non c’era posto per loro nell’albergo…” (Lc 2,7)
- E’ lui che disse: “chi è il più grande? Chi sta a tavola o chi serve? Non è forse chi sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27-28)
La parabola si conclude con un detto sapienziale che chiama in causa Dio stesso: “chiunque si esalta, sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”, a conferma del fatto che Dio osserva l’agire e il cuore dell’uomo e che la giustizia verrà da Lui (e dalla vita) ristabilita.
Ricordiamoci le parole di san Paolo nell’inno ai Tessalonicesi (2,6-11): 6(Gesù), pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, 7ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, 8umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. 9Per questo Dio lo esaltò…
Nella seconda parte del vangelo Gesù invita i suoi interlocutori a non cedere alle relazioni costruite sul contraccambio (io ti do, tu mi dai) ma ad aprirsi alla gratuità: ‘dai a chi non ha da ricambiarti’.
Nella nostra esperienza quotidiana il gratuito lo guardiamo con diffidenza, con sospetto, cerchiamo sempre la fregatura. Eppure quando la gratuita irrompe nella nostra vita, ci stupiamo, ci meravigliamo, proviamo qualcosa simile alla gioia: è lì che sperimentiamo la bellezza del sentirci riconosciuti, importanti per il semplice fatto di esistere per qualcuno, amati per quello che siamo, senza se e senza ma: «Non me l’aspettavo! Perché proprio a me?».
Il gratuito è immeritato, e proprio per questo toglie il fiato, fa sobbalzare, apre la porta al mistero. La gratuità ci accompagna nel comprendere il concetto di grazia e di graziati, ovvero riscattati gratuitamente: gratuito è ciò che è dato e fatto appunto per grazia, senza compenso, senza contraccambio. È «uno stile, un modo di vivere, che consiste nell’accostarsi all’altro, a se stesso, alla natura, a Dio, non per possederli o per utilizzarli a proprio vantaggio, ma per riconoscerli nella loro alterità, rispettarli, amarli, servirli» (L. Bruni). Richiede un cambio di prospettiva; costringe a un rovesciamento: dall’io al tu, dal calcolo al dono.
È capace di gesti genuinamente gratuiti chi si riconosce graziato, perché la gratuità non si insegna, si sperimenta ed è nel riconoscere di essere destinatari di un amore traboccante che ci si scopre desiderosi di dare; non vasi vuoti da colmare, ma contenitori di un’eccedenza che non può che versarsi all’esterno.
Il gratuito è la strada che Gesù ci mostra per vivere in pienezza la nostra umanità: Lui sa che possiamo tendere a questo, pur con i nostri limiti e i nostri difetti.
Pensando alla nostra vita, ci accorgiamo che spesso le persone che hanno lasciato un segno sono quelle che ci hanno amato gratuitamente, senza la pretesa di essere ringraziate e di vedere i risultati.
O ancora, le persone in cui abbiamo osservato ed ammirato la mancanza di misura, il saper andare oltre il calcolo: sul lavoro, nel volontariato, nella famiglia, questa umanità semplice e al tempo stesso straordinaria ci ha mostrato la bellezza del fare per il gusto di fare, ci ha fatti interrogare sulla sorgente di tanta passione e di tanta energia, ci ha condotti a Dio.
Per loro proviamo gratitudine: non solo ci sono rimaste nel cuore, ci hanno anche contagiato, generando in noi il desiderio di fare altrettanto.
Educare alla gratuità è allenare lo sguardo a riconoscere questi testimoni del volto del Dio amore. Da questi amici, parenti o perfetti sconosciuti può nascere il desiderio di fare esperienza di gratuità.
Chi si mette in gioco nel servizio, spesso constata: «Ho ricevuto più di ciò che ho dato».
Si tratta di un’esperienza particolarmente forte per i giovani: toccare con mano che ciò che si dona ritorna moltiplicato sul volto dell’altro, che c’è più gioia nel dare che nel ricevere, costituisce un volano di fiducia, una spinta a camminare sulla strada della carità, al proiettarsi verso l’altro. Aiuta a comprendere che la felicità non ha nulla di solitario, richiede sempre un Tu da incontrare, da accogliere, da amare.
Perché “la misura dell’amore è amare senza misura”.
XXI domenica del T.O. – anno C – 2019 Lc 13,22-30
Il vangelo di oggi non è affatto simpatico, accondiscendente, accomodante. Il vangelo di oggi è ruvido, provocante, inusuale soprattutto per san Luca, il pittore, il narratore della misericordia di Dio, della sua infinita tenerezza e compassione per l’umanità sofferente.
Ma dobbiamo metterci nell’ottica che chi ama veramente non ti dice solo quello che vuoi sentirti dire; chi ama veramente corregge (l’abbiamo sentito anche nella seconda lettura: il Signore corregge colui che ama e provoca chiunque riconosce come figlio); chi ama veramente ti pro-voca perché tiene a te, alla tua felicità, alla tua salvezza. Così Dio fa oggi con ciascuno di noi e con la sua Chiesa.
Non sto qui a spiegare tutta la parabola evangelica. Vorrei sottolineare solo l’introduzione e la frase centrale.
Anzitutto l’introduzione: Gesù sta insegnando per città e villaggi mentre è in cammino verso Gerusalemme. Non è un’annotazione di poco conto: Gerusalemme è la città che uccide i profeti; è la città dove Gesù dove Gesù vivrà l’esperienza della passione, morte e risurrezione, il mistero pasquale, è la città della porta stretta! Ma Gerusalemme è piena di porte larghe, di porte monumentali… di quale ‘porta stretta’ parla Gesù? E’ la porta della croce, del sacrificio di sé, del dono della vita, del “questo è il mio corpo, questo è il mio sangue per la remissione dei peccati”.
Per questo Gesù, di fronte al tipo che gli chiede: «Signore sono pochi quelli che si salvano?», dove dietro a questa domanda non c’è un interesse statistico, ma il tale sta chiedendo, implicitamente, se anche per lui può esserci salvezza, Gesù risponde con la frase più importante di tutta la parabola, che la illumina e la interpreta: «Sforzatevi di entrare dalla porta stretta». Dove questa porta non è nient’altro che la porta della vita.
Gesù ci sta dicendo: entra nella vita, nella tua vita, nella vita degli altri, nella vita del tuo popolo, nella vita sociale, nella vita politica, nella vita lavorativa… non stare alla finestra! Non pensare ai fatti tuoi… se vuoi vivere la vita intensamente e in pienezza non puoi viverla da egoista! La porta larga, che ti conduce ad un’immensa tristezza e ad un immenso vuoto è la vita ripiegata su di sé. La porta stretta è la vita donata, offerta, regalata! San Giovanni Paolo II diceva ai giovani: “prendete in mano la vostra vita e fatene un capolavoro”!
Il Signore oggi ci dice: prendi in mano la tua vita, non farla vivere ad altri, non fartela passar sopra la testa, non passarla solo a soddisfare i tuoi bisogni personali, vivendo da egoista, perché morirai da egoista e non avrai sperimentato la felicità che niente e nessuno ti potrà togliere: l’esperienza dell’amore, che per essere tale, deve essere amore donato prima che ricevuto.
Gesù ci dice: sforzati di entrare nella vita (perché si può vivere un’intera vita senza esserci mai entrati), ma da che parte? Dalla porta stretta! Perché dalle porte larghe ci passano tutti… e se la porta è larga c’è sempre dietro l’angolo la fregatura!
“Se vuoi qualcosa di bello e che duri, devi far fatica; se trovi qualcosa di bello a basso prezzo o senza impegno, è pura illusione e a breve termine la cosa stessa ti presenterà il conto”.
Quali sono queste porte strette che dobbiamo attraversare?
- È la porta di un lavoro onesto e dignitoso, che non cerca di fregare gli altri o di spremerli fino all’osso, ma rispetta i clienti in quanto tali e in quanto persone…
- E’ la porta stretta di una relazione a due che si impegna e si rinnova nella fedeltà, nella ricerca del bene dell’altro, nella comunione della vita…
- E’ la porta stretta di rapporti tra genitori e figli e parentele varie che ogni giorno devono trovare un nuovo (spesso instabile) equilibrio…
- E’ la porta stretta di relazioni amicali che non impongono ma si alimentano di ascolto, di prossimità, di vicinanza, di sostegno reciproco…
- E’ la porta stretta di un vivere sociale e politico di chi non guarda solo al proprio tornaconto personale ma al bene di tutti; di chi non si sente onnipotente ma con umiltà si mette a servizio; di chi non cavalca i mal di pancia della gente ma aiuta a far funzionare il cervello, offrendo soluzioni possibili e non vendendo fumo…
- E’ la porta stretta della sofferenza che ciascuno di noi porta dentro, magari nel segreto… sofferenza psicologica, sofferenza fisica, sofferenza affettiva… dolori che vengono trasfigurati, combattuti, accettati, a volte superati anche e soprattutto attraverso l’esperienza della fede, dell’amore, della socialità.
“Sforziamoci di entrare dalla porta stretta, perché è l’unica che ci consente di entrare nel mondo di Dio e nel mondo dell’uomo”.
XX domenica del T.O. – anno C – 2019 Lc 12,49-53
E’ molto bella l’immagine che san Paolo utilizza nella seconda lettura di questa domenica per parlarci della fede: la fede è come una corsa (io ci aggiungerei ad ostacoli), dove lo sportivo mette tutta la sua energia, la sua passione, la sua forza per raggiungere il premio sperato e àmbito.
Questa metafora-similitudine ci dice tante cose:
- Innanzitutto che fede e pigrizia non possono stare insieme. La persona pigra, “divanata” come direbbe papa Francesco non solo non combina niente nella vita ma non avrà neppure la spina dorsale per vivere l’avventura della fede, che per essere tale deve avere in sé un certo dinamismo, una certa vitalità.
- La seconda caratteristica è che la fede ti fa sudare, ti fa perdere energia, ma ti libera anche dalle tossine, dai grassi saturi, dalle sostante che ti appesantiscono.
- La terza caratteristica è una ferrea disciplina. Ce lo dicevano già i padri del deserto: se vuoi ottenere qualcosa la virtù più importante da mettere nello zaino è perseveranza, la costanza… la fede si nutre di vita quotidiana, di azioni rinnovate, distese nel tempo.
- La quarta, forse la più importante è quello di correre per qualcosa, per qualcuno. Quante volte ci capita di correre a vuoto, e quando ce ne accorgiamo, che tristezza! Correre senza sapere dove andare è davvero triste. E la mèta che da senso al viaggio!
- La fede allora è una scelta. La fede non è una tradizione che ti appioppano addosso altri. La fede è scegliere, decidere di credere e disporre la propria vita in vista di questo obbiettivo. E quando scegli, inevitabilmente lasci qualcosa per accogliere qualcos’altro. Ecco allora la differenza tra la fede e la religione. Un insieme di riti che compi per diversi motivi non ti fa un uomo o una donna credente. La fede, per essere vera, deve trasformarsi in vita vissuta: onesta, impegnata, laboriosa, a servizio del bene. Per questo mandiamo tutta la nostra alla diocesi di Oppido-Mamertina, in provincia di Reggio Calabria, che sta lottando per tentare di eliminare la mafia che ancora oggi cerca di annidarsi nella religiosità popolare (avete sentito la notizia di ieri ai telegiornali).
Su questa linea va il vangelo di questa domenica: spigoloso, radicale, esigente: Gesù parla di fuoco, parla di battesimo della croce, parla di pace che non è assenza di conflitto ma verità di un’esperienza, che ha un suo prezzo nel sangue di Cristo e di tanti suoi discepoli.
Dice il cardinale Angelo Comastri in una sua recente omelia su questo passo evangelico:
Infine, dopo aver parlato di corsa, mi piace ricordare la figura di Felice Gimondi, morto ieri a causa di un malore a 76 anni. In una recente intervista affermava: «ho vinto tanto nella mia vita. La cosa che più mi amareggia e mi rattrista della mia carriera? L’aver trascurato il rapporto con mia moglie nei primi anni di matrimonio e l’aver perso i primi anni delle mie figlie… queste cose valgono più di tutte le più grandi vittorie».
SOLENNITA’ DELL’ASSUNZIONE DI MARIA – 2019
Nel cuore dell’estate celebriamo la solennità più importante e più antica dedicata alla beata vergine Maria: la sua assunzione al cielo in anima e corpo, cioè in tutta la sua realtà: di donna, di madre, di discepola credente. Dice infatti il prefazio: “tu non hai voluto che conoscesse la corruzione del sepolcro colei che ha generato il Signore della vita”.
Maria partecipa della risurrezione di suo Figlio: prima Cristo, come ci ha ricordato san Paolo nella seconda lettura, poi tutti coloro che sono di Cristo.
Il dogma dell’assunzione, sancito da papa Pio XII nel 1950 (ma verità di fede fino a primi anni dell’esperienza cristiana) dice che Maria partecipa della risurrezione di Gesù per singolare privilegio: anzitutto perché madre di Dio ma poi anche perché, passatemi il termine, Maria il paradiso se l’è sudato, se l’è conquistato, guadagnato. Questa affermazione, lo so, non è così corretta perche la felicità in Dio non la si guadagna né conquista, eppure Maria è stata una donna forte perché ha creduto all’impossibile. Penso che il titolo più bello che la Chiesa abbia attribuito alla vergine sia quello di “donna credente”: Maria ha creduto. Nel momento dell’incomprensione; nel momento della sofferenza; nel momento dell’abbandono Maria non ha smesso di credere.
Maria oggi è anche venerata come colei che ‘ci apre la porta del cielo’: a tentoni, annaspando, raschiandola con le unghie anche noi siamo alla ricerca di questa porta, alla ricerca della felicità che riempie il cuore. Maria la apre per noi, cosicché il cammino possa diventare luminoso e sicuro. Sempre il prefazio dice: hai fatto risplendere per il tuo popolo un segno di consolazione e di sicura speranza.
Maria Assunta, madre e immagine della comunità dei credenti, ci ricorda infine il principio materno della Chiesa: in un mondo che esalta e diffonde la teoria del Gender (non c’è distinzione né differenza tra principio e femminile e maschile, sono interscambiabili), il principio materno ci ricorda la custodia, la protezione, il preservare, il racchiudere… mentre il principio paterno lancia, fa uscire, indica e mette sulla strada, mette gli argini all’acqua che scorre veloce ed esuberante, nel letto del fiume.
Infine una preghiera speciale alle nostre donne: che sappiano custodire, con l’intercessione di Maria la loro femminilità, affinché siano forti, tenaci, materne, madri: capaci di generare alla vita, ai valori, alla fede.
Donna dell’attesa e madre di speranza,
donna della letizia e madre del silenzio,
donna di frontiera e madre della passione,
donna del riposo e madre della Vita,
prega per noi (cit. Ave Maria di Balduzzi).
XIX domenica del T.O. – anno C – 2019 Lc 12,32-48
Il brano del vangelo odierno (continuazione di quello di domenica scorsa) lo possiamo dividere in quattro parti:
- Dov’è il tuo tesoro, la sarà anche il tuo cuore!
Una frase che vale sia per cristiani che per non cristiani. Una frase-guida per la vita. Domandiamoci: qual è il mio tesoro? Quali sono le mie ricchezze? Per cosa spendo il mio tempo, le mie energie, la mia passione, i miei sforzi? Tutto si gioca qui: da questo dipende la nostra voglia di vivere oppure la nostra frustrazione, la nostra delusione, il nostro malessere… la nostra vita funziona o non funziona dalla decisione di dove far abitare il nostro cuore.
2) Siate pronti, siate svegli!
C’è un mondo che ci vuole intontiti, perché l’essere umano intontito è più controllabile, manovrabile e condizionabile. Pensiamo per esempio a tutto il mondo della pubblicità che induce falsi bisogni; al mondo delle dipendenze, all’odierno mondo della finanza, che cerca di fregare in tutti i modi i propri clienti; al mondo della politica che fa leva sulla pancia della gente…
Il Signore ci invita: cuore sveglio, mente aperta, schiena dritta e piedi buoni!
Viviamo il tempo dell’estate: è vero, è un tempo di distensione, di relax, di pausa. Ma non trasformiamolo nel “dolce far niente” (occhio al rischio dell’ozio che è padre di tutti i vizi)!
Gli ingredienti per viverlo bene:
- Un sano e giusto tempo di riposo
- Buone letture: sia leggere che impegnate… alternare! Lettura del giornale (possibilmente due, per formarsi uno sguardo critico)
- La scoperta di luoghi che rallegrano e rasserenano l’animo
- Stare con chi ci vuole bene.
Allora la questione è: vuoi la Bella vita o una vita bella?
3) Il padrone che tarda a venire e il servo che se la gode
No a pigrizia, lassismo, indifferenza, liti e personalismi…
4) A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto: a chi fu affidato molto, sarà chiesto molto di più.
Dio ci ha affidato suo Figlio…
Cos’è questo “molto” di cui parla Gesù?
E’ la nostra testimonianza di fede, di una vita bella, impegnata, onesta, solidale, accogliente, inclusiva, aperta alle necessità dei fratelli e delle sorelle. Viviamola anche in questi mesi estivi.
XVIII domenica del T.O. – anno C – 2019 Lc 12,13-21
Il vangelo di oggi ci pro-voca sul tema della ricchezza:
- Che rapporto hai con la ricchezza materiale?
- Qual è la vera ricchezza a cui ti affidi e di cui ti fidi?
- Cosa ti arricchisce veramente in questo tratto della tua vita?
Due sono le frasi lapidarie di Gesù:
La prima: la tua vita non dipende da ciò che possiedi (v.15).
Gesù ne è l’esempio: egli non conosce il verbo possedere ma il suo contrario: Gesù si è spossessato perché altri potessero possedere la vita nel suo nome (Gv 20,31). Egli svuotò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini… per questo Dio gli ha dato gloria (Fil 2,7).
La seconda frase, che chiude il vangelo: non accumulare tesori per te stesso, per soddisfare il tuo egoismo e i tuoi bisogni personale, ma arricchisci davanti a Dio (v.21).
Lo abbiamo sperimentato e vissuto in queste due settimane di campo: in questi giorni le nostre ricchezze sono state le persone che abbiamo incontrato; le relazioni che abbiamo instaurato, gli abbracci e le strette di mano che abbiamo dato e ricevuto; la fraternità che abbiamo accolto e costruito. Non ci sono ricchezze più belle che possano colmare un cuore che desidera felicità.
Ringraziamo il Signore per tutto questo e chiediamogli di saper vivere in questa logica di donazione.
XVII domenica del T.O. – anno C – 2019 Lc 11,1-13
La tematica (importante, fondamentale) del vangelo di oggi, per la crescita della nostra fede, si concentra sulla preghiera.
Cos’è pregare? Partiamo da cosa non è…!
Pregare non è dire parole, magari troppe. Ce l’ha insegnato Gesù in un altro brano vangelico: Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate (Mt 6,7-8).
Pregare non è prima di tutto parlare di Dio, o a Dio o con Dio.
Pregare è coltivare un rapporto con il Signore della vita, della mia vita e di quella degli altri.
Pregare non è soprattutto dire, ma ascoltare.
Pregare è imparare ad ascoltare anche il silenzio di Dio, i miei silenzi, i silenzi degli altri, che spesso gridano più che le parole.
Pregare è rispondere all’invito alla comunione.
In estrema sintesi: pregare è dare del “Tu” a Dio, non avendo paura di Lui, perché lui è “Padre mio e Padre nostro”.
Ultima caratteristica della preghiera: l’insistenza. Non stancarsi di pregare; non stancarsi di tenere ben saldi e collegati i fili che ci tengono connessi, allacciati, abbracciati da Dio Padre e a Dio Padre, nel Figlio, per mezzo dello Spirito Santo, sorgente di ogni preghiera.
XIV domenica del T.O. – anno C – 2019 Lc 10,1-12.17-20
Il vangelo di oggi riassume bene l’immagine che papa Francesco ci ripete da diversi anni: voglio una chiesa “in uscita”, che è esattamente il contrario di una chiesa in perenne stato di difesa, come una cittadella fortificata che tenta in tutti i modi di salvarsi dalle cannonate e dalle mitragliate del ‘mondo’.
Alcune osservazioni.
La prima: Gesù non parla dialetto veneto; non dice “fàso tuto mì” ma si fa aiutare nella sua missione. Dopo averne chiamati dodici, ne invia addirittura settantadue!
Tutti pronti, tutti preparati, tutti formati? Gesù dice loro: “Andate! Sarà la strada che vi formerà!”
Noi occidentali ci portiamo appresso un pregiudizio intellettualista: sai se hai studiato, se sei andato all’università, se hai imparato dai libri. Ok ai libri, allo studio ecc… ma è la vita (la strada) che ti forma (e che ti da forma!)
Seconda osservazione: il primato della preghiera. Prima di andare occorre pregare. Il primato della preghiera sul fare: così dovrebbe essere nella Chiesa, per non correre il rischio di sentirci bravi solo noi e di pensare che i successi (quando vengono) siano merito nostro, dei nostri sforzi, talenti e capacità.
Terza: “pregate il signore della messe perché mandi operai nella sua messe”.
Qui il riferimento spontaneo è alle vocazioni sacerdotali… ma non solo… Pensiamo anche alla vocazione al diaconato permanente (che come Chiesa stiamo riscoprendo) e alle vocazioni-ministeri laicali, con le quali cresce e si santifica il popolo di Dio.
Non facciamo giri di parole: oggi le vocazioni al presbiterato sono in forte crisi (almeno in Europa… in altre parti del mondo le cose stanno diversamente, specie di Africa e in Asia). Diversi sono i fattori, che ormai tutti conosciamo: calo demografico, fragilità psicologiche e familiari, indebolimento della vita di fede, fatica delle famiglie e delle comunità cristiane a comunicare il dono della fede…
Ma soprattutto è l’immagine del prete che non attrae più (soprattutto quello diocesano): stanchezza, delusione, demotivazione, invecchiamento e solitudine ne sono le cause e i fattori principali.
Riprendo alcune soluzioni prospettate dal cardinale Carlo Maria Martini (grande pastore e grande profeta) diversi anni fa. Martini diceva che per rendere ancora oggi affascinante, presentabile e vivibile la figura e il ministero del prete, occorra cambiare alcune cose nella Chiesa, quali:
- La formazione nei seminari, non più come “mondi isolati, autosufficienti, autoreferenti” ma aperti alla Chiesa e al mondo, dove i giovani in formazione possano fare e vivere esperienze anche al di fuori dei nostri ambienti ecclesiali.
- No alle ordinazioni di giovani sotto i quarant’anni: oggi incominci a capire qualcosa della vita dai trentacinque in su… lo dico anche per esperienza personale… Maturità psicofisica, affettiva, emozionale, spirituale, intellettuale e culturale solo le basi (sufficienti) per stare in piedi, oggi…
- Rivisitare il tema del celibato (che è e resta un valore per la chiesa latina), in particolare delle sue forme concrete, nell’oggi.
Ultima annotazione: Gesù parla chiaro, non usa giri di parole sulla accoglienza o non accoglienza dei suoi inviati. Questo fatto dice che (per usare un modo di dire del dialetto cremasco) il “tàia e médèga” non va mai bene. La chiarezza del linguaggio e delle scelte infatti rivela la chiarezza del cuore.
Questa seconda parte del vangelo dimostra che l’annuncio cristiano non è facile ma felice e ha come centro e criterio di tutto la grazia di Dio e non il successo umano : “rallegratevi non perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli” (10,20). Ciascuno chieda a Dio, per sé e per gli altri, questo grande regalo, totalmente immeritato e gratuito.
XIII domenica del T.O. – anno C – 2019 Lc 9,51-62
Siamo nel vangelo di Luca, al capitolo nono. Gesù si mette in viaggio con decisione verso Gerusalemme, la città santa, quella che uccide i profeti e lapida gli inviati di Dio (Lc 13,34-35).
Il brano lo possiamo dividere in due parti:
La prima parte è composta dai versetti 51-56: qui Gesù viene respinto da un villaggio di samaritani che si rifiutano di accoglierlo.
Cosa ci insegna questo fatto? che ciascuno di noi è fatto di pregiudizi, di schemi mentali con cui ci accostiamo alla realtà e anche al nostro rapporto con Dio: “Dio deve essere così, la Chiesa deve essere così, il vangelo dice così, papa Francesco per essere un buon papa deve fare questo e quello…” Come la penso io… allora andiamo d’accordo! Il metro di giudizio sono io e il mio modo di vedere le cose. Gesù ci chiede di restare aperti alla rvelazione, di farci mettere in discussione dalla sua parola e dalla realtà che incontriamo! Restare aperti, avere la mente aperta… è segno di giovinezza interiore, di elasticità mentale, di curiosità, di voglia di mettersi in gioco. No al cristiano rigido, direbbe papa Francesco.
Poi nel vangelo i discepoli cercano di difendere il Maestro e cercano di farlo in modo violento (vv.54-55). Gesù dice loro: lasciate stare. Dio si difende da solo, non ha bisogno di talebani cattolici… Dio non impone ma propone. Così dobbiamo fare noi quando ci relazioniamo con gli altri, in particolare con chi la pensa diversamente da noi o addirittura con chi rifiuta il nostro stile di vita, la proposta cristiana, le nostre persone…
Dio si difende dalla croce… e se dovessimo difendere qualcuno o qualcosa dobbiamo farlo nel modo di Dio…
E l’esercizio che ci chiede il papa nella Gaudete ex Exsultate:
quello di coltivare la virtù delll’umiltà, che può abitare solo nel cuore solo attraverso le umiliazioni. Senza di esse non c’è umiltà né santità. Se tu non sei capace di sopportare e offrire alcune umiliazioni non sei umile e non sei sulla vita della santità. La santità che Dio dona alla sua Chiesa si edifica mediante l’umiliazione del suo Figlio: questa è la via. L’umiliazione ti porta ad assomigliare di più a Gesù. Egli a sua volta manifesta l’umiltà di Dio Padre che si umilia per camminare con il suo popolo, che sopporta le sue infedeltà, i suoi tradimenti e le sue mormorazioni (Es 34,6-9; Sap 11,23-12,2; Lc 6,36).
Continua Francesco: non mi riferisco solo alle situazioni violente di martirio, ma anche e soprattutto alle piccole umiliazioni quotidiane di coloro che sopportano per salvare la propria famiglia, o evitano di parlare bene di sé stessi e preferiscono lodare gli altri invece di gloriarsi, scelgono gli incarichi meno brillanti, e a volte preferiscono addirittura sopportare qualcosa di ingiusto per offrirlo al Signore (…).
Non dico che l’umiliazione sia qualcosa di gradevole, perché questo sarebbe masochismo, ma che si tratta di una via per imitare Gesù e crescere nell’unione con Lui. (…) E’ una grazia che abbiamo bisogno di supplicare (…).
Tale atteggiamento presuppone un cuore pacificato da Cristo, libero da quell’aggressività che scaturisce da un io troppo grande.
Non cadiamo dunque nella tentazione di cercare la sicurezza interiore nei successi, nei piaceri vuoti, nel possedere, nel dominio sugli altri o nell’immagine sociale (nn. 118-121).
No alle nuove crociate contro chi vuole distruggere il cristianesimo, la fede cattolica, i valori cristiani, la famiglia “tradizionale”… sempre a vedere il nero negli altri… Papa Francesco ci invita a superare l’immagine della Chiesa come cittadella sul monte che si deve difendere dagli attacchi del ‘mondo’ e ci chiede di convertirti ad una Chiesa aperta, ‘in uscita’.
La seconda parte del vangelo ci parla delle esigenze della sequela, che sono radicali.
Dio non ama le mezze misure. Ricordiamoci Apocalisse: Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca (3,15-16).
Non avere paura delle scelte definitive della vita: danno senso, danno stabilità, compiono e realizzano un’intera esistenza. Il definitivo non è contrario all’umano. Al contrario lo nobilita, lo fa crescere, lo realizza, lo compie; con l’aiuto, il sostegno, la grazia di Dio.
CORPUS DOMINI – 2019
Cuore della nostra vita di fede, “fonte e culmine di tutta la nostra vita cristiana” (Conc.Vat.II), il più importante di tutti i sacramenti (don di grazia) della Chiesa.
Varie e belle sono le definizioni dell’Eucarestia: mistero della Cena, fonte di immortalità (chi ama non muore), banchetto pasquale, pane del cammino, pane di vita nuova, sacramento di unità e di comunione…
Anche Gesù, soprattutto nel vangelo di Giovanni, ci ha parlato del senso dell’Eucarestia: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame, e chi crede in me non avrà mai sete!” (Gv 6,35)
“Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno; e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo!”. (Gv 6,51)
“In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna ed io lo risusciterò nell’ultimo giorno, poiché la mia carne è un vero cibo ed il mio sangue è una vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me ed io in lui!”. (Gv 6,53-56)
Celebrare, vivere, amare il sacramento dell’Eucarestia significa imparare a donare la vita come ha fatto Gesù: nel vangelo di questa infatti egli dice ai discepoli: “voi stessi date loro da mangiare”, dove questa frase non significa solamente che i discepoli sono chiamati a dar da mangiare alla folla affamata, ma dovranno imparare ad amare, donando la vita (come faranno in seguito, sull’esempio di Colui che ci ha amati e ha dato la sua vita per noi).
Mi ha sempre colpito una frase che ritengo essere molto vera e profonda: “La tua vita inizia ad aver senso quando qualcuno inizia a nutrirsi di te”.
Seconda sottolineatura: il pane dell’Eucarestia è fatto non per giocarci, non per intambarlo in qualche tabernacolo, di per sé neanche per metterlo in qualche ostensorio: è fatto per essere mangiato!
Ricordiamoci le parole di papa Francesco: cari fratelli, non fate l’errore di considerare l’Eucarestia come un premio per i buoni e i bravi. Il Corpo di Cristo è invece medicina e sostegno per i fragili, per i deboli, per gli umili e gli ultimi, per chi si sente peccatore e dunque di aver bisogno dell’aiuto e della grazia del Signore! (22/11/2017 programma ‘Padre Nostro’; Omelia Corpus Domini 2015).
Domanda provocatoria: quando decidiamo di non venire a far la comunione è che ci sentiamo indegni di così grande dono o non c’è sotto sotto un po’ di superbia? di autosufficienza (me la cavo da solo), di poca fede (ricevere o non ricevere il corpo di Cristo è la stessa cosa, tanto non cambia niente?)
Terza sottolineatura: l’Eucarestia e lavanda dei piedi vanno a braccetto. L’Eucarestia ci aiuta, ci sprona, ci provoca a lavarci i piedi gli uni gli altri, cioè a vivere l’atteggiamento e lo stile del servizio. Ci invita a de-centrarci, a uscire da noi stessi per farci carico dei bisogni, delle necessità, delle esigenze altrui. Perché “caritas Christi urget nos”, l’amore di Cristo ci spinge (S.Paolo).
SS.TRINITA’ – 2019
La Chiesa, dopo averci fatto rivivere i misteri della vita di Cristo (avvento, nascita, quaresima, passione, morte, risurrezione, ascensione e pentecoste), in queste domeniche di giugno ci fa celebrare i grandi misteri della nostra fede (cattolica). Questa domenica incontriamo il mistero della SS.Trinità, domenica prossima il corpo e sangue di Gesù, infine il cuore di Cristo.
Trinità, mistero fondante, fondativo della nostra fede. Mistero da cui tutto parte e a cui tutto ritorna. Ho un debito di riconoscenza verso il mio professore di trinitaria (mistero di Dio), don Gigi Sabbioni, che ci ha fatto iniziare il corso nel reparto di pediatria dell’ospedale maggiore di Lodi e ce lo ha fatto concludere in una casa per malati terminali presso Reggio Emilia.
Prima del Concilio, del mistero del Dio cristiano, dicevano i teologi, è più l’inconoscibile che il conoscibile (la cosiddetta teologia negativa o apofatica). Anche i ‘vecchi’ parroci erano su questa linea. Infatti quando arrivava questa solennità erano soliti dire: “è inutile fare la predica oggi, tanto non si capisce niente”. Anche i canti andavano in questa direzione. Mi ricordo ‘la creazione giubili’: canto molto bello a livello musicale, tuttavia alquanto opinabile sulle parole, soprattutto quando dice ‘la trinità, mistero imperscrutabile e inaccessibile’. Non sono per niente d’accordo su questa visione… per un motivo molto semplice: la Trinità si è rivelata! Si è fatta conoscere, si è resa visibile! Tutta la Bibbia lo attesta, e il culmine di questa rivelazione è il Figlio di Dio Gesù, che ha rivelato il volto del Padre e, insieme a Lui ci ha donato la loro stessa vita, il dono dello Spirito Santo.
Forse (senza il forse) è caso di ritornare alla trinità biblica più che quella filosofica, troppo concettuale, astratta, che complica le cose e rende Dio distante. Al contrario, il nostro Dio, diceva papa Benedetto qualche anno fa, è un Dio vicino; è l’Emmanuele, il Dio-con-noi, meglio, il Dio-per-noi.
Due sono le caratteristiche principali del mistero di Dio: la trinità è un mistero di amore e di comunione. Come la nostra vita: anche noi siamo affamati di amore e abbiamo bisogno della comunione per poter vivere bene.
Amore e comunione: due ingredienti necessari e indispensabili per poter essere un riflesso dell’Amore trinitario. Perché Dio si è mostrato così. Non in altro modo.
PENTECOSTE – 2019
Celebriamo la grande e bella solennità di Pentecoste, attraverso la quale si chiude e si compie il mistero pasquale.
Quanto accade il giorno di Pentecoste è quasi come un grande Big Bang; innesca un dinamismo profondo che anima la testimonianza ecclesiale.
Oggi come credenti non ricordiamo solo un fatto passato (fatto comunque importante perché con la Pentecoste nasce la Chiesa) ma invochiamo il dono dello Spirito di Gesù, lo Spirito Santo, perché questo mistero si rinnovi ogni giorno, nella nostra vita personale, nella comunità cristiana, nel mondo che Dio abita e ama.
Cosa fa lo Spirito? Ce l’ha detto la prima lettura: crea unità. In un mondo lacerato da guerre, divisioni, lotte e discordie lo Spirito di Dio ha la capacità di unire i cuori, le menti, le persone. Con la sola condizione che ci si apra alla sua azione e si ascolti la parola di Gesù (lo Spirito non funziona in automatico e non è neanche una ‘magia’ di Dio a senso unico, che prescinde dalla nostra collaborazione).
Gente di nazionalità, di cultura, di tradizione diversa, eppure iniziano a parlare una lingua comune: il greco, il latino, l’inglese?? No, la lingua capace di unire tutti i popoli, la lingua di Dio, la lingua dell’amore. Ecco il grande miracolo, che accade anche oggi, in diverse parti del mondo…
E’ lo Spirito che fa crescere la testimonianza cristiana;
E’ lo Spirito che da la forza a tanti uomini e donne di dare la vita per il vangelo;
E’ lo stesso Spirito che aiuta i cristiani ad essere fedeli e appassionati alla propria vocazione;
E’ lo Spirito che da coraggio a coloro che si impegnano per un mondo più giusto, fraterno e solidale;
E’ lo Spirito che suggerisce gesti di accoglienza, inclusione, integrazione e riconciliazione.
E’ lo Spirito che è capace di suscitare in noi la gioia di cercare Dio ogni giorno, e, quando l’abbiamo trovato, il desiderio di cercarlo ancora e di continuare a farne esperienza.
Vieni, Spirito Santo,
tu che sei il «padre dei poveri».
Le nostre comunità sono smarrite
e spesso hanno perduto il desiderio di vivere il Vangelo.
Apri una breccia nei nostri cuori,
liberaci dall’abitudine, dal torpore e dalla pigrizia,
brucia tutto ciò che ingombra e blocca la nostra esistenza,
ridestaci al gusto della libertà e della generosità.
Donaci la grazia della semplicità e dell’essenzialità;
infondi in noi una rinnovata passione;
e portaci sulle strade dei nostri fratelli e sorelle
per condividere con loro la speranza di un mondo nuovo.
Vieni, Spirito Santo,
tu che sei il «datore dei doni».
Porta una ventata di fantasia
nei nostri consigli parrocchiali,
arricchisci di risorse nuove i collaboratori pastorali;
liberaci da ogni particolarismo,
insegnaci ad affrontare i conflitti
senza cedere alla voglia insana
di imporci, di vincere, di umiliare.
Vieni, Spirito Santo,
«consolatore perfetto, ospite dolce dell’anima».
Abita i nostri pensieri,
sciogli ogni tristezza e delusione,
suggerisci iniziative nuove
di compassione, di misericordia, di fraternità.
Fa’ che il mondo creda nel Dio Amore,
annunciato e rivelato da Gesù,
nostro fratello e Signore.
Amen.
ASCENSIONE – 2019
Di fronte a questo mistero della nostra fede, occorre prima di tutto che siamo capaci di “dare ragione della speranza che è in noi” (1Pt 3,15). L’ascensione bisogna capirla, meditarla, viverla, altrimenti i non credenti ci scambiano per matti (e ne avrebbero tutte le ragioni).
In questa festa infatti non c’è nessun razzo che parte, nessuna navetta in missione spaziale; nessuna colonizzazione di galassie da parte di Gesù, nessun ascensore da prendere…
Quella che noi cristiani chiamiamo ‘ascensione’ è semplicemente il compimento, la realizzazione della vita del Figlio di Dio (non solo la sua, ma anche la nostra). Nel vangelo di Giovanni, Gesù dice: «Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo, e vado al Padre» (16,28).
Gesù parte per dare il via alla missione degli apostoli, alla missione della Chiesa. C’è un ritrarsi che è premessa e condizione perché l’altro emerga. E’ uno stile educativo, anzi, è uno stile che deve pervàdere le nostre relazioni: così deve fare l’insegnante, il genitore, il nonno, l’educatore, l’amico, lo sposo, la sposa. Spesso ci capita di imporre noi stessi: le nostre persone, le nostre idee, interessi, giudizi, punti di vista…
Dio ci dice: affinché l’altro possa essere te stesso, devi lasciargli spazio. Proviamo a pensare cosa significa questo in famiglia, sul posto di lavoro, in parrocchia, a scuola, nel gruppo di amici…
Il secondo insegnamento che ci viene da questa solennità è di non smettere di guardare il cielo. Non perché dobbiamo diventare tutti astrofisici ma perché al giorno d’oggi, corriamo il rischio di appiattirci sulle cose della terra, sugli affanni della vita quotidiana, sulle fatiche, sui problemi.
Dio ci invita ad alzare lo sguardo, a curare la nostra interiorità, a custodire le domande di senso, a non sopprimere la sete di infinito che portiamo dentro…
Con l’ascensione, i discepoli diventano testimoni di Cristo Risorto. Quante volte abbiamo già sentito questa parola. Quanto è abusata, bistrattata, deformata, anche nella Chiesa… eppure resta così vera!
Testimoni di chi? Testimoni di cosa? Testimoni perché?
E perché la testimonianza dovrebbe produrre gioia? Non ci sembra forse il contrario?
Siamo testimoni di un Dio, siamo figli di un Dio DALLE BRACCIA PARTE! E’ nato con le braccia aperte, ha vissuto con le braccia aperte, è morto in croce con le braccia aperte. Proviamo a pensare cosa significa questo per la nostra vita di esseri umani, di cristiani, di credenti. Quale e come deve essere il nostro ‘stile’ nel mondo, nella nostra società, nella cultura in cui viviamo (uno stile aggressivo, impositivo, escludente, giudicante… è cristiano??) Qui c’è tutto un bel discernimento da fare, da cui non possiamo tirarci indietro.
La solennità di oggi ci chiama ad essere apostoli, con i piedi ben piantati in terra, con lo sguardo rivolto verso il cielo, con le mani aperte per accogliere, per includere, per integrare, per essere segni e strumenti dell’amore di Dio. E’ la nostra vocazione.
VI DOMENICA del tempo pasquale – anno C – 2019
Il breve brano di vangelo che la liturgia di questa VI domenica del tempo pasquale ci ha proposto (come quello di domenica scorsa), si trova nella parte centrale del vangelo di Giovanni che chiamiamo “i discorsi di addio” (per intenderci i capitoli che vanno dal 13 al 17).
Tre sono i temi che emergono:
- Il tema dell’ascolto e dell’osservanza della Parola di Dio
- L’invio dello Spirito santo, chiamato Paraclito (paracleo = avvocato, difensore, consolatore)
- Il dono della pace
Il contesto: Gesù è in procinto di partire. Dove va? Ritorna al Padre, origine, sorgente, fonte di tutto. Si conclude l’esperienza e la missione terrena del Cristo, ma non termina l’esperienza della fede. Anzi, il ‘partire di Gesù’ rappresenta la condizione necessaria affinché inizi il tempo della Chiesa, il tempo della testimonianza , il tempo che viviamo e che Dio pone nelle nostre mani. Non solo kronos, ma soprattutto kairos, tempo prezioso, tempo da vivere al meglio.
E’ bello questo verbo: partire. Perché accada qualcosa occorre partire, mettersi in gioco, lanciarsi, giocarsela, rischiare, osare.
Se non ci provi, non porterai a casa niente. Questo vale per tante cose della vita ma anche per la fede.
Dice Cesare Cremonini nel suo brano “il viaggio”: Partire per ricominciare… E per quanta strada ancora c’è da fare, amerai il finale.
Gesù ama il finale: Gesù attende l’incontro definitivo con Dio, e non lo fa per interesse personale, ma lo fa per noi, perché Lui e il Padre possano ‘mettere su casa, far casa’ nel nostro cuore.
Anche altri verbi sono molto importanti per capire in profondità le parole di Gesù: “se uno mi ama osserverà la mia parola”: ob-servare: custodire nel profondo, meditare, far crescere (i Padri della Chiesa utilizzavano l’immagine impegnativa di ‘partorire la parola’, farla nascere dentro di noi).
E poi la promessa del dono dello Spirito Santo (il grande invitato ma il grande assente nella vita della Chiesa… noi cattolici lo dimentichiamo un po’… gli orientali lo tengono un po’ più vivo). Cosa fa lo Spirito, qual è la sua funzione?
E qui ci vengono in aiuto gli altri due verbi:
- Vi insegnerà ogni cosa
- Vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto.
Insegnare e ricordare:
- In-segnare: segnare dentro, scrivere dentro, nel profondo, nel cuore, in modo indelebile, che si non si possa cancellare.
- Ri-cordare: mettere nel cuore, custodire, portare sempre appresso. Ma anche ravvivare le parole di Gesù.
Infine, il dono della pace: che non coincide con l’assenza di conflitti o una certa tranquillità interiore, ma è il dono della pace messianica: di fonte alle prove della vita, non viene meno la fiducia in Dio; il tuo cuore non è in preda agli sconvolgimenti ma resta saldo in Dio, “saldo nella fede”. Una pace da accogliere ma soprattutto una pace da vivere.
V DOMENICA DI PASQUA – ANNO C – 2019 (Gv 13, 1-33a. 34-35)
Il breve brano di vangelo che la liturgia di questa V domenica del tempo pasquale ci ha proposto, si trova all’inizio di quella parte di vangelo di Giovanni che chiamiamo “i discorsi di addio”. Dopo la lavanda dei piedi e l’uscita di Giuda dal cenacolo Gesù prepara i suoi discepoli su ciò che li aspetta e su ciò che dovrà accadere di lì a poco: lo scandalo della croce.
Possiamo dividere il brano in due parti:
i primi due versetti dove Gesù parla di glorificazione (è stato glorificato: passivo divino). Questo verbo esprime il senso profondo della passione di Cristo. Sulla croce Gesù viene glorificato; si rivela l’amore di Dio: un amore vittorioso, nonostante agli occhi umani si intravvedono solo odio, fallimento, sconfitta.
Nella seconda parte del vangelo, centrale è il verbo amare con il comandamento dell’amore: amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato dove il “come” è sì modello dell’amore ma soprattutto ne è l’origine, la fonte. Solo in forza della morte di Gesù, del dono della sua vita è possibile amare come lui amato.
Ami come Dio quando abbandoni l’egoismo (uscire da se stessi) per andare incontro all’altro; ai suoi bisogni e alle sue necessità;
Ami come Dio quando il tuo cuore resta aperto all’universale e non ti chiudi nei tuoi bisogni particolari;
Ami come Dio quando il tuo cuore privilegi e i piccoli e gli scartati della società;
Ami come Dio quando lo fai gratuitamente senza tornaconto né interesse personale;
Ami come Dio quando accogli includi integri;
Ami come Dio quando impari a perdonare e ad essere perdonato;
Ami come mio Dio quanto sei disposto a soffrire per il bene altrui;
Ami come Dio quando sei disposto a pagare di persona per difendere ciò in cui credi;
Ami come Dio quando sei fedele alla tua vocazione;
Ami come Dio quando sei generare intorno a te il bene la fiducia il desiderio della santità;
Ami come Dio quando fai della tua vita un dono d’amore.
Ora lasciati amare dal Signore ed egli ti darà la forza di amare come lui ti ama.
Ci mettiamo in silenzio qualche istante, davanti al crocefisso.
V DOMENICA DI QUARESIMA – anno C – 2019 (Gv 8-1-11)
«Io non voglio la morte del peccatore ma che si converta e viva». (Ez 33,11).
Il vangelo ci ha presentato la narrazione dell’incontro tra Gesù e l’adultera.
Questo brano non fa parte della tradizione giovannea ma probabilmente lucana. Infatti in centro del racconto è il perdono che Gesù concede alla donna e così facendo rivela ancora una volta l’accoglienza e la misericordia di Dio verso i peccatori.
La seconda caratteristica è che questo brano ha creato non poco scandalo nella Chiesa (soprattutto nei padri), tanto da essere inserito nel Canone solo a partire dal Concilio di Trento (1545-1563).
Tutto inizia quando, ancora una volta, scribi e farisei cercano di mettere in difficoltà Gesù circa il suo rapporto con la Legge, con la Torah, così da poterlo accusare pubblicamente (è Gesù il vero imputato). E lo fanno mettendogli davanti un ‘caso’: gli conducono davanti una donna, sorpresa in flagrante adulterio.
In questo vangelo si oppongono due mentalità, due ordini: uno antico e uno nuovo, come ci ha suggerito la prima lettura, tratta dal libro del profeta Isaia, dove Dio dice: “ non ricordate più le cose antiche; faccio una cosa nuova, più grande!” (Is 43,18-19).
L’ordine antico fa riferimento alla Torah: “Mosè ha comandato di lapidare donne come questa”.
Che cosa dice questa consuetudine, questa norma? Che si risponde al male punendo il peccatore (facendolo coincidere con il proprio peccato).
Dopo l’accusa Gesù inizia a scrivere per terra, con un dito, sulla sabbia. Questo gesto è di difficile interpretazione: può darsi che Gesù lo abbia fatto per rispetto della donna; oppure per stemperare la tensione che si stava creando; oppure evangelista vuole alludere al dito di Dio, con il quale egli scrisse i dieci comandamenti, le dieci parole di vita sulle tavole di pietra (Es 31,18; Dt 9,10).
Poi Gesù si alza (è una sottolineatura dell’autorità di Gesù) e applica alla legge un elemento nuovo: “chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. Infatti, nella consuetudine del tempo era il testimone dell’adulterio che doveva essere il primo a scagliare la pietra.
“Udito ciò se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani”. Le armi dell’odio, della violenza, della vendetta vengono deposte, disinnescate, messe a tacere.
Quel verbo “andarono” potremmo anche ritradurlo con “si allontanarono”. Allontanandosi dalla donna, i presenti rinunciano a giustiziarla ma nel contempo dichiarano anche la propria lontananza da Gesù e l’indisponibilità all’ascolto.
Con un’affermazione semplice ma efficace, che non giudica direttamente, Gesù fa appello alla coscienza e alla libertà personale, smascherando l’ipocrisia.
Gesù resta solo con la donna in mezzo: si trovano faccia a faccia la misera e la misericordia, direbbe sant’Agostino.
Gesù si rivolge alla donna e le dice: “donna, nessuno ti ha condannata?”
Anzitutto la chiama donna: le restituisce la sua dignità. E poi si passa dall’Io con-danno (sono un danno per l’altro) a un Io per-dono (sono-divento un dono per l’altro). Nessuno poteva arrogarsi il diritto di condannare la donna (perché nessuno era senza peccato). Solo uno lo poteva fare. Non l’ha fatto.
“Se ne andarono via”, cioè si allontanarono. Chi se ne va lo fa carico, inchiodato nei propri peccati. Invece l’unica che se ne va senza peccato è la donna. Perché questa donna ha incontrato il perdono di Dio. Il perdono l’ha ricreata, le ha dato una possibilità di una vita nuova. Il peccato che finiva con l’uccisione del peccatore, adesso viene ucciso dal perdono.
Un ultima sottolineatura: noi non sappiamo se la donna si è realmente pentita del suo peccato. Il vangelo non lo dice. Probabilmente invece è stato quel perdono gratuito e disinteressato a suscitare il pentimento, la conversione, l’amore nella donna. Sì, perché il perdono è l’altra faccia dell’amore. Perché impara ad amare in modo maturo solo chi è capace di perdono.
In questo racconto evangelico di adultero non c’è solo la donna: adulteri lo siamo un po’ tutti (ad-ulterare significa falsificare, contraffare il reale). Quanti tradimenti verso noi stessi; verso Dio, verso gli altri…
Lasciamoci ricreare da Dio; lasciamoci togliere quelle pietre tombali che bloccano il cuore; accogliamo un Dio che ci apre la strada e si fa nostro compagno di viaggio. Usciamo dalle logiche antiche e lasciamoci abbracciare dalla Pasqua del Signore.
IV DOMENICA DI QUARESIMA – anno C – 2019
Parabola del padre ricco di misericordia:
- Sintesi della teologia di san Luca
- Grande opera letteraria
- Rivelazione della misericordia di Dio (seppur mai citata direttamente)
- Il contesto
Gesù che si rivolge agli scribi e ai farisei (figli maggiori), che lo accusano di accogliere i pubblicani e i peccatori (figli minori), mangiando con loro (il mangiare indica una comunione di vita).
Ma la parabola parla a ciascun credente, a ciascuno di noi. Dentro di noi infatti convivono:
- un figlio maggiore, sicuro di sé, autosufficiente, rigorista, che crede di essere sempre nel giusto e di non aver bisogno di perdono;
- un figlio minore che ama trasgredire, che gli stanno strette le regole, che pensa a suo padre come un tontolone da abbindolare e un antagonista da far fuori.
Dunque un padre e i suoi due figli: il minore e il maggiore.
- Il figlio minore
– chiede (pretende con superbia: “che mi spetta”) la sua parte di eredità da parte del padre (lo considera già morto)
– se ne va in un paese lontano (distanza)
– sperpera l’eredità vivendo in modo dissoluto (peccato)
– maiali e prostitute: impurità ed emarginazione. Gradino più basso del peccato.
- Il figlio maggiore
– sta a casa ma continua a brontolare, a recriminare, a mormorare…
Due figli così diversi, due figli così simili! Sembrano davvero “fratelli gemelli”! Cosa li accomuna, li unisce? Non hanno ancora incontrato il vero volto del padre. Pensano di conoscerlo (ognuno si è fatto una sua idea) ma in realtà non lo conoscono affatto.
Questi due figli devono riscoprire due relazioni fondamentali:
- Quello dell’essere figli (e non schiavi) dell’unico padre
- E proprio perché figli, devono riconoscersi fratelli.
Fermiamoci un attimo sul perdono che il padre regala al figlio minore: dalla parabola sembra che quest’ultimo non sia più di tanto pentito del male che ha arrecato al padre (e a se stesso). Nonostante ciò perdona senza condizioni, sperando quel gesto, converta il figlio. Anticipa il perdono per suscitare la conversione. Noi siamo abituati a pensare il contrario: Dio premia il nostro pentimento con il perdono. Dio sceglie di rischiare ed eccede nell’amore. Non è troppo un atteggiamento simile? Obiettivamente sì.
Qual è la scelta più difficile della parabola? E’ quella che deve prendere il figlio maggiore; quella di perdonare suo fratello, imitando il padre che lo ha già fatto.
Infatti, il figlio minore non si allontana solo da suo padre ma anche da suo fratello (il quale, per rabbia, non lo considera più tale!)
«Il secondogenito vuole rompere solo (e innanzitutto) col genitore, o anche (innanzitutto?) col fratello? Da chi fugge? Da un padre pronto comunque a concedergli tutto, o da un fratello che per il suo diligente e perfino scrupoloso senso del dovere filale/professionale è visto da lui come un termine di paragone di cui non si sente all’altezza; inarrivabile e quindi insopportabile? […] L’ingiusta pretesa di riscuotere la parte dell’eredità paterna è solo vile e irrazionale affronto a un padre così buono, o anche un calcolato piano per danneggiare il lascito di cui il maggiore come primogenito avrebbe abbondantemente goduto? L’invettiva del maggiore contro il padre dà adito a una risposta affermativa al quesito. […] Accorata difesa del patrimonio e della dignità del padre, o rabbia perché parte dell’eredità è andata in fumo? E se questo scostumato riammesso al rango di coerede ripetesse il misfatto? […] Lo sforzo che attende i due per ritrovarsi fratelli è ingente tanto quanto quello per ritrovare il padre, tanto quello per lasciarsi trovare da lui» (C’è posto per tutti. Legami fraterni, paura, fede, Vita e Pensiero, Milano 2008, 21ss.).
Che fatica perdonare chi ha sbagliato, e chi lo ha fatto sulla nostra pelle e in modo grave! Noi spesso siamo giudici infallibili degli altri; poco nei nostri confronti.
Dio ci invita a rallegrarci per il ritorno del figlio-fratello perduto e questo ci sembra terribilmente ingiusto! E, per certi versi, per il nostro concetto di giustizia, lo è!
4. Il padre
Gesù sta dipingendo il vero volto di Dio:
Un Padre che lascia andare il figlio anche se sa che si farà del male (noi l’avremmo lasciato andare?), correndo un immenso rischio educativo.
Un Padre che scruta l’orizzonte ogni giorno, senza rancore, senza rabbia, con una pena infinita.
Un Padre che corre incontro al figlio minore, che lo abbraccia. Che non gli rinfaccia né chiede ragione dei soldi spesi (“te l’avevo detto, io!”), che non lo accusa (“lo dicevo, a tua madre!”), che smorza le sue scuse (e non le vuole), che gli restituisce dignità, che fa festa.
Un Padre ingiusto, esagerato, che ama un figlio che gli augurava la morte (“dammi l’eredità!”), che vaneggiava nel delirio (“mi spetta!”);
Un Padre che sa che questo figlio ancora non è guarito dentro ma pazienta e già fa festa.
Un Padre che esce a pregare lo stizzito fratello maggiore che tenta di giustificarsi, di spiegare le sue buone ragioni.
Un Padre che cerca di guardare all’essenziale e insegna a guardare oltre le apparenze, a non giudicare superficialmente, a usare la misericordia più della giustizia.
Un Padre che accetta la libertà dei figli, che pazienta, che indica, che stimola.
Dio è così? Fino a tal punto? Così tanto? Sì.
È Dio, non il figlio, ad essere prodigo (sciupone). Perché di esagerato, di eccessivo in questa storia c’è solo l’amore di Dio.
Gesù sta dipingendo il volto di Dio, ricco di misericordia. La misericordia non è prima di tutto un sentimento. La misericordia è un atto: significa creare le condizioni perché l’altro possa vivere, possa ri-nascere: «questo mio figlio era morto ed è tornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato». E’ la Pasqua a cui tutti siamo invitati a celebrare e a vivere.
TERZA DOMENICA DI QUARESIMA – ANNO C – 2019 (Lc 13,1-9)
Il contesto del brano vangelo di questa terza domenica di cammino quaresimale è il capitolo 13 del vangelo di Luca. Gesù sta facendo un lungo discorso ai discepoli e alla folla sull’importanza del confidare in Dio. Poi inizia il tema della vigilanza.
La pericope liturgica odierna è chiaramente divisa in due parti. Nella prima Gesù ci racconta due fatti di cronaca: a Gerusalemme erano state uccise alcune persone in un agguato al tempio. Il mandante molto probabilmente era il procuratore romano Pilato. Questo fatto ci fa venire in mente alle tante stragi perpetrate nei confronti sia dei cristiani, riuniti nelle Chiese per celebrare l’Eucarestia, ma anche a non pochi musulmani spesso uccisi nelle moschee, da uomini che si definiscono credenti in Allah, ma che con Allah non hanno nulla a cui spartire.
Il secondo fatto riguarda il crollo di una torre, la torre di Sioe, che ha travolto e ucciso diversi passanti.
Nel presentare questi fatti Gesù sembra molto duro, diretto, ruvido con i suoi ascoltatori: “perirete tutti allo stesso modo” (vv.3.5). Tuttavia Gesù utilizza il registro della durezza e dell’essenzialità per spronare alla conversione: “se non vi convertite” (vv. 3.5). la vera disgrazia infatti è quella di non sapersi decidere, di non saper scegliere, di non “prendere in mano la propria vita per farne un capolavoro” (San Giovanni Paolo II).
Inoltre Gesù smonta il pregiudizio (assodato in quei tempi) che fa coincidere la sventura umana, causata dalle disgrazie, al peccato e alla colpa, personale o collettiva (Ti succede qualcosa di brutto? E’ perché hai commesso qualcosa di male e allora Dio ti castiga, te la fa pagare!).
Convertirsi a chi? Convertirsi a cosa? Cosa significa?
Scegliere di continuare ad essere sterili (come l’albero di fichi della parabola), sostanzialmente egoisti, oppure diventare fecondi: costruire “storia santa” con le nostre scelte, decisioni, azioni, relazioni.
Di fronte a questo vangelo (sia alla prima parte, relativa ai fatti di cronaca, sia alla seconda parte, quella di scegliere di portare frutti buoni), non ho potuto non riflettere sul tragico fatto di qualche giorno fa che ha colpito 51 ragazzi delle medie dell’Istituto Vailati cittadino, insieme ai due insegnanti di educazione fisica e alla collaboratrice scolastica.
Il primo pensiero è un grande grazie al Signore che ha tenuto la sua mano su questa storia e sulle persone coinvolte. Crema poteva essere ricordata per lungo tempo come la città della strage dei bambini e così non è stato. Questa mano di Dio si è poi resa visibile nelle piccole mani dei ragazzi e nelle grandi mani dei carabinieri e di tutte le autorità che con professionalità e sangue freddo hanno gestito la drammatica situazione. Mi ha davvero impressionato la determinazione, la fermezza e il sangue freddo di quel ragazzino che ha chiamato i soccorsi. Non so se sia un eroe, sappiamo per certo che si è comportato in modo egregio, più che maturo per la sua età.
La seconda riflessione è che il male esiste ed è pure vicino. Più vicino di quanto pensavamo. Lo abbiamo sperimentato. Un male lucido, alimentato dal disagio, dal disadattamento, dalla solitudine e da altre cause che non conosciamo (e forse mai conosceremo). Tutto ciò, se non curato e accompagnato, porta a gesti folli e disumani.
La terza riflessione: è innegabile che nel nostro Paese sta crescendo vertiginosamente e velocemente una cultura di odio e di violenza che impressiona e inizia a far paura. Sta aumentando una violenza verbale che da a pensare[1]. L’odio e la violenza si autoalimentano. Chiediamo ai nostri responsabili e a chi ci governa di non essere loro i protagonisti di questa campagna mediatica autolesionista e da parte nostra cerchiamo di fare la nostra parte per non fomentare un clima di paure, di terrore e di odio del ‘diverso’, attraverso le parole dette in pubblico, scritte sui social, ritwettate e condivise.
Ciò che è successo a Crema è il gesto di un folle e non è il manifesto di uno scontro di civiltà, come alcuni cercano di inculcarci. Di origini senegalesi con cittadinanza italiana il primo, italiani gli educatori e molti studenti, egiziano Rami che ha chiamato i soccorsi, magrebino Adam che ha collaborato con le forze dell’ordine. Le differenze culturali (che pur ci sono) qui non c’entrano. Qui c’entra chi odia la vita da una parte e chi la difende dall’altra. E lo si può fare anche a undici anni, con determinazione, coraggio e lucidità mentale che stupiscono e meravigliano. “Dai frutti (e non dalle appartenenze) li riconoscerete” (Mt 7,16).
[1] L’autista è stato definito da esponenti politici nell’esercizio del loro ruolo pubblico come “verme, assassino, feccia umana” e altro ancora. Settimana scorsa, Greta Thumberg (giovane leader di un movimento ambientalista), per una giornalista deve “essere messa sotto una macchina, se non fosse che è una bambina e anche un po’ malata”, invece per un’attrice “un personaggio da film horror”.
SECONDA DOMENICA DI QUARESIMA – ANNO C – 2019 (Lc 9,28b-36)
Domenica della Trasfigurazione di Gesù sul monte Oreb. Domenica della nostra trasfigurazione.
Domenica nella quale papa Francesco e la liturgia ci invitano a riscoprire la Parola di Dio come tesoro prezioso per la nostra vita di cristiani credenti.
La domenica della trasfigurazione di Cristo è importante perché c’è in gioco la comprensione della Pasqua.
Partiamo dagli antefatti del racconto: siamo nel capitolo nove del vangelo di Luca. Gesù ha già cominciato ad annunciare la sua passione, morte e risurrezione (Lc 9,22). Otto giorni dopo (allusione all’ottavo giorno della Pasqua) Gesù porta tre dei suoi discepoli (Pietro, Giacomo e Giovanni) sul monte per far fare loro un’esperienza unica e particolare.
Gesù vuole rafforzare la fede dei suoi discepoli; vuole prepararli allo scacco, all’apparente sconfitta e all’apparente fallimento della morte in croce, e lo fa rivelando la sua gloria, mostrando il suo vero volto, la sua identità di Figlio di Dio: un Dio vivo; un Dio che per essere Dio dei viventi deve passare (entrare) per la sofferenza e la morte, assumerle su di sé e vincerle con il gesto estremo dell’amore donato.
I discepoli sono chiamati a cambiare prospettiva: Gesù sembrerebbe dire loro: scordatevi il messianismo trionfante, impositivo, violento che avete in testa e accogliete la logica di Dio: quella del piccolo seme, che, messo nella terra, muore e produce frutto. I discepoli (e noi con loro) sono chiamati a prendere coscienza della verità della vita: morire a noi stessi, ai nostri egoismi, per poter rinascere in Dio: così sceglierà di fare Gesù.
E come si fa a mettere in moto questo cambio di prospettiva?
C’è una strada sola: quello della preghiera, quello del dialogo con Dio, che si fonda sull’ascolto della sua Parola e sul fare la sua volontà (che non è, ricordiamocelo, obbedire ad un burattinaio che tira i fili della nostra vita, ma è rispondere, nella libertà e nella responsabilità, all’amore).
Gesù sul monte si trasfigura. E’ molto bello e carico di significato questo verbo. E’ stato uno dei verbi che hanno segnato il convegno nazionale della Chiesa italiana, tenutosi a Verona, nell’ormai lontano 2006.
Trasfigurare, nell’esperienza di vede, ha diversi significati:
Il primo è quello di prendere i tratti del volto di Dio, che sono quelli della misericordia.
Il secondo è quello di saper cercare (e trovare) i tratti di bellezza presenti nei volti dei nostri fratelli e sorelle. Spesso facciamo l’esperienza del contrario: di fronte alle persone ci troviamo delusi, amareggiati, irritati, perché non rispondono alle nostre aspettative o perché queste aspettative sono state tradite. Occorre imparare a guardarci gli uni gli altri come ci guarda Dio: non siamo la somma dei nostri peccati, dei nostri sbagli, dei nostri fallimenti, ma siamo la somma delle nostre possibilità e opportunità di ripartenza.
Il terzo significato è quello di cambiare prospettiva sul mondo in cui vivo: dal pensare ad un mondo orribile, che sta andando verso l’autodistruzione, che non c’è più speranza per niente e nessuno, al vedere le spinte e le energie di bene che non si arrendono al disfattismo ma si rimboccano le maniche affinché l’umanità diventi sempre più abitabile e fraterna, dove ciascuno si possa sentirsi veramente ‘a casa’.
Come si fa? Mettendo nel nostro zaino quaresimale tre oggetti (indispensabili):
Primo oggetto: la lente di ingrandimento, per saper individuare e scorgere anche i più piccoli segni di bene, impercettibili ai più ma non per questo inesistenti.
Secondo oggetto: il cannocchiale. Lo usi per contare le stelle. Tale sarà la tua discendenza, come Abramo nella prima lettura. Le possibilità di bene che Dio ci mette tra le mani sono infinite. Sta a noi sfruttarle al meglio o sprecarle.
Terzo oggetto: gli occhiali di Dio, per guardare noi stessi, gli altri, il mondo, la storia con i suoi occhi. Per far questo Dio ha voluto che fossero inserite nella montatura due lenti speciali, che ti consentono di vedere lontano: l’amore e il perdono. (Stanno bene insieme … anche perché fanno lo stesso lavoro!)
Infine trasfigurare è non spegnere la profezia che ‘una speranza è sempre possibile’. E’ lo sguardo della fede, illuminato dalla Parola. Questa deve essere la ‘differenza cristiana’. Perché, come diceva un famoso teologo del ‘900, il Vangelo non può mai essere ridotto a cultura ma rimane sempre profezia.
PRIMA DOMENICA DI QUARESIMA – ANNO C – 2019
Domenica delle tentazioni (Luca 4,1-13)
Filo conduttore, chiave interpretativa è il ritornello del salmo responsoriale: «resta con noi, Signore, nell’ora della prova».
Gesù viene tentato (messo alla prova) da Satana nel deserto.
Satana: nei vangeli non viene mai presentato come Dio del male ma piuttosto come l’ingannatore, il tentatore, l’imbroglione, l’astuto, il furbo. E’ interessante questo perché anche nella nostra vita è difficile che il male si presenti come ‘male’. Di solito bussa alla porta e sta con noi come un male camuffato in bene, come un qualcosa che in apparenza è bene per me, tuttavia scava dentro e prepara la mia distruzione, il mio annientamento, la mia infelicità.
E’ la dinamica di tutte le idolatrie (pensiamo alla prima grande tentazione che troviamo in Genesi 3,6 – il mangiare del frutto dell’albero del bene e del male da parte di Adamo ed Eva): l’idolo si presenta come gradito agli occhi, appetitoso al palato, interessante al pensiero, poi incomincia a chiederti vita (il vero Dio invece la vita la dona) e ti frega!
Il deserto. Di solito è il luogo prediletto della comunione con Dio; qui invece è il luogo dove regna il nulla; il luogo dove sei solo con te stesso; è il luogo dove più di altri emerge la verità su di te, su chi vuoi essere veramente. E’ ‘l’habitat’ naturale della verità (che può emergere in tutta la sua bellezza oppure nascondersi in tutta la sua vergogna).
Il brano delle tentazioni segue subito il racconto del Battesimo e la genealogia. Gesù ci è stato appena presentato come il Figlio di Dio, l’Amato. Satana viene a cercare di mettere in crisi questa coscienza di Gesù, l’essere figlio amato.
Così succede anche per noi. Quando cadiamo, quando cediamo alla tentazione? Quando non ci sentiamo più figli amati; quando iniziamo a non credere più all’amore. E’ difficile che accada questo se in noi abita lo Spirito Santo. Gesù lotta e vince proprio perché il suo rapporto con Dio è reso forte dallo Spirito. E, di conseguenza, lo Spirito costruisce fondamenta solide in noi quando noi impariamo ad agire in obbedienza a Dio e alla sua Parola. E’ un movimento circolare, che si autoalimenta.
Le tre tentazioni di Gesù:
- La tentazione della fame:
il soddisfacimento immediato dei nostri bisogni. Ciascuno di noi sperimenta la fame. Ma fame di che cosa? Qual è la nostra “fame”?
- Fame di avere – Fame di essere
- Fame di possedere (uomo predatore) – fame di dare
- Fame di apparire (trovare soddisfazione nel consenso e nel plauso della gente – followers) – fame di interiorità e autenticità
- Fame (fama) di successo – fame di umiltà
- La tentazione del potere, della gloria.
Gesù insegna il servizio. «Sit transit gloria mundi». Solo l’amore resta, sul quale verremo giudicati. C’è un bel canto quaresimale che dice: “Da la vita solo chi muore, ama chi sa perdere; è Signore solo chi serve; farsi schiavo è libertà”.
- La tentazione del mettere alla prova Dio:
Pensare che non sia buono, che non si preda cura di noi.
Altre tentazioni diffuse oggi:
- La tentazione del pessimismo: va tutto male, non c’è più niente da fare: “Era meglio quando si stava peggio”…
- La tentazione dell’individualismo – della privatizzazione della vita (sto bene io, stan bene tutti). Il non farsi coinvolgere nei problemi del mondo…
- La tentazione del relativismo e della superficialità – banalità (tutto è uguale).
- La tentazione dell’indifferenza e della cultura dello “scarto”
- La tentazione del fare a meno di Dio (ateismo pratico): basto a me stesso. Madre di tutte le tentazioni.
In questo inizio di cammino quaresimale chiediamo al Signore:
- Di non abbandonarci alla tentazione;
- Di non cadere/ di non cedere sotto il peso della tentazione;
- Di saperla vincere, con il suo aiuto, sorretti dal suo amore.
Come e dove Gesù vincerà la tentazione del potere, del dominio, dell’autoaffermazione, del bastare a se stesso? Sulla croce: “Padre nelle tue mani consegno il mio spirito”.
Concludiamo con questo detto sapienziale: “la vita è una prova ma è anche una vittoria”. Se ti affidi a Dio e la smetti di pensarti onnipotente (anche perché la realtà ti smentisce sempre con i fatti).
VI domenica del T.O. – anno C – 2019
Il vangelo di questa VII domenica del T.O. è uno dei più provocatori, più provocanti. Impegnativo, sia da capire che da mettere in pratica.
Siamo al capitolo sesto del vangelo di Luca, l’evangelista della misericordia, e Gesù riprende il comandamento dell’amore al prossimo (Lv 6,22) e lo radicalizza, invitando i discepoli ad un amore incondizionato (che non pone condizioni per la sua accoglienza) e gratuito; ad amare anche a chi non ti ama (che è diverso dal tollerare o – peggio – dall’essere indifferente).
I verbi usati sono belli tosti:
amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male.
Ancora più provocatori e per certi versi, per la nostra mentalità, fastidiose le immagini che Gesù utilizza:
A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. Da’ a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro.
A conclusione di questo atteggiamento radicale, Gesù inserisce la regola d’oro: come volete che gli uomini facciano a voi, così anche a voi fate a loro.
A questo punto uno si chiede: perché? Perché devo agire in questo modo? Perché devo amare i miei nemici?
Penso siano due le motivazioni:
la prima più umana. Lo sappiamo tutti, anche se facciamo fatica a viverlo: l’odio, la vendetta, il risentimento, non costruiscono nulla di buono, anzi fanno star male chi prova e mette in moto questi sentimenti, oltre a chiudere, bloccare, uccidere qualsiasi rapporto, qualsiasi relazione, e il danno è reciproco (sia di chi lo commette, sia di chi lo subisce).
E la seconda, più legata all’agire divino, perché siamo figli di un Dio che si è rivelato come misericordia.
Ce l’ha detto anche il salmo responsoriale:
Misericordioso e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
Non ci tratta secondo i nostri peccati
e non ci ripaga secondo le nostre colpe.
Siamo figli di un Dio che non ci tratta secondo le nostre colpe, secondo il merito, ma a partire dal suo gran cuore: “amami quando me lo merito meno, perché sarà il momento in cui ne ho più bisogno”.
Il segreto sta qui: se stai di fronte a Dio come un giusto, un già arrivato, allora non sopporterai il fratello che sbaglia e non sarai capace di tollerare i suoi errori. Se stai davanti a Dio come un peccatore perdonato, allora ti sarà più facile amare e perdonare quello che il vangelo chiama “il nemico”, l’antagonista, l’avversario, chi ti si mette di traverso, chi ti mette i bastoni tra le ruote.
Quando questa logica viene attuata nel mondo e quando sappiamo metterla in pratica nella nostra vita e nelle nostre relazioni, tutto ricomincia a girare per il verso giusto.
Al capitolo settimo, Luca ci presenterà la figura della peccatrice perdonata. Gesù nei confronti di questa donna, dice: «sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco».
Il perdono, il ridare una nuova possibilità, il ridare una nuova speranza, il dire “ce la puoi fare”, l’affermare con convinzione “non sei, non coincidi con il tuo peccato, ma sei molto di più” rimette in moto le persone, sprigiona energie tali che la persona che riceve questo annuncio di bene, spesso trova in se stessa le forze per cambiare, per migliorare, per crescere, per andare oltre i propri errori e i propri sbagli.
Il giustizialismo uccide le persone e l’intera società (perché impedisce il cambiamento di chi ha sbagliato), la misericordia (che non va contro la giustizia, ma ne è il suo compimento) attiva quelle energie di bene che nella maggior parte dei casi trasformano positivamente le persone che hanno sbagliato, anche gravemente. Pensiamo alle tantissime esperienze di risurrezione e di riscatto di carcerati, di delinquenti, addirittura di mafiosi. Ce ne sono, e non sono poche…
Ricordiamoci che dietro a tanto male, spesse volte c’è tanta sofferenza e tanto non-amore. Non so se siete d’accordo con me, ma è difficile che una persona che si sente (ed è veramente) amata diventi cattiva.
Se saremo capaci di sperimentare tutto questo nella nostra vita quotidiana e nelle nostre relazioni, troveremo serenità, felicità e pienezza di vita, doni, regali assicurati anche da Dio a chi tenta di assomigliargli, almeno un poco.
VI domenica del T.O. – anno C – 2019
Le beatitudini sono anzitutto un annuncio di felicità: beati! (makairoi). Non una felicità a buon mercato, ma una pienezza di vita e di gioia che deriva dall’aver aderito al messaggio evangelico.
E qui ci colleghiamo con la prima lettura, che fa da criterio interpretativo delle parole di Gesù. Il profeta Geremia, riprendendo la tradizione sapienziale, ci dice che ci sono due tipologie di esseri umani: chi confida solo nell’uomo, solo in stesso, nella propria autoaffermazione e nel proprio egoismo. L’aridità sarà la sua caratteristica.
La seconda tipologia di uomo è colui che confida (si fida) del Signore è il Signore è la sua fede, la sua fiducia. L’immagine usata è quella dell’albero piantato lungo un fiume, che stende le sue radici verso l’acqua corrente.
Il profeta ci sta dicendo una cosa importante: se vuoi stare in piedi da cristiano credente non devi dimenticarci di due cose:
- Di avere radici
- Che queste radici abbiano una sorgente dalla quale attingere acqua, vita. Altrimenti si seccano radici e alberi.
Quali sono le mie radici? A quali sorgenti attingo acqua, vita, energia?
Interessante notare la specifica successiva: nell’anno della siccità, quest’albero che ha radici ben piantate, non smette di produrre frutti. Qual è questa sorgente capace di abbeverarci, anche nei momenti di deserto e di aridità spirituale, fisica, psicologica, esistenziale? E’ la parola di Dio! Che va bevuta, gustata, assimilata, così da produrre i suoi effetti. Dice Isaia:
10Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia11 così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata.
Una falsa idea di libertà vede oggi l’avere delle radici come un qualcosa che condiziona e limita la libertà umana. Al contrario l’essere radicati in qualcosa o in qualcuno ne è la condizione di possibilità per esercitare responsabilmente la propria libertà.
Arriviamo alle beatitudini: Beati i poveri perché vostro è il regno di Dio: ha un rapporto con Dio solo chi si riconosce povero, mendicante, bisognoso dell’amore grande e misericordioso del Signore.
Beati voi che avete fame: anche questa è una condizione dei figli di Dio. Ci si può riconoscere figli solo se sentiamo il bisogno di farci saziare dal Padre: “dacci oggi il nostro pane quotidiano”.
Beati voi che ora piangete perché riderete. Già la Bibbia, attraverso i salmi, ci dice che il lutto si trasformerà in gioia (salmo 30). Chi ha un rapporto con Dio riesce a vedere i momenti di fatica e di sofferenza non come una tegola che ti piomba a caso sulla testa ma come un’occasione, un’opportunità di crescita e di maturazione umana e spirituale. In questo rapporto trovi la forza per andare avanti.
Infine l’ultima beatitudine rivolta a coloro che sono perseguitati per la fede: riceveranno la palma del martirio. La fedeltà a Dio, al bene, al vero, al bello, al buono, al giusto verrà ricompensata.
Luca poi aggiunge i ‘guai’, e questi avvertimenti-ammonizioni sono tutte rivolte ai ‘ricchi’. Evidentemente qui né Gesù né Luca hanno l’intenzione di demonizzare la ricchezza in sé, ma quando questa diventa idolo, cioè quando non sei più tu ad avere in mano la cosa stessa ma è lei che ti possiede, togliendoti la libertà.
Gesù si scaglia contro coloro che vivono totalmente ripiegati su di sé, prigionieri del proprio egoismo e della propria autosufficienza, concentrati sulla soddisfazione immediata dei propri bisogni personali, chiusi alle esigenze dei fratelli e radicalmente ostili alla volontà di Dio e al suo amore.
La vita cristiana è proprio tutto il contrario.
V domenica del T.O. – anno C – 2019 (Lc 5,1-11)
Vangelo bellissimo, quello che ci propone la quinta domenica del tempo ordinario, soprattutto per la carica emotiva che traspare dalla narrazione.
Il vangelo della chiamata dei primi discepoli o della pesca miracolosa, narrataci da Luca, si può dividere in alcune parti.
Anzitutto troviamo un’introduzione. Gesù è presso il lago di Genesaret, la folla gli fa ressa intorno per ascoltare la sua parola.
Nell’esperienza di fede tutto parte da quando prendo una scelta ben precisa: ascoltare Dio che mi parla (Non ci sembri scontato!) Tutto il resto (fidarsi e affidarsi, riscoprirsi peccatori, diventare pescatori di uomini) è la conseguenza di questo atteggiamento fondamentale e fondativo. Domandiamoci: chi e che cosa ascolto? A chi do retta? A chi presto attenzione? Perchè dalla riposta che ne scaturisce dipende il mio sintonizzarmi o meno sulle frequenze di Dio. Se la connessione è disturbata oppure non c’è campo è molto difficile che questo avvenga…
Gesù poi vede dei pescatori sulla sponda del lago, erano scesi dalle barche e stavano lavando le reti. Probabilmente avevano il volto triste; erano stanchi e amareggiati perché la pesca è andata male (ci dirà successivamente il racconto).
Gesù ti guarda, ti incontra, ti chiama e ti sceglie nella tua vita quotidiana, soprattutto nei momenti “no”, quando ti senti le ‘ossa rotte’; nei momenti della vita in cui hai la tentazione di mollare tutto, perché il fallimento, la stanchezza, la fatica, lo scoraggiamento ti buttano a terra e la speranza sembra sia ‘andata a farsi benedire’.
Gesù sale sulla barca: Dio vuole entrare nella tua vita, non per fare violenza ma per aiutarti a vedere il tuo quotidiano con occhi nuovi; per vedere le nuove opportunità che ti si aprono davanti; per scorgere i segni di nuove possibilità, di nuovi inizi, di nuove nascite.
Quando ebbe finito di parlare, Gesù disse a Simone: “prendi il largo e gettate le reti per la pesca”.
Non è facile obbedire a questo invito di Gesù. Più che prendere il largo tante volte ci vien voglia di tirare i remi in barca e di stare attraccati alla riva: quando la vita si fa pesante, quando siamo raggiunti da imprevisti, quando le relazioni si incrinano, quando sembra non ci siano più pesci da pescare… “abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla”.
Getta le reti! Non tirarti indietro; provaci, buttati, rischia, osa! Fidati di me, della mia parola. Quello di Gesù è un grande invito alla fiducia, a vivere il quotidiano in maniera straordinaria; a provare a dare senso a tutto ciò che facciamo.
E’ la grande e prima vocazione ad essere uomini, ad avere il coraggio di prendere in mano la nostra vita e a farne un capo-lavoro (un’opera che costruiamo sempre da capo, di inizio in inizio). Simone Cristicchi (nella sua canzone sanremese ‘abbi cura di me’) afferma: la vita è l’unico miracolo a cui non puoi non credere.
Pietro risponde: “sulla tua parola getto le reti”. Mi fido e mi affido. Le reti si riempiono.
Quando la mia barca si riempie?
- Quando la mia vita acquista una direzione, un senso, un significato (che va ritrovato giorno dopo giorno);
- quando la serenità di fondo non ti molla;
- quando l’anima trova pace; quando la forza e il coraggio ti fanno andare avanti;
- quando la generosità allarga il cuore;
- quando il perdono, accolto e ricevuto, ti fa capace di rinnovare l’amore.
Subito dopo Simon Pietro si getta alle ginocchia di Gesù e dice: “allontanati da me perché sono un peccatore!”
Bellissima la figura di Pietro: uomo dai grandi slanci, dalle brusche frenate e dalle rovinose cadute. La qualità che traspare da questo gesto è la sua trasparente, cristallina, pura sincerità.
Gesù gli risponde: non avere paura, da adesso in poi sarai pescatore di uomini.
Pescatori di uomini perché pescati da Dio.
Carissimi, non facciamo l’errore di pensare che questa chiamata sia rivolta solo ai preti o a qualcuno in particolare.
Gesù chiama tutti a pescare la vita della gente, dei fratelli e delle sorelle. Deve essere l’esperienza di ogni credente: tutti siamo chiamati a “pescare la vita degli altri”, ovvero a prendercene cura.
Prenderci cura gli uni degli altri: dei miei familiari, di chi mi vuole bene, di chi non me ne vuole; di chi lavora con me, di chi mi è amico; di chi è nel bisogno, nella necessità, nell’indigenza.
Prenderci cura gli uni degli altri è la forma di amore con la quale Dio ha scelto di starci vicino: “Abbi cura di me affinché io possa prendermi cura di te”.
IV domenica del T.O. – anno C – 2019 (Lc 4,21-30)
Due sono le tematiche che ci consegna la Parola di Dio di questa domenica: la prima è la PROFEZIA, di cui ha parlato la prima lettura e ripresa da Gesù nel vangelo.
La prima lettura ci ha narrato la storia della vocazione di Geremia, chiamato da Dio ad essere ‘profeta delle nazioni’.
Tre i passaggi: l’elezione (ti ho chiamato-amato fin dal grembo materno), la consacrazione e la missione.
Così è anche per noi. Per noi l’elezione è iniziata con il dono della vita, la consacrazione con il Battesimo (con il quale siamo diventati sacerdoti, re e profeti), la missione, che realizziamo nella vita quotidiana.
Anche noi siamo chiamati ad essere profeti in un mondo che sembra aver perso uno sguardo ampio, che va oltre, che guarda lontano, che non si ferma solo al presente e ai bisogni immediati. Avere uno sguardo così (lungo, ampio e profondo) significa sentire la responsabilità che ciascuno di noi ha di fronte al domani.
Un tema fra tutti: quello ecologico. Due notizie mi hanno colpito in questi giorni: la prima riguarda uno studio di ricercatori italiani (indipendenti) sul drammatico e inarrestabile scioglimento dei ghiacciai (si è staccato un blocco di quaranta km2!)
La seconda riguarda una giovane sedicenne ragazza svedese (Greta Thumberg) che (inconsapevolmente) ha dato vita, tramite la rete, ad un movimento giovanile che vuole lottare contro i cambiamenti climatici del pianeta.
Siamo profeti quando:
- Anticipiamo, affrettiamo, collaboriamo alla diffusione e alla costruzione del bene.
- Indichiamo una direzione da percorrere
- Ci facciamo accompagnatori
- Siamo capaci di rendere ragione della speranza che è in noi (1Pt), ossia dare ragioni per vivere e per sperare (Concilio)
La seconda tematica è l’AMORE.
San Paolo, nella prima lettera ai Corinzi ci ha invitato a desiderare i carismi più grandi. E quello più grande è sicuramente l’amore. Perché la Carità non ha fine. Scompariranno le profezie, cesserà il dono delle lingue, svanirà la conoscenza, ma resterà l’amore. L’amore rimane. Ma quale amore? Ce ne sono in giro di tanti tipi, anche a buon mercato. Noi cristiani crediamo, ci affidiamo e ci fidiamo dell’amore di Cristo, annunciato, vissuto e testimoniato: per questo è un amore credibile.
Il vescovo Angelo Paravisi aveva un bellissimo motto episcopale: “Caritas Christi urget nos”(2Cor 5,14): l’amore di Cristo ci spinge.
Siamo chiamati come cristiani a osare l’amore, a rischiare l’amore, magari anche a perderlo per poi poterlo ritrovare. Perché senza l’amore “non sono nulla” (1Cor 13,2).
L’amore magnanimo (di animo grande);
L’amore benevolo (che vuole, desidera il bene);
L’amore non invidioso (che stima le qualità dell’altro);
L’amore che non si vanta e non si gonfia di orgoglio (l’amore umile, non superbo, arrogante, impositivo);
L’amore che non manca di rispetto (l’amore gentile, cortese);
L’amore che non cerca il proprio interesse;
L’amore che non si adìra (l’ira, uno dei vizi capitali più insidioso);
L’amore che non tiene in conto il male ricevuto (l’amore che perdona);
L’amore che non gode dell’ingiustizia – delle ingiustizie;
L’amore che gioisce della verità (e non delle fake-news);
l’amore che tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
Infine san Paolo conclude dicendo che conosceremo in pienezza l’amore solo quando vedremo Dio faccia a faccia (l’orizzonte escatologico).
Signore, fa che impariamo ad amare, come tu ci hai amati. A volte non sappiamo neanche dove siamo girati. Talvolta non sappiamo neanche da che parte cominciare. Non smettere di indicarci la vita, che tu per primo hai annunciato, percorso e vissuto.
III domenica del T.O. – anno C – 2019 (Lc 1,1-4; 4,14-21)
Il vangelo di questa domenica è composto da due brani. Il primo è l’introduzione che Luca ci presenta all’inizio del suo libro. Luca ci dice che il vangelo non è una bella favola inventata di sana pianta, ma è il racconto della storia e della vita di Gesù, uomo e Figlio di Dio. Oggi tanta gente mette in discussione il fondamento storico della Buona Notizia, e sbaglia, perché chi l’ha messo per iscritto, sì lo ha fatto con l’intenzione di far crescere la fede, ma la storia è una parte fondamentale del mistero dell’incarnazione: Dio viene ad abitare la nostra storia e la fa sua, la vive, e la trasforma. Così la storia non è un tempo insensato, un susseguirsi di eventi a caso, ma diventa una storia di salvezza, pur in mezzo a ombre di morte e di peccato.
La seconda parte del vangelo ci presenta Gesù che ritorna nella sua cittadina, Nazareth, dove ha vissuto per circa trent’anni.
Nazareth è una periferia nella periferia dell’impero romano, (la Palestina). Ed è una terra di confine con gli altri popoli. Gesù non avrà paura di superare e di abbattere i confini. Costruirà ponti e non muri (come ci ha ricordato ancora una volta papa Francesco a Panama). Gesù include e non esclude. Tutte le azioni messianiche elencate da Isaia vanno in questa direzione.
Da buon israelita frequenta la sinagoga, e da maschio adulto legge la parola di Dio, che in quel caso coincideva con un passo del rotolo del profeta Isaia. Questo passo biblico, già ai tempi, era riferito al messia e diventa così il programma della vita di Gesù:
“Lo spirito del Signore è sopra (con) me”, per questo mi ha consacrato con l’unzione” (v.18a). Isaia descrive quello che è successo nel battesimo al fiume Giordano.
Mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio (v.18a)
Per accogliere il lieto annuncio è necessario farci poveri (e farci prossimi): svuotarci del nostro ego, della nostra superbia, saccenza, autoreferenzialità e accogliere l’esperienza di un Dio che ci vuole bene. “Tu hai bisogno di Dio e Dio ha bisogno di te”. Non è una limitazione della libertà umana, ma ne è la condizione e il compimento.
La liturgia ci ricorda: “fa’ che ci impegniamo con coraggio (cuore in azione) e passione (patire con) al servizio dei poveri e dei sofferenti”.
Mi ha mandato a proclamare ai prigionieri la liberazione (altra traduzione, il perdono – v.18b)
Solo Dio ci può liberare dai tanti casini (prigioni) in cui ci andiamo a cacciare; solo lui ci può liberare dai tante paralisi e blocchi che la vita ci mette davanti; solo lui ci può liberare dagli idoli (ognuno ha i suoi), che invece di darci vita ce la tolgono.
Mi ha mandato a donare la vista ai ciechi (v.18b)
Quante volte ci capita di non vedere (o di vedere solo quello che vogliamo noi). Dio ci aiuta ad aprire gli occhi. Per vedere i fatti, le persone, le cose per quello che sono (e non attraverso i film che produciamo nella nostra testa).
Dice sempre la liturgia: “Donaci occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli”. Guarda il reale e cerca di dargli una risposta. Non voltarti dall’altra parte. Il reale è più importante delle idee, delle convinzioni, delle ideologie.
Mi ha mandato a rimettere in libertà gli oppressi (v.18b)
Cosa ti opprime? Cosa ti preoccupa, ti crea ansia o agitazione? L’abitudine, la monotonia, l’apatia, la fragilità, il limite, le paure…
Cosa ti affatica, ti stanca, ti sfianca, ti butta a terra?
Il lavoro, la vita frenetica, lo stress, gli impegni, i problemi quotidiani, le incomprensioni, le fatiche relazionali…
Dio rimette in moto la nostra libertà (interiore e di azione).
“Infondi in noi la luce della tua parola per confortare gli affaticati e gli oppressi”.
Infine, OGGI si è compiuta questa Parola che voi avete ascoltato (v.21).
E’ l’oggi della fede, è l’oggi dell’affidarsi a Dio e del fidarsi di Lui.
II domenica del T.O. – anno C – 2019
Giovanni 2,1-11
Con questa domenica entriamo nel tempo ordinario che ci accompagnerà per quasi due mesi, prima di arrivare alla Quaresima e alla Pasqua.
Il vangelo odierno ci propone l’episodio delle nozze di Cana: il primo dei segni di Gesù, attraverso i quali il Figlio di Dio rivela la sua “gloria”: kabod, cioè la sua identità, la sua missione.
Gesù è invitato ad una festa di nozze, a un banchetto, insieme a sua madre e ai suoi discepoli.
Gesù va dove c’è vita. dove nasce la vita, dove la vita scorre, si sviluppa, dove l’uomo vive. Dio non se ne sta a casa sua a farsi i fatti suoi, ma si autoinvita a casa nostra, per stare con noi, per condividere le nostre gioie e le nostre speranze, i nostri successi e i nostri fallimenti, le nostre tristezze e le angosce. A Dio piace starci vicino: il mistero dell’Incarnazione appena celebrato ce l’ha ricordato con forza.
Questa festa di nozze ha una battuta d’arresto: come la nostra vita. Lo sappiamo bene: non sempre tutto va come deve andare (così cantava Max Pezzali degli 883 negli anni ‘90); non tutto va sempre per il verso giusto. La vita si ‘interrompe’ quando vengono a trovarci esperienze di morte: una malattia, un lutto, una difficoltà economica, incomprensioni in famiglia: tra coniugi, tra genitori e figli; sul posto di lavoro… la crisi di una relazione…
“Non hanno più vino” dice una mancanza, una privazione, una fatica, una sofferenza, un vuoto (che può essere anche interiore, spirituale, esistenziale, psicologico).
“Non hanno più vino” significa imparare a guardare in faccia ai nostri limiti, alle nostre povertà e fragilità e non aver paura di chiamarle per nome, accettarle e farle diventare un punto di forza.
“Non hanno più vino” può voler significare aver perso la strada e non ritrovare più il bandolo della matassa; aver preso strade sbagliate e non riuscire a uscirne.
Anche le riserve della nostra vita si svuotano, anche il cuore talvolta (spesso) inaridisce, anche le forze che ci hanno sempre sostenuto, sembrano venir meno o addirittura scomparire.
Bellissima la risposta di Maria: “fate tutto ciò che vi dice”. Affidati a Dio, fidati di lui! Della sua Parola, della sua Persona. Non ti risolverà i problemi (te ne darà la chiavi per aprire quelle porte che le circostanze della vita oppure te stesso hai chiuso o sprangato); non si sostituirà a te, ma ti starà vicino; ti rimetterà sulla strada giusta; rinnoverà la tua capacità di amare, ti darà forza per ripartire, per ricominciare, ti aiuterà a riprendere in mano la tua vita là dove l’hai lasciata, là dove l’hai perduta, dove si è inceppata, bloccata.
L’acqua diventa vino e le anfore si riempiono.
E’ proprio vero che la nostra vita, quando si fa stanca, opaca, delusa, può ritornare ad essere vino?
E’ proprio vero che le nostre anfore vuote possono tornare a riempirsi?
Sì, almeno per due motivi:
Primo: Sì, perché il nostro poco nelle mani di Dio diventa molto.
Secondo: Sì, perché Dio è la fonte, la sorgente, il principio e il fine dell’amore. La sorgente dell’amore non inaridisce, non secca, non si esaurisce. Non smette di zampillare, affinché l’uomo continui, cocciutamente, ad amare, a sperare, a vivere.
BATTESIMO DI GESU’ – anno C – 2019
Mi sono sempre chiesto, fin da ragazzo, il perché Gesù sceglie di farsi battezzare da Giovanni. Il battesimo di Giovanni, infatti, era un rito di purificazione dei peccati. E mi sono sempre detto che il Figlio di Dio non aveva bisogno di sottostare, di sottoporsi a questo rito.
E allora? Siamo punto e a capo… alla fine mi sono dato queste due risposte:
Attraverso l’accettazione di questo gesto Gesù SCEGLIE di diventare Figlio. Gesù ha trent’anni, una vita, fino ad ora, vissuta nel nascondimento, nella preparazione, nella riflessione, nella preghiera per vivere al meglio la propria vocazione, la propria missione, il ministero pubblico che dovrà affrontare nell’ultimo tratto della sua esistenza.
Facendosi battezzare da Giovanni Gesù dice il suo “sì”, il suo “eccomi” libero, definitivo e consapevole (il primo sì l’ha detto nel mistero dell’incarnazione… la lettera agli Ebrei lo dice con queste parole: “Ecco, io vengo o Dio per fare la tua volontà” Eb 10,9-Salmo 40).
Per questo possiamo considerare il Battesimo come il compimento del Natale; per questo la Chiesa ha messo la festa del Battesimo di Gesù come conclusione del tempo natalizio.
La seconda risposta che mi sono dato del perché Gesù si fa battezzare da Giovanni il Battista la prendo proprio dal vangelo: Gesù non solo sceglie di ricevere il battesimo di Giovanni ma sceglie anche la modalità con cui farlo: mettendosi in fila con i peccatori. Non sta davanti (per dire ‘sono il più bravo’; non sta alla fine, – per una falsa umiltà -, ma in mezzo!)
E qui, molti artisti che hanno dipinto il battesimo di Gesù hanno fatto un po’ ‘cilecca’: molti hanno dipinto Gesù mentre viene battezzato, da solo, isolato dalla folla. Sbagliato!
Gesù sceglie di essere solidale con l’umanità peccatrice.
L’ha profetato bene Isaia, otto secoli prima di Cristo: “Egli non griderà né alzerà il tono della voce; non spezzerà la canna incrinata; lo stoppino dalla fiamma smorta; nel suo nome spereranno le genti” (42,3).
Lo dice bene anche l’immagine del buon pastore che abbiao incontrato nella prima lettura: “Come un pastore egli fa pascolare il suo gregge e con il suo braccio lo raduna: porta gli agnellini sul petto e conduce pian piano le pecore madri” (Is 40,11).
E il Battesimo non è nient’altro che il primo passo (fondamentale) per fare questo. Il compimento di questo progetto di salvezza Gesù lo rivelerà definitivamente con la scelta libera di donare la sua vita sulla croce. San Paolo ha delle parole bellissime per dire la morte in croce di Cristo: “Gesù non solo si carica dei peccati di tutto il mondo, ma, colui che non aveva conosciuto peccato, SI FA LUI STESSO PECCATO in nostro favore” (2Cor 5,21) affinché noi avessimo la Vita di Dio.
Queste due scelte di Gesù (la scelta di diventare e di ‘fare’ il Figlio di Dio – di essere la sua immagine, la sua rivelazione, e il mettersi in fila con i peccatori) fanno dire a Dio Padre:
“Bravo! Così si fa! Sei tutto tuo Padre! Hai capito chi devi essere e come deve essere il tuo stile! Sono fiero, orgoglioso di mio Figlio!”. Per questo lo definisce “amato” (Lc 3,22)!
Amare una persona significa aiutarla a diventare ciò che deve essere!
Infine, con il suo gesto Gesù ci fa un grande annuncio: ciò che ti segna in modo indelebile non è il tuo peccato ma il tuo essere figlio di Dio. E’ questo che costituisce il tuo DNA!
Potresti essere anche il più incallito peccatore, ma Dio non smette di amarti e di dirti: “Tu sei mio Figlio, l’amato, io ti ho generato e in te pongo tutta la mia stima, il mio orgoglio”.
Perché Dio non è venuto a ‘segare gambe’, a dare ‘martellate in testa’, a infliggere ‘colpi bassi’, ma a rimettere in piedi, a ridare nuove opportunità di vita: “non sono venuto per condannare, ma a perdonare e a salvare” (Lc 19,10; Gv 3,17; Gv 12,47).
Certo, la cosa non va in automatico; c’è un passaggio da fare: sceglie di essere, meglio, scegliere di diventare figli. Vivere da figli, figli di Dio.
Ultima sottolineatura: Gesù si scopre, sceglie, decide, di essere Figlio di Dio attraverso la preghiera. Non arriva a questo per la sua bravura, per la sua intelligenza, per i suoi meriti. E’ attraverso il dialogo con Dio, frequentandolo, ascoltando la sua Parola che Gesù, con pazienza e perseveranza, si riconosce Figlio: capisce chi è, da dove viene, cosa deve fare, come deve farlo, dove deve andare. Così deve essere per ciascuno di noi.
EPIFANIA – 2019
Se nel Natale Gesù viene nel mondo come Messia, come inviato per la casa di Israele (per il popolo ebreo – ricordiamoci le parole di san Giovanni: venne tra la sua gente ma i suoi non l’hanno accolto; a quanti lo hanno accolto ha dato loro il potere di diventare figli di Dio – Gv 1,11-12), nella solennità dell’Epifania Dio si mostra (è il significato del verbo epifaneuo, da cui Epifania), si rivela, si dona a tutti.
Nell’Epifania Dio sceglie di abbracciare l’intera famiglia umana; abbatte steccati, fa crollare muri, ricuce, riunisce e include.
E’ l’inizio del cammino pasquale, dove, alla morte e risurrezione di Gesù cade il velo del tempio di Gerusalemme (simbolo di separazione) e un pagano, visto spirare Gesù in quel modo, proclama: veramente quest’uomo era il Figlio di Dio! (Mc 15,39)
Proviamo a cogliere il significato di questa festa a partire dai personaggi che abbiamo incontrato nel vangelo di Matteo che abbiamo appena ascoltato:
Anzitutto gli abitanti di Gerusalemme: se ne stanno chiusi in se stessi, sprangati nelle loro case. La nascita di Gesù crea scompiglio, paura, ma non sorpresa, curiosità, stupore.
Questa gente siamo noi quando di fronte alla vita della comunità diciamo: “non mi interessa, non mi riguarda, non è affar mio”; quando ci richiudiamo nei nostri piccoli interessi personali e non ci apriamo ad un orizzonte più vasto…
Poi incontriamo il re Erode che rappresenta i timorosi, i paurosi: Gesù è visto da Erode come un attentatore alla propria persona e al proprio potere.
Erode siamo noi quando vediamo gli altri come avversari, come rivali, peggio come nemici. Gente da tenere a debita distanza affinché non mi privi di qualcosa e non invada il mio spazio vitale…
E poi ci sono i (falsi) sapienti della corte di Erode: i capi dei sacerdoti e gli scribi. Siamo noi quando ci affidiamo unicamente alla norma, alle regole, alle leggi oppure alle tradizioni. Siamo noi quando lo “sta scritto” vale più delle persone in carne ed ossa. Siamo noi quando sfruttiamo l’altro; quando lo consideriamo solo come merce da usare per i nostri scopi.
E infine ci sono i magi: partono da zone diverse del pianeta per raggiungere una terra straniera; rischiano, se la giocano, si affidano e si fidano dei segni di Dio, vedono, credono, offrono doni, e per un’altra strada fanno ritorno ai loro paesi (Mt 2,12).
Un’altra caratteristica molto bella di questi sapienti (gente che fa funzionare il cervello, teste “pensanti”) è che provengono da diverse regioni della terra: hanno una cultura, delle tradizioni, e sicuramente una lingua diversa: eppure imparano a stare insieme, a conoscersi, a rispettarsi e a stimarsi.
I magi oggi assomiglierebbero alla gente che vuole conoscere il mondo, che lo apprezza; che ne vede i limiti ma soprattutto le potenzialità; alla gente che si batte per l’uguaglianza, per i diritti comuni; che lotta contro le disuguaglianze, le discriminazioni, i nazionalismi, le violenze contro le minoranze e le guerre fratricide.
I magi oggi assomiglierebbero:
- al giovane Antonio Megalizzi, che credeva e si batteva per un’Europa unita e solidale (sul suo profilo twitter c’è ancora l’immagine: “2018-UE=1948”), morto nell’attentato di Strasburgo di quest’anno;
- ad una Liliana Segre, testimone delle atrocità dell’Olocausto;
- a Valeria Solesin, 28 anni, veneziana, studentessa della Sorbona, impegnata nel volontariato, morta nell’assalto terroristico al Bataclan di Parigi, nel 2015.
Non voglio farla facile; non voglio semplificare un tema così complesso come la diversità e la multiculturalità. Tuttavia oggi viviamo in un mondo globale, iperconnessi e viaggiatori. Non è più possibile e non è neanche razionalmente sostenibile sostenere la tesi: “sto bene in casa mia e non ho bisogno di nessuno”… Storie! La storia ci insegna che si è chiuso in se stesso o è stato conquistato da altri oppure si è lasciato ammuffire ed è imploso.
Gesù ci insegna: apri le braccia, apri il cuore, ama senza porre condizioni e senza aspettarti nulla in cambio. E riceverai molto.
Non solo ce lo ha insegnato ma ce ne ha dato l’esempio. Esempio che si attualizza in ogni Eucarestia: “Questo è il mio corpo; questo è il mio sangue… per voi e per tutti… fate questo, in memoria di me”.
MARIA SS. MADRE DI DIO – anno 2019
Il grande annuncio che ci viene rivolto da Dio attraverso la liturgia di questo primo giorno dell’anno civile ha a che fare con una benedizione.
La benedizione che JHWH dona agli Israeliti attraverso Mosè e Aronne continua nei secoli, attraverso Gesù, che è la grande benedizione di Dio per il mondo. Attraverso suo Figlio Dio si impegna per in prima persona nel non venir meno alle sue promesse di bene. Mi piace pensare il Signore che dice: “non mi tiro indietro; non tiro il freno a mano; non ritratto ciò per cui ho giocato tutto me stesso”.
Proviamo a riflettere insieme sul significato di questa benedizione: “Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace”.
Innanzitutto il primo verbo: il Signore ti benedica.
Dio dice bene di te; qualunque sia la ‘posizione’ che tu hai nei suoi confronti; qualunque sia il grado della tua moralità, della tua fede, della tua testimonianza.
Come un papà e una mamma che non parla male di suo figlio, così Dio fa con noi perché, come ci ha detto san Paolo, Dio manda il suo figlio del mondo perché noi potessimo partecipare della sua figliolanza.
E se siamo figli, siamo anche eredi: “figlio, tutto ciò che è mio è tuo”, dice il padre della parabola al figlio maggiore. Erede è colui che riceve, colui che accoglie un’eredità. Un impegno ma anche e soprattutto un dono gratuito e immeritato (l’eredità non te la meriti, non la conquisti). Quale eredità: la vita, il tempo, l’amore.
Il secondo verbo che troviamo nella benedizione è custodire, che etimologicamente significa sorvegliare, vigilare. E’ bello all’inizio dell’anno, pensare a Dio come un papà che non interviene direttamente nel tuo esodo (il cammino che percorri per uscire da te stesso) ma ti guarda a debita distanza (per lasciarti libero), e tuttavia con questo sguardo ti protegge e ti accompagna, tirandoti in piedi quando inciampi; abbracciandoti quando ti metti a piangere; con-solandoti (rimettendoti al sole) quando la nebbia o le nuvole vengono a farti visita oppure quando sei tu che ti ci ficchi dentro…
Il terzo verbo della benedizione è sol-levare che significa: “fare alzare il sole”. Dio, con la sua presenza sicura, certa, solida, fa crescere, rafforza, rinsalda la speranza. La virtù bambina, dice il poeta francese Charles Peguy, capace di sorprendere perfino chi l’ha creata.
La speranza che il bene cresca e si diffonda;
La speranza che ciò che vivremo abbia un senso;
La speranza che il mondo viva giorni di pace;
La speranza di vivere una vita lieta, serena, possibilmente gioiosa, anche in mezzo a prove, fatiche, difficoltà, tempeste.
Di fronte a un nuovo anno che si apre, se vogliamo essere sinceri con noi stessi, salta fuori un po’ di ansia, di apprensione, di inquietudine. Anche perché, con lo stile che un po’ abbiamo assunto e un po’ ci è stato imposto, il tempo corre via velocissimo, cerchiamo di rincorrerlo, ma lui è già troppo avanti per poterlo riacchiappare…
Nell’esperienza e nell’ottica di fede i credenti non sono dominati, schiavi del tempo; al contrario siamo noi a dare senso al tempo: così mille anni possono essere come il giorno di ieri che è passato e un giorno può diventare un’eternità.
E’ il nostro modo di viverlo e il senso che gli diamo, come lo affrontiamo che qualifica il nostro tempo.
Cari fratelli e sorelle, accogliamo con gratitudine e con semplicità il nuovo anno civile che sorge, perché un nuovo anno è sempre:
un’opportunità da cogliere, un dono da coltivare,
una promessa da credere, un progetto da realizzare,
una sfida da affrontare, una storia da vivere.
Un tempo per AMARE e LASCIARCI AMARE. E qui ripartiamo sempre da zero; siamo sempre principianti. Non ci sono lauree, master, corsi di preparazione che ci abilitano alla più grande avventura e alla più grande sfida che si trova ad affrontare ciascuno di noi.
Diamo una mano al 2019 affinché ci possa essere amico; affinché ci possa sorridere e possa stare dalla nostra parte.
Festa della santa Famiglia – anno C – 2018
Celebriamo la festa della santa famiglia di Nazareth, formata da Gesù, Maria e Giuseppe, con Dio che fa da regista (o meglio, per dirla con un’altra immagine, da personal trainer).
Si dice che la santa famiglia debba essere il modello delle nostre famiglie cristiane. Si può controbattere a questa affermazione riflettendo se il modello proposto non sia un po’ troppo alto da seguire, inarrivabile, innavicinabile:
- Maria, vergine, che concepisce per opera dello Spirito Santo anche se promessa sposa di Giuseppe;
- Giuseppe, uomo giusto, secondo la Bibbia, ma in una posizione alquanto strana all’interno del nucleo familiare;
- Gesù, vero Dio e vero uomo, (F)figlio.
Eppure, seguendo la storia della famiglia di Nazareth tramandataci dai vangeli, non c’è un modello così umano, così profondo e così vero, che sia così vicino alle nostre famiglie. infatti la narrazione della vita di Gesù, Giuseppe e Maria è il racconto di una famiglia REALE: con le sue gioie e i suoi problemi, i momenti belli, i momenti bui, le fatiche e le consolazioni. Ricordiamoci le parole di papa Francesco nell’Evangelii Gaudium: “la realtà è più importante dell’idea”.
Abbiamo fatto anni, decenni, a difendere un modello di famiglia, ideale che non c’è nella realtà e non c’è mai stata… per intenderci, la famiglia del “Mulino Bianco”.
La realtà ci consegna che non c’è ‘la’ famiglia, ma “le famiglie”, diversi tipi di famiglia che vanno accolti, rispettati, valorizzati, oserei dire soprattutto da noi cristiani, che abbiamo fatto dell’amore la nostra ragione di vita.
Di fronte a questo variegato panorama esistenziale, tuttavia, non si può tacere (o far finta che non esista più) il vangelo (la buona notizia) della famiglia: una figura paterna e materna che esprimono e manifestano la loro unione coniugale con l’apertura alla vita attraverso il dono dei figli (biologici o non, perché la paternità e la maternità non derivano anzitutto dalla biologia ma dall’amore che si esprime nel far crescere e nell’educare).
Una famiglia che cerca, che prova, che tenta di vivere i legami familiari come legami d’amore, nella vita quotidiana. Con i propri fallimenti, le delusioni, le battute d’arresto, le incomprensioni, le ferite inferte reciprocamente, i tradimenti.
Ripercorriamo la storia della santa Famiglia e ritroveremo la vita e le dinamiche delle nostre famiglie:
- Il fidanzamento e il tempo della prova di Maria e Giuseppe, con le sue luci e ombre, aperture, chiusure, incomprensioni e chiarimenti… sperimentato da tutti…
- Una nascita attesa, difficoltà di vario genere, un bambino che porta con sé il mistero della sua vita. “Che sarà mai di questo bambino?”, … domanda di ogni padre e di ogni madre.
- La presentazione del Bambino ai Magi, come l’introduzione dei figli, da parte dei genitori, nel mondo extra-familiare;
- La fuga in Egitto, come lo spostamento della residenza, per lavoro, per affetti, oppure le fughe in avanti o indietro dei figli…
- La presentazione al Tempio: per noi, i sacramenti dell’iniziazione cristiana…
- Infine, arriviamo al vangelo di oggi, ovvero la perdita e il ritrovamento di Gesù nel Tempio di Gerusalemme, insieme ai sapienti e agli esperti della Bibbia.
Gesù ha già dodici anni: a quell’età l’ebreo maschio veniva introdotto nella società attraverso il rito del bar-mitzwah (che aveva un po’ il significato della nostra cresima negli anni scorsi).
Attraverso questo vangelo (e gli altri che abbiamo appena accennato) comprendiamo come la famiglia cristiana è ed è chiamata ad essere una comunità che:
- Genera vita
- Trasmette valori (valore: ciò per cui vale la pena di vivere)
- Educa al dono di sé. Educare, da educere: tirar fuori, far nascere, partorire, oppure dare forma (come il vasaio)
Gesù, nella vita con Maria e Giuseppe conosce e sperimenta il valore della propria vita e impara a fare la volontà di Dio, ossia affronta il cammino di ricerca e di comprensione della propria identità (chi sono chiamato ad essere) e della propria missione (qual è il mio posto nel mondo).
E intanto i genitori vivono (e subiscono) il travaglio di educare un ‘cucciolo d’uomo’; ossia di far crescere nel figlio la libertà e la responsabilità delle proprie scelte (in psicologia si direbbe l’autodeterminazione del soggetto).
Molto belle e illuminanti in questo senso le parole del poeta Kalil Gibran:
I tuoi figli non sono figli tuoi, sono figli e le figlie della vita stessa.
Tu li metti al mondo, ma non li crei.
Sono vicini a te, ma non sono cosa tua.
Puoi dar loro tutto il tuo amore, ma non le tue idee,
perché essi hanno le loro proprie idee.
Tu puoi dare loro dimora al loro corpo, non alla loro anima,
perché la loro anima abita nella casa dell’avvenire, dove a te non è dato entrare (…).
Puoi cercare di somigliare a loro, ma non volere che essi somiglino a te,
perché la vita non ritorna indietro e non si ferma a ieri.
Tu sei l’arco che lancia i figli verso il domani.
Infine Gesù cresce in età, sapienza (testa, intelligenza) e grazia (amore) al cospetto di Dio e degli uomini (come dobbiamo fare un po’ tutti, tenendo insieme i tre aspetti).
Come ultima sottolineatura, la santa Famiglia ci insegna che più si sta vicini a Dio più è facile trovare luce e vie di uscita ai problemi della vita; più ce ne si allontana, più i problemi sembrano insormontabili e irrisolvibili.
Santa Famiglia di Nazareth, prega per noi, per le nostre famiglie, per le famiglie del mondo intero.
NATALE DEL SIGNORE – 2018
Cari fratelli e sorelle, Buon Natale!
Buon Natale a chi vive un momento di serenità;
Buon Natale a chi vive un momento di gioia;
Buon Natale a chi ha trovato pace nel cuore;
Buon Natale a chi si sente soddisfatto e appagato della propria vita, dei propri affetti, della propria professione.
Buon Natale a chi vive questo Natale con in braccio un bambino;
Buon Natale a chi è riuscito a raggiungere un obiettivo importante, portandosi a casa una laurea, un successo personale, un riconoscimento, una promozione;
Buon Natale a chi sta soffrendo per la propria famiglia,
per i propri genitori o per i propri figli;
Buon Natale a chi soffre incomprensioni o difficoltà sul posto di lavoro o per averlo perso;
Buon Natale a chi soffre per aver perso una persona cara;
Buon Natale a chi soffre per una separazione o per un divorzio;
Buon Natale a chi ha perso un’amicizia, un affetto, un punto di riferimento;
Buon Natale ai cuori sanguinanti, ingolfati, grondanti sangue.
Buon Natale a chi sta lottando nella malattia;
Buon Natale a chi sta lottando nella solitudine;
Buon Natale a chi lotta contro una delusione o un’illusione;
Buon Natale a chi sta facendo a pugni con i propri sbagli, errori, tradimenti;
Buon Natale a chi subisce rifiuto, esclusione, emarginazione o abbandono per la propria religione; per il colore della pelle; per la propria razza o etnia; per la propria posizione sociale; per il proprio orientamento sessuale;
Buon Natale a chi si sente preoccupato, stanco, spossato, sfinito.
Buon Natale a chi non riesce a riacquistare le forze, non sapendo dove andare a pescarle.
Buon Natale a chi si dà da fare per gli altri;
Buon Natale a chi spende per il bene pubblico;
Buon Natale a chi si prende cura di chi non ce la fa;
Buon Natale a chi vive nel dubbio e nell’incertezza;
Buon Natale a chi vive nella paura e nell’angoscia;
Buon Natale a chi vive la fragilità e la precarietà;
Buon Natale a chi ha perso le ragioni per vivere e per sperare;
Buon Natale a chi ha qualche conto in sospeso con Dio;
Buon Natale a chi lo sente vicino e presente, come un amico di famiglia.
Buon Natale a chi lo sente lontano e distante, come un estraneo.
Buon Natale a chi ha perso Dio per strada e non sa più dove l’ha messo;
Buon Natale a chi Dio lo bestemmia, lo insulta, lo disprezza, lo ignora;
Buon Natale a chi sta cercando ma fatica a trovare;
Buon Natale a chi ha cercato e ha trovato. E trovando, non smette di cercare ancora.
Buon Natale ai credenti; ai non credenti, ai credenti di altre religioni, agli atei, agli agnostici;
Buon Natale agli uomini che Dio ama (Lc 2,14).
Quarta domenica di Avvento – Anno C – 2018
In questa ultima domenica di avvento sono almeno tre i messaggi che la Parola di Dio ci comunica.
Il primo lo prendiamo dalla seconda lettura, tratta dalla lettera agli Ebrei, che riflette sul mistero dell’incarnazione.
Fratelli, entrando nel mondo Cristo dice: “un corpo mi hai preparato o Dio (…) ecco, io vengo per fare la tua volontà (Eb 10,7.9)
Dio prepara un corpo per suo Figlio. Ma Dio prepara un corpo anche per noi, suoi figli.
L’essere umano ha sempre cercato un rapporto stretto con Dio; ha sempre cercato una comunione piena con lui. L’ha fatto in tanti modi: con i sacrifici, con il culto, con la costruzione del Tempio, delle sinagoghe, delle chiese…
Ma il vero ‘luogo’ dove possiamo incontrare Dio non è qualcosa che costruiamo noi ma quello che Dio costruisce per noi, quello che Dio ci regala: un corpo.
E perché il nostro corpo sarebbe il ‘luogo’ dove incontrare Dio? Perché attraverso il nostro corpo noi possiamo fare la Sua volontà: attraverso il nostro corpo noi possiamo seminare il bene ed essere portatori della gioia e dell’amore di Dio.
Come ha fatto Maria nel vangelo, visitando la cugina Elisabetta (Maria si mette in viaggio, corre, abbraccia).
Con il nostro corpo incontriamo gli altri, ci mettiamo in relazione, lavoriamo, ci divertiamo, studiamo, amiamo o odiamo.
Oggi tanta gente esalta, esibisce, mette in bella mostra un corpo statuario; di per sé nulla di male. Tuttavia questo spesso succede a discapito della dimensione spirituale e interiore.
Non facciamo l’errore (che è stato fatto da tante persone nei primi secoli del cristianesimo) di separare il nostro corpo dall’anima, ovvero dalla parte più profonda, interiore di noi stessi. Corpo e anima vanno insieme, stanno insieme! L’essere umano è un’unità di corpo, di pensiero (spirito) anima (interiorità). Se vogliamo crescere bene e star bene veramente dobbiamo tenere unite queste tre dimensioni!
Il secondo messaggio è il riflettere su quel “fare la volontà di Dio”: per tanti anni abbiamo pensato che fare la volontà di Dio coincidesse con il recitare un copione già scritto da qualcun altro: Dio mi dice (mi ordina) cosa devo fare ed io eseguo. Non c’è qualcosa di già fatto, di predisposto, di preconfezionato a cui aderire… se sfogliamo la Bibbia e tutte le esperienze di vocazione lo capiamo subito…
La chiamata di Dio prende senso e significato solo nella mia risposta libera, generosa, convinta, appassionata, vera e sincera.
La volontà di Dio non è il bene ‘in generale’, ma per me. E il mio bene coincide con la mia felicità. E la mia felicità si costituisce come ‘mia’ a partire dalla mia risposta!
Diceva un grande filosofo del ‘900, Lèvinas: l’appello (la chiamata) risuona solo nella risposta.
E’ la legge dell’incontro: solo nella misura del mio avanzare ciò che mi si presenta davanti emerge; solo se le vado incontro, quella Parola diventa mia.
E che cos’è il bene per me? Neanche Dio lo sa (a priori!)
Dio lo sa con te (e non indipendentemente da te) e tu lo sai con Dio!
Terzo messaggio: Maria che entra in casa della cugina Elisabetta (Lc 1,40).
Anche noi, in queste vacanze di Natale, varcheremo delle soglie di case di amici e di parenti. Facciamolo bene, con convinzione; mettiamoci passione; facciamolo con amore.
Per dirla con papa Francesco, entrare in casa di un altro è come calpestare una ‘terra santa’; è un po’ come entrare nella vita di una persona, nella sua intimità, nel suo mistero.
Come entrarci bene? Alcuni atteggiamenti concreti:
- Con un sorriso, un abbraccio, una stretta di mano;
- Con l’atteggiamento (scelto e voluto) dell’ascolto;
- Con una disposizione d’animo per la quale non impongo me stesso ma lascio la possibilità all’altro di narrarsi, di dirsi, di raccontarsi… affinché l’altro possa diventare sempre di più fratello o sorella.
Dio si fa carne per ricordarci che la nostra carne è qualcosa di prezioso. Un tesoro da mettere a servizio, per fare il bene, nella prospettiva del dono di noi stessi:
“Questo è il mio corpo… questo è il mio sangue… per voi e per tutti… fate questo in memoria di me… perché come ho fatto io facciate anche voi…”.
Terza domenica di Avvento – Anno C – 2018
Domenica della gioia: “gaudete!” Ce l’ha ripetuto per ben tre volte il profeta Sofia nella prima lettura: “Rallegrati, figlia di Sion, grida di gioia Israele, esulta Gerusalemme”
Anche san Paolo è sulla stessa linea: “fratelli, siate sempre lieti nel Signore”.
Perché questo invito alla gioia? Qual è la causa di questo “stile esistenziale” (la parola di Dio non sta parlando di un sentimento passeggero, infondato, inconsistente)
“Il Signore è vicino” (san Paolo)
“il Signore è in mezzo a te; tu non vedrai più la sventura” (riferimento all’esilio babilonese) (Sofonia).
Per sperimentare questa gioia occorre tuttavia un cuore accogliente, un cuore aperto, un cuore che funzioni.
Come prepararsi ad accogliere Cristo che viene, l’Emmanuele, il Dio-con-noi?
Il vangelo ci pone di fronte, come domenica scorsa, la figura di Giovanni il Battista.
Giovanni è un grande predicatore non perché abbia avuto una grande dote oratoria o altri carismi ma perché capace di suscitare la domanda. La gente che lo seguiva si sentiva interpellata e diceva: “cosa dobbiamo fare?” (una risposta che va cercata insieme!).
Giovanni non chiede niente di più di ciò che l’uomo può fare. E lo fa indicando alcuni atteggiamenti concreti:
Primo atteggiamento: “chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha; chi ha da mangiare faccia altrettanto”: far crescere lo stile della condivisione. Questo ci rende fratelli e sorelle e fa sì che a nessuno sia tolta la dignità (la tunica).
Secondo: “non esigete nulla di più di quanto è stato fissato”: l’onestà.
Terzo: “non maltrattate e non estorcete; accontentatevi delle vostre paghe”: la giustizia sociale; il rispetto della legalità; l’astensione di ogni violenza, in particolare contro i più deboli. In sintesi, la cura nel costruire relazioni buone.
Altro? San Paolo aggiunge:
- Non angustiatevi: non fatevi prendere dall’ansia, dalle preoccupazioni, dalle paure infondate…
- Diffondete, seminate, portate la vostra amabilità a tutti.
Una persona amabile: facile da amare. Gentile, garbata, cordiale, che dà piacere parlarle insieme, stare con lei, ascoltarla. Virtù belle da coltivare.
Come di una persona che attende, impazientemente, il ritorno dell’amato. Così si esprime Isaia al capitolo 62:
Io gioisco pienamente nel Signore,
la mia anima esulta nel mio Dio,
perché mi ha rivestito delle vesti della salvezza,
mi ha avvolto con il mantello della giustizia;
come uno sposo si mette il diadema
e come una sposa si adorna di gioielli.
Poiché, come la terra produce i suoi germogli
e come un giardino fa germogliare i suoi semi,
così il Signore Dio farà germogliare la giustizia e la lode
davanti a tutti i popoli.
Seconda domenica di Avvento – Anno C – 2018
Il vangelo di questa II domenica di avvento si apre con un’introduzione storica dove sono rappresentanti i ‘VIP’ del tempo: imperatore romano, re e governatori, sommi sacerdoti. Tuttavia la parola di Dio scende su un very normal people (fan di RTL?): Giovanni il Battista, figlio di Zaccaria.
Da notare: dopo cinque secoli di assenza del profetismo, la parola ricomincia la sua corsa. Cosa ci dice questo fatto? Di non aver paura dell’agire imprevedibile di Dio, dei cambiamenti e delle modifiche in corso d’opera…
Nel deserto: il deserto è il luogo dove Dio parla con il suo popolo. Qual è il tuo deserto? Qual è il luogo dove Dio vuole parlarti, dove Dio vuole incontrarti?
Preparate la via del Signore, la via al Signore (traduzione migliore).
E’ la via della giustizia (e non della furbizia, della falsità, dell’inganno, dell’imbroglio, a danno degli altri)
E’ la via della pace (e non della violenza)
E’ la via del dialogo (e non delle verità in tasca)
E’ la via dell’inclusione (e non dell’esclusione, dell’emarginazione, dell’indifferenza)
E’ la via della corresponsabilità (io me ne sto fuori, io me ne lavo le mani di fronte ai problemi della comunità)
Raddrizzate i suoi sentieri!
I sentieri da raddrizzare sono le nostre cattive abitudini:
- La pigrizia e dunque la perdita di tempo
- L’ingordigia e l’accaparramento
- Le dipendenze (ognuno ha le sue: alcol, fumo, tecnologia, gioco d’azzardo, pornografia, il consumismo…)
- La lamentazione, il pessimismo, la sottolineatura del negativo
- Il dar sempre la colpa agli altri
- L’ansia da prestazione
Cosa c’è da raddrizzare? Alcuni esempi:
- La nostra pigrizia va raddrizzata in impegno
- La nostra distrazione va raddrizzata in attenzione
- La nostra tristezza va raddrizzata in entusiasmo
- Il pessimismo va raddrizzato in ottimismo
- Il parlar male va raddrizzato in stima
Ogni burrone sia riempito:
- Il burrone della conoscenza e della riflessione: spesso vogliamo parlare di cose di cui non siamo a conoscenza; spesso siamo superficiali, ci informiamo poco…
- Il burrone della spiritualità, dell’interiorità, della preghiera. Burroni, voragini causate, diciamo noi, dalla mancanza di tempo…
Abbassare i monti del nostro orgoglio e della nostra autosufficienza, le nostre pretese e i nostri accampare diritti nei confronti di Dio.
Le vie tortuose diventino diritte: le nostre ambiguità, i nostri voltafaccia, le nostre piccole e grandi bugie, le nostre doppie monete, il nostro doppio metro di misura…
Le vie impervie siano spianate: sono i nostri problemi ingigantiti, le fatiche rimosse, gli impegni non portati a termine, gli imprevisti non accettati…
Ogni uomo (ogni carne) vedrà la salvezza di Dio. Vedremo la salvezza di Dio se sapremo convertire il cuore alla sua venuta.
IMMACOLATA – 2018
Qual è il messaggio di questa festa mariana così importante, inserita nel tempo dell’Avvento? Proviamo a decliniarlo per punti (5):
- Anzitutto c’è da accogliere un annuncio, o meglio un lieto annuncio: “Non temere, Dio è con te”: Dio viene a farti visita; Dio ti vuole incontrare; Dio ti offre un appuntamento: ci sarai?
Di fronte a tanti tristi annunci, l’annuncio della bontà di Dio può far stare in piedi un’intera vita: Dio mi vuole bene!
2. C’è da non farsi prendere dalla titubanza, dal dubbio di fede (come è possibile? Non conosco uomo…) Come può una donna, una ragazza, restare incinta per opera dello Spirito Santo: “nulla è impossibile a Dio”… soprattutto se si tratta di questioni d’amore!
Ma anche i miei dubbi di fede: davvero Dio esiste, davvero Dio è buono? Davvero vuole bene a me? … non sarà tutta un’illusione, una proiezione del mio cervello… un mio bisogno inconscio?
E qui ci viene in aiuto il discernimento, ovvero l’arte di imparare a scorgere i segni, le tracce, se volete ‘lo zampino’ di Dio nella mia vita e nella storia del mondo.
3. Ci sono le doglie del parto (darai alla luce un figlio e lo chiamerai Gesù): le fatiche, i tradimenti, le delusioni, i peccati…
- Cosa mi sta dicendo Dio con questa fatica, con questa prova… sul lavoro, in famiglia, con il partner, con un amico/a?
- Cosa mi sta dicendo Dio con questa sofferenza, con questo lutto?
- Cosa mi sta dicendo Dio con questa consolazione… un figlio che si laurea, che trova lavoro; la relazione di coppia che gira bene, un periodo di serenità economica…?
- Cosa mi sta dicendo Dio con questa delusione… famigliari, amici, conoscenti, il capo?
- Cosa mi sta dicendo Dio con questa desolazione, questo momento di aridità spirituale?
- Cosa mi sta dicendo Dio con questo momento di forte stress (psicologico o fisico)?
- Con questa tentazione… successo facile, inganno, imbroglio, falsità?
- Con questo fatto, avvenimento, esperienza… la nascita di un nipotino, una laurea, una malattia, un nuovo posto di lavoro, una depressione, l’esperienza della pensione, un coniuge che si sposta lontano per lavoro, l’invecchiamento di mio padre e mia madre, difficoltà economiche?
4. C’è da partorire un Bambino. E questo vale non solo per Maria, ma per ciascuno di noi. Come credenti siamo chiamati a far nascere Gesù nella nostra vita di ogni giorno. C’è da rinnovare la fede; c’è da far rinascere speranza, c’è da alimentare la carità.
5. C’è da farsi servi, c’è da amare nello stile del servizio: “Ecco la serva del Signore, si compia in me secondo la tua Parola”.
Prima domenica di Avvento – Anno C – 2018
Iniziamo il tempo dell’avvento e un nuovo anno liturgico. Ci accompagnerà in questo tratto di strada il vangelo di san Luca.
Il brano di oggi si colloca quasi alla fine di tutta la narrazione lucana ed è parte integrante del discorso pronunciato da Gesù all’interno del tempio di Gerusalemme, prima dell’inizio della sua passione e morte in croce. In questo discorso Gesù profetizza la distruzione della città santa, ma dice anche “non sarà la fine”.
Qual è il messaggio della prima parte del vangelo?
Di fronte ad un mondo sconvolto e disorientato, in preda alla paura, in balìa della violenza, non dobbiamo cadere nell’errore di pensare che il male, il negativo, la paura, sia l’ultima parola della storia umana. Cedere a questa prospettiva significa aver perso ogni speranza e non credere che nonostante tutto (nonostante i numerosi segni di morte di peccato in noi e attorno a noi) la storia umana è incamminata verso un orizzonte di bene, verso un compimento positivo.
Dentro in tutta questa confusione, in tutto questo marasma, in tutto questo disorientamento il Signore ci invita: risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina!
Se l’uomo non è capace di salvare se stesso c’è Qualcuno che ha il potere di sistemare le cose e di farle funzionare per il verso giusto. La prova di ciò è la stessa storia umana: fateci caso: quando tutto sembrava precipitare, Dio ha sempre illuminato la coscienza umana, aprendo sentieri, strade e possibilità nuove, impreviste e inattese.
Dio non smette di realizzare le promesse di bene fatte ad ogni generazione di credenti: non vi lascio soli, ma sono con voi (ecco il senso del Natale, Dio-con-noi!). Perché lo fa? Per:
- Condividere la nostra vita;
- Provocarci e correggerci sui nostri errori;
- Sostenerci nelle nostre cadute;
- Incoraggiare le nostre spinte di bene.
Nella seconda parte del vangelo Gesù ci invita a stare attenti alla pesantezza, alla fiacchezza, all’ingolfamento del cuore. E come fa il cuore ad appesantirsi, a ingolfarsi?
- Attraverso le dissipazioni. Dissipare ovvero, sprecare, sperperare, buttar via, usare male. Qua’è la dissipazione più grande dell’uomo di oggi? Il tempo…!
- Attraverso le ubriachezze, gli stordimenti, le dipendenze da cellulare, da televisione, da social, droghe di qualunque tipo, attraverso le quali crediamo di risolvere i nostri problemi; in realtà ne siamo schiavi.
- Attraverso gli affanni della vita, che possono diventare anche delle vere e proprie ossessioni: il far soldi, l’avere, l’apparire, l’essere riconosciuti e accettati dagli altri, magari attraverso la nostra posizione sociale; il mito dell’eterna giovinezza…l’affanno della difesa, delle trincee, dei muri… perché l’altro (soprattutto se diverso da me) è mio nemico e allora occorre che preda le debite distanze… idoli, a cui ci prostriamo e a cui diamo da mangiare, per accorgerci poi che sono loro a mangiarci e a succhiarci la vita.
Gesù ci invita a stare attenti. Come stare attenti? Vegliando, come le sentinelle. E come vegliare?
- Con la preghiera (costante e perseverante, cioè continua)
- Con l’ascolto della Parola e i sacramenti
- Con l’amore-la carità: il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore, ci esorta san Paolo.
Il Signore ci prenda per mano e ci aiuti a compiere questo cammino incontro al suo Natale.
SOLENNITA’ DI CRISTO RE DELL’UNIVERSO – 2018
Questa solennità della Chiesa ci aiuta a concludere l’anno liturgico, anno in cui abbiamo fatto un cammino, una strada, un percorso con Gesù di Nazareth, Figlio di Dio, accompagnati dall’evangelista Marco.
La prima e più importante sottolineatura che questa solennità ci fa fare nei confronti della persona di Gesù è la sua regalità. Lo abbiamo ascoltato nel vangelo, che ci ha narrato l’incontro tra Gesù e Pilato poche ore prima della passione e della morte in croce.
Non solo Gesù proviene dalla stirpe regale di Davide ma è Gesù stesso che si proclama, si definisce Re. Ma subito aggiunge: non come gli altri re di questo mondo (Gv 18,36).
La regalità di Gesù è una regalità diversa da quella dei re dalla terra: infatti da una parte abbiamo Pilato, rappresentante di un impero, quello romano, che sembrava solido e incrollabile. Dall’altra abbiamo Gesù giudicato dal procuratore romano; in realtà ne è il giudice. L’evolversi degli eventi fa vedere un Pilato confuso e intimorito, vittima delle proprie paure e delle proprie false sicurezze, incapace di assumersi le sue responsabilità di fronte alla verità degli eventi.
La regalità di Gesù ha caratteristiche proprie e originali, che sono agli antipodi del nostra concezione-idea di regalità.
Innanzitutto Gesù il titolo di Re non se lo conquista ma gli viene dato dal Padre. Gesù è re perché si fa obbediente al Padre. Gesù non afferma se stesso, le sue idee, le sue opinioni, ma in ogni gesto, in ogni azione, in ogni incontro, in ogni decisione, sceglie di non fare la sua volontà ma la volontà di Colui che lo ha mandato (Gv 6,38).
Collegato al titolo di re, dobbiamo fare una digressione sull’onnipotenza divina: Dio è onnipotente non perché può tutto e il contrario di tutto, ma perché è onnipotente nell’amore. La sua forza sta nell’amare (lo vedremo come ultimo punto).
Gesù è re perché si fa umile. “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,9), dice san Paolo. Gesù è re perché si fa debole, vulnerabile, si fa ferire dal peccato dell’uomo e ne porta tutto il peso (salvatore, liberatore). “Nella mia debolezza si manifesta la tua forza” (parafrasato 2Cor 12,9).
Noi passiamo la vita ad autoaffermarci, a difendere i nostri interessi; Gesù ha passato la vita a spogliarsi, a ‘svuotarsi’, a lasciarsi umiliare, perché la vera grandezza sta nel farsi piccoli agli occhi di Dio, il quale “rovescia i potenti dai troni; innalza gli umili” (Lc 1,52).
Infine Gesù è re perché ama servendo e serve amando. Il vero re ama; il vero re serve; il vero re si lascia anche ferire dal suo popolo e per il bene del suo popolo. L’avevano già capito gli ebrei dell’antico testamento ma nessuno è mai riuscito a realizzare la profezia (pensiamo ai grandi re di Israele: Saul, Davide, Salomone).
Il vero re ama con la vera misura dell’amore, che è amare senza misura.
Il vero re impara, dalla sua esperienza personale (anche a partire dai propri fallimenti) che il perdono è la più grande forma di amore.
Il vero re ama mettendosi a servizio degli altri, magari anche riducendo il proprio spazio d’azione, affinché l’altro possa dirsi, possa narrarsi, possa esprimere i propri talenti. Il vero re tende la mano, aiuta a rialzarsi, ama, perdona e serve con cuore lieto e sereno, senza acidità, invidie, pretese o rancori.
Non è facile vivere in questo stile ma dobbiamo provarci, almeno per due motivi: il primo per essere realmente discepoli di Cristo, che non è venuto per farsi servire ma per servire e donare la vita per tutti (Mc 10,45); il secondo perché questa è la strada per sperimentare la vera felicità, la gioia di una vita spesa per amore.
XXXIII domenica del T. O. – anno B – 2018
Il brano di vangelo di Marco che abbiamo appena ascoltato è inserito all’interno del lungo discorso escatologico di Gesù sulla fine dei tempi, sui segni che l’accompagnano e sulla chiusura dell’esperienza storica da parte di Cristo stesso.
Vediamo un po’ il contesto in cui queste parole di Gesù sono state pronunciate: mentre Gesù si sta allontanando dal tempio, un discepolo gli fa osservare la grandiosità delle costruzioni. La risposta di Gesù è netta e decisa: egli annuncia che tutto verrà raso al suolo (“non resterà pietra su pietra” 13,1-2). Gesù poi si siede sul monte degli Ulivi (il luogo menzionato dai profeti in relazione alla fine dei tempi (Zc 14,4; Gl 4,2), di fronte al tempio. Allora i quattro discepoli gli chiedono quando tutto questo accadrà e quali segni premonitori ci saranno (13,3-4). La domanda riguarda un tempo storico preciso, ma la risposta di Gesù si amplia fino a considerare la fine dei tempi.
L’unica indicazione temporale la troviamo al v.30: tutto avverrà entro lo spazio di una generazione, quella di Cristo e dei suoi discepoli. E’ il tempo della Chiesa, il tempo della testimonianza, che sembra non essere tanto breve (al contrario di quello che pensava la prima generazione di credenti).
Nella seconda parte del vangelo troviamo la parabola del fico e quella sulla vigilanza.
Cosa ci vuol dire questa parola, a prima vista così enigmatica, complessa, provocatoria?
Il primo invito è quello di considerare il tempo (sia cronologico che esistenziale – lo spazio della nostra vita e delle nostre scelte) come un tesoro prezioso. E se il tempo è un tesoro prezioso non dobbiamo sprecarlo né sciuparlo.
Lo constatiamo tutti come il tempo (o meglio la percezione di esso nella nostra cultura occidentale) sta subendo una sorta di processo di “restringimento”. Quante volte si sente dire “non ho tempo per… mi manca il tempo di…” … sempre di corsa, strattonati, afferrati, dilaniati da mille impegni, da una vita sempre più veloce e dunque sempre più nevrotica e ansiosa.
Forse è il caso di ricordarci che non siamo i salvatori del mondo e nemmeno di noi stessi… e che più che la quantità delle cose che facciamo occorre tenere presente la qualità di ciò che riusciamo a fare e a vivere nel tempo che ci è concesso, dato, regalato.
Il secondo invito è quello di non dimenticarci che noi siamo fatti per l’infinito. Tante volte corriamo il rischio di fermarci al ‘qui ed ora’, di appiattirci sul tempo presente… invece il presente va trasfigurato (guardando cosa c’è ‘oltre’) per imparare a scorgere, a vivere, ad apprezzare non ‘la fine’ del tempo ma ‘il fine’ del tempo, il suo scopo, il suo perché.
Ci sono dei piccoli gesti, dei piccoli segni che rivelano che siamo in cammino verso il regno (come Gesù che, ci dicono i vangeli, si avvia con passo deciso e spedito verso Gerusalemme):
- la gentilezza: con i nostri familiari, con i colleghi di lavoro, quando siamo nei luoghi pubblici (ad esempio nei negozi… senza fare i prepotenti e volere ‘tutto e subito’) a scuola, in università, per la strada…
- la solidarietà, fatta di cura, di attenzione, di generosità…
- l’ascolto empatico… inclusa la capacità di ascoltare i silenzi, le angosce, le tristezze, le preoccupazioni, le ansie, la rabbia degli altri.
- la semplicità (la vita è già complicata di suo… non complichiamocela e non facciamola diventare complicata agli altri…)
- la giustizia sociale (pagare il dovuto – il giusto salario – all’operaio o al dipendente se sono un imprenditore; il rivendicare i miei diritti ma l’assumermi anche i miei doveri come lavoratore, cittadino, credente…)
- la correttezza del nostro agire, nella società, nella chiesa, nella professione…correttezza che si esprime nel rispettare le norme del vivere comune e civile, ad esempio: il codice della strada… non bere prima di mettersi alla guida, non usare il cellulare… non innervosirsi e cercare di avere un minimo di autocontrollo… il pagare il biglietto di bus, metropolitana, tram… il lasciare il posto sui trasporti pubblici a chi ne ha bisogno… la pazienza di non saltare le file credendosi furbi (al supermercato, all’ospedale, all’ambulatorio, negli uffici comunali, dal benzinaio…) correttezza che si esprime nella professionalità, nella competenza, nella trasparenza, nell’onestà nel proprio lavoro… quanto pressapochismo, incompetenza, arte dell’imbroglio, disonestà in alcuni àmbiti… correttezza in generale nel rapporto con gli altri, come ad esempio il saper ascoltare le ragioni dell’altro e dargli la possibilità di ‘dire la sua’ e non saltargli subito in testa… ‘no’ ad arrivismi, prevaricazioni, intimidazioni, violenze (di vario genere, sia fisiche che psicologiche)
- l’umiltà, che si esprime in tre semplici affermazioni: non sono al centro del mondo; non devo per forza avere sempre ragione; il mondo va avanti anche senza di me.
“Non servo inutile ma neanche indispensabile”: soldato semplice che cerca di fare il suo, possibilmente bene, mettendoci impegno, passione, costanza, in vista non di un bene egoistico ma comune, che abbracci le necessità di tutti, perché riconosciuti come fratelli e sorelle da amare e servire.
XXXII domenica del T. O. – anno B – 2018
Il vangelo di questa domenica è ambientato nel tempio di Gerusalemme, il luogo di culto più caro agli ebrei; luogo che anche Gesù visitava spesso, da buon israelita. Qui Gesù insegna alla folla (probabilmente non nel tempio vero e proprio ma nei cortili esterni, dove si radunava la folla).
Il brano si può dividere in due parti. Nella prima parte troviamo il rimprovero di Gesù agli scribi. Riguardo a questi ultimi Gesù sottolinea le loro contraddizioni:
- Le lunghe vesti: per noi è la ricerca del capo firmato, la spesa esagerata per l’abbigliamento, il far “buona mostra” di sé. E’ l’esibizionismo, è l’ostentazione della propria posizione sociale: “ho una posizione rispettabile, dunque sono.
- Ricevere i saluti nelle piazze: le adulazioni, le smancerie, il “politically correct” di facciata, senonchè dietro ne diciamo di ogni…
- Avere i primi seggi e i primi posti: l’essere riconosciuti, l’essere visti, altrimenti non siamo… “tu si que vales”… il far coincidere il nostro essere con il ‘ruolo’ che ricopriamo…
- Il pregare a lungo per farsi vedere… gli atti di culto per farci dire “ma che bravo che è…, ma che belle ‘cerimonie’ che fa… peccato che le cerimonie non salvano… “se non ho l’amore non sono nulla”, dice san Paolo questo vale soprattutto per noi preti, per i “ministri del sacro”.
- Divorare le case delle vedove: ai tempi di Gesù vedove e bambini erano le categorie sociali più emarginate e indifese; proprio per questo la legge proteggeva queste persone.
Nella seconda parte troviamo un Dio che guarda, che osserva, un Dio sentinella, attento all’agire degli uomini; in particolare a quelle azioni belle e buone, che tuttavia non fanno notizia, non vanno a finire sui giornali, ma proprio per questo ancora più vere.
Cosa osserva Gesù? vede i ricchi che gettano molte monete nel tesoro del tempio. Poi vede una vedova che getta due spiccioli. Ma quell’offerta apparentemente insignificante, dice Gesù, vale più di tutte le altre. Perché?
E’ una questione di pauperismo? Un insegnamento morale? Un atteggiamento di buona condotta, di generosità? Una lode ai poveri? Niente di tutto questo.
L’offerta di quella donna è gradita a Dio perché quella vedova ha donato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere. In altre parole: ha donato se stessa. E’ riuscita a incarnare nella proprio vissuto: “Signore, so che tu sei la mia vita, affido tutto a te”.
Nell’esperienza della fede occorre che “ce la giochiamo fino in fondo”, ossia che non teniamo niente per noi ma offriamo tutto noi stessi a Dio… se nelle relazioni tieni sempre qualcosa per te, mettendoti al riparo, tenendo un salvagente di emergenza, un uscita di sicurezza non ti stai donando veramente… questo vale per l’esperienza matrimoniale, familiare, lavorativa, per tutti gli àmbiti di vita.
Gesù rimane sorpreso, meravigliato, ammirato, estasiato da questo gesto così umile e nascosto agli occhi del mondo ma non agli occhi di Dio, che scruta le intenzioni dei cuori (cfr. 1Cor 4,5).
Ma non è l’unica reazione di Gesù. Egli diventa anche riflessivo perché l’anziana donna gli sta rivelando il suo futuro: anche Gesù sarà chiamato a donare tutto se stesso, immolato sull’altare della croce.
C’è una bella preghiera di Charles De Foucauld che può essere messa in bocca alla vedova del vangelo:
Padre mio, io mi abbandono a Te, fa’ di me ciò che ti piace.
Qualunque cosa tu faccia di me, ti ringrazio.
Sono pronto a tutto, accetto tutto,
purché la tua volontà si compia in me
e in tutte le tue creature.
Non desidero niente altro, Dio mio;
rimetto l’anima mia nelle tue mani;
te la dono, Dio mio,
con tutto l’amore del mio cuore, perché ti amo.
Ed è per me un’esigenza d’amore il darmi,
il rimettermi nelle tue mani, senza misura,
con una confidenza infinita,
poiché Tu sei il Padre mio.
Questa è la fede. Vista così è un’esperienza faticosissima da vivere. Ma Gesù direbbe: “impossibile per gli uomini ma non a Dio” (Mc 10,27). Perché chi decide, chi sceglie di aprirsi al suo amore, arriverà anche a sperimentare questo (con i tempi e i modi che solo Dio conosce).
XXXI domenica del T. O. – anno B – 2018
Il brano del vangelo di questa domenica dell’evangelista Marco si colloca all’interno della disputa tra Gesù e i capi religiosi. Gesù discute sulla necessità o meno di dare il tributo a Cesare (12,13-17); discute con i sadducei sulla risurrezione (12,18-27); infine dialoga con uno scriba su quale sia il primo di tutti i comandamenti (12,28-34).
Questo dialogo fra Gesù e l’esperto della Legge mosaica non ha più il sapore amaro della contrapposizione. Il versetto 28, che fa da introduzione, sottolinea la buona fede dello scriba: «allora si avvicinò a lui uno degli scribi che lo aveva udito discutere e, visto come aveva ben risposto a loro, gli domandò…».
La domanda che viene posta a Gesù non è né polemica né banale: ai tempi di Gesù la Legge di Mosè era infarcita e ingolfata da moltissime prescrizioni, norme, precetti, di fronte alle quali un ebreo osservante spesso si trovata disorientato.
Gesù risponde mettendo insieme due passi dell’antico testamento: il primo tratto da Deuteronomio 6,4 (che abbiamo letto nella prima lettura). Ama Dio con tutto te stesso. E come si fa? Ascoltando la sua parola, conoscendo la sua volontà, obbedendo alle sue parole di vita (non esiste la parola comandamento nella Bibbia!)
Il secondo passo Gesù lo prende dal Levitico (19,18): Ama il tuo prossimo come te stesso. E qui chissà se lo scriba avrà capito fino in fondo la parola di Gesù… perché nella cultura ebraica il ‘prossimo’ era il connazionale e il correligionario… Gesù amplia gli orizzonti e insegnerà ad amare ogni essere umano, qualsiasi sia la sua razza, il suo colore della pelle, la sua cultura, la sua religione, la sua lingua, il suo orientamento sessuale: “questo è il mio corpo; questo è il mio sangue versato per voi e per tutti” (e non per ‘molti’!)
Lo scriba resta ammirato dalle parole di Gesù e capisce che il nocciolo dell’esperienza religiosa è l’amore, che sorpassa, travalica, va oltre, dando il giusto valore ad ogni atto esterno dell’uomo (gli olocausti e i sacrifici).
Dio, in tanti passi della Bibbia ha detto esplicitamente che non glene frega niente degli atti di culto se dietro a tali atti non c’è uno cuore di carne, un cuore contrito e umiliato, un cuore che ama. Per questo sant’Agostino arriverà a dire: “ama e fa ciò che vuoi!”
“Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse “non sei lontano dal Regno di Dio” (v.34).
Non sei lontano dal Regno è già qualcosa, è già molto. Eppure questa frase di Gesù sottolinea una mancanza. Cosa manca a quest’uomo per essere partecipe del Regno?
La relazione interpersonale con Dio, che si realizza esclusivamente in Gesù: come ci ha detto la seconda lettura Gesù è il sommo e grande sacerdote che ‘media’ il nostro incontro con Dio.
Cari fratelli e sorelle, chiediamo al Signore di saper tener sempre unite queste colonne su cui poggia l’architrave della fede cristiana: l’amore a Dio e l’amore al prossimo.
Gesù, annunciando questa parola non ha fatto altro che rivelare ancora una volta la sua identità: Lui vero Dio e vero uomo, Lui che ha amato così tanto Dio da dare la vita per le sue creature.
Mai solo amore a Dio, perché se è solamente questo è un amore vuoto, sterile e in ultima analisi falso. San Giacomo arriva a dire: «mostrami la tua fede senza le opere (se sei capace!) ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede» (Gc 2,18).
Mai solo amore all’uomo, perché, soprattutto nel contesto in cui viviamo, questo non sta in piedi. La sola filantropia oggi non basta. Sono maggiori i motivi per cui invece di voler bene ai nostri fratelli e sorelle, ci vien voglia di dare loro una pedata nel sedere. Amare l’uomo come tale, solamente in maniera orizzontale, spesso assume la forma di una sfida titatica, perché l’uomo è capace di tanto male, di feroce violenza, di fredda indifferenza.
Per questo abbiamo bisogno di una ‘visione trascendente’: di guardare l’uomo come lo guarda Dio: “non sei la somma dei tuoi peccati, ma sei l’insieme dell’amore che Dio ha per te, Lui che ti ha voluto, pensato, creato, santificato e redento”.
Se teniamo insieme queste due verità esistenziali allora saremo credibili; in caso contrario tradiremmo clamorosamente il grande evento dell’Incarnazione (dando una sonora contro testimonianza); inoltre verremmo considerati delle persone bigotte fuori dal mondo oppure degli ingenui idealisti. In un caso o nell’altro da tenere a debita distanza.
COMMEMORAZIONE DEI FEDELI DEFUNTI – 2018
Ricordare i nostri cari che ci hanno lasciato è un gesto, uno stile, un atteggiamento non solo cristiano, ma prima di tutto umano. Fin dall’antichità più remota, infatti, tutti i popoli della terra hanno sempre venerato e ricordato i propri cari defunti.
Tuttavia noi cristiani abbiamo uno specifico che ci contraddistingue: noi non celebriamo il culto dei morti. Infatti i luoghi dove sono sepolti i nostri cari non si chiamano necropoli – necro-polis (le città dei morti), ma si chiamano cimiteri (i luoghi del sonno, in attesa della risurrezione, che Gesù ci ha conquistato).
La fede della risurrezione di Cristo ci porta a pensare i nostri fratelli e sorelle defunti in Dio, partecipi e protagonisti di quel mondo che non ha fine e che Dio, in Gesù è venuto a portare (quella che chiamiamo “vita eterna”).
Una vita che siamo chiamati a costruire già su questa terra e che avrà il suo compimento nel regno dei cieli.
Il ricordo dei nostri defunti ci deve portare a fare una cosa importantissima: a non sprecare la vita.
Proprio perché su questa terra ci restiamo poco, occorre fare di tutto perché gli anni che ci sono concessi vengano vissuti al meglio. La nostra vita è il più grande investimento su cui concentrare tutte le nostre energie. Evidentemente non in maniera egoistica, ma donandoci per amore. Perché la felicità accade, si realizza, solo se condivisa.
Nessuno infatti può essere felice da solo. Infatti quello che noi chiamiamo “inferno” non è il regno del peccato (che viene eliminato, dimenticato, distrutto da Dio) ma il regno della solitudine.
Cari fratelli e sorelle, restiamo in comunione con i nostri cari, insegniamo alle nuove generazioni a pregare per i propri morti e a visitare i cimiteri, sentiamoli vicini come nostri protettori perché non morti, ma viventi in Dio e non chiudiamo mai la giornata senza il loro vivo e affettuoso ricordo.
SOLENNITA’ DI TUTTI I SANTI – 2018
Celebriamo la solennità di tutti i santi, gli ‘amici di Dio’, i testimoni della fede; coloro che hanno preso sul serio il vangelo e attraverso la loro vita hanno manifestato le grandi opere di Dio e soprattutto la sua misericordia e il suo amore verso di noi.
Sfatiamo subito un mito: i santi non sono superuomini, non sono eroi, non sono miti non ben identificabili. Sono persone. Con i loro talenti e i loro limiti, le loro ricchezze e le loro fragilità, i loro punti di forza e i loro talloni d’Achille. E’ più il santo si è mostrato vulnerabile agli occhi del mondo, più si è rivelata la forza, la grandezza dell’opera di Dio.
Nella Chiesa ci sono i ‘grandi’ santi: pensiamo agli apostoli, ai padri della Chiesa, ai grandi uomini e alle grandi donne che con la loro vita e le loro scelte hanno cambiato le sorti di un’intera nazione, di un continente o del mondo intero (pensiamo a san Francesco, d’Assisi, Santa Caterina da Siena, San Benedetto…)
Ma ci sono anche i ‘piccoli’ santi: papa Francesco li chiama i santi della porta accanto, i santi del quotidiano (perché è nella vita di tutti i giorni che si vive la santità).
Diventa santo non colui che fa cose stratosferiche, eccezionali, magniloquenti, ma colui che cerca di far bene le cose di tutti i giorni. Anche di Gesù dicevano: “ha fatto bene ogni cosa…”.
I santi umili, silenziosi, discreti, schivi, ma capaci di portare il bene di Dio e di fare tanto bene agli altri.
Pensiamo a tante mamme e a tanti papà che hanno donato la propria vita per il bene della famiglia e dei figli;
a quanti hanno faticato e sofferto in un lavoro compiuto in modo onesto e rispettoso;
ai molti giovani che non hanno perso la speranza;
a tanti anziani che hanno vissuto la malattia come offerta per il bene altrui;
ai tanti uomini e donne che si spendono per il bene pubblico;
ai tanti volontari che offrono parte del loro tempo e delle loro energie per far crescere la comunità;
alla tanta gente che ha imparato a perdonare (magari anche rimettendoci di persona) perché ha capito che il perdono è la forma più grande dell’amore.
Cari fratelli e sorelle, guardiamo con affetto e ammirazione ai santi per ricevere da Dio e dalla loro intercessione la forza per diventare santi noi.
Lasciamoci meravigliare e sorprendere dalla loro eredità morale e spirituale, per impreziosire la nostra vita con la bellezza delle loro scelte, la semplicità della loro condotta, l’entusiasmo e il coraggio della loro testimonianza, la ricchezza della loro fede.
XXX domenica del T.O. – anno B – 2018
Siamo nel capitolo decimo del vangelo di Marco; Gesù sta partendo per Gerico, insieme ai suoi discepoli e a molta folla. Da questa folla emerge uomo, Bartimeo, cieco, che siede lungo la strada a mendicare. Probabilmente avrà chiesto soldi o da mangiare, tuttavia in quel momento sta chiedendo vita.
Bartimeo non vede e grida la sua cecità. Gesù si scaglierà invece con coloro che credono di vedere e non vedono: i presuntuosi farisei[1].
Quest’uomo ha gli occhi malati, un po’ come noi. Imprigionati e schiavi della cultura dell’immagine e del pregiudizio, ci dimentichiamo che “l’essenziale è invisibile alla vista; che l’essenziale sta nel cuore”.
Uno dei fattori di questa “smania dell’apparire” penso sia il non essere più capaci di dirci, di raccontarci, di incontrarci nella verità (se non nella superficialità e nella banalità).
L’incontro lo vediamo più come un peso e una fatica, più come un’opportunità per arricchire noi e gli altri. Allo ci “auto affermiamo”, dicendo a noi stessi e agli altri “tu si que vales”. La qualità della vita di una persona non si misura sui like o sui followers su Instagram, Faceboook o Twitter ma dalle relazioni che sappiamo instaurare…
La cecità di quest’uomo gli impedisce di lavorare, di darsi da fare, e dunque l’unico modo per procacciarsi la vita è quello di mendicare, di chiedere aiuto, di tendere le mani vuote perché un altro le possa riempire.
Quando Gesù, nelle beatitudini cita i “i poveri nello spirito”, sono proprio i ‘mendicanti’! Mendicanti di amore, di verità, di bellezza, di bontà…
Ma proprio questo allungare le mani per chiedere l’aiuto agli altri gli consentirà di incontrare Gesù, in maniera impertinente ed esuberante, infatti incomincia a gridare.
Cosa grida Bartimeo? Grida la sua fede: “Figlio di Davide, abbi pietà di me!”
“La fede la grida chi ce l’ha…” spesso la nostra fede è sottotono, un po’ “politically correct”; a volte ci convinciamo che sia sufficiente pensare che il Signore ci sia… invece il dialogo con Dio è importante! Tutta la Bibbia ce lo testimonia!
Bartimeo chiama Gesù con il titolo regale “Figlio di Davide”: lo riconosce come Messia e re del suo popolo.
La gente lo rimprovera, ma lui grida ancora più forte la stessa esclamazione. Ci vengono in mente le parole di Gesù: “chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto” (Lc 11,9-10).
Al sentire questo titolo e questa invocazione, detta in quel modo, Gesù si ferma e chiede ai suoi collaboratori di farlo venire verso di lui.
Molto belle sono le parole dei ‘mandanti’ di Gesù: Coraggio, alzati, ti chiama. Tre verbi che sanno di risurrezione:
- Cor-atio: un cuore in azione
- Alzati: risorgi
- Ti chiama
Ci sono alcuni gesti di Bartimeo che dicono la sua fede e il suo desiderio di affidarsi, di abbandonarsi totalmente a Gesù. Il primo di questi gesti è il lasciare il mantello, l’unica cosa che possedeva e gli dava dei diritti, in quanto mendicante. Il secondo è seguire Gesù lungo la strada. Bartimeo diventa discepolo e fa correre quella parola che lo ha salvato. Diventa testimone delle grandi cose che Dio ha fatto a suo favore.
Bartimeo diventa modello di ogni credente:
- Grida la sua fede
- Si fida e si affida a Gesù
- Fa camminare quella Parola di vita che lo ha salvato, riabilitato, rimesso in moto.
E’ il cammino che ciascuno di noi è chiamato a compiere.
[1] Cfr. il vangelo del cieco nato, Gv 9,39-41: Gesù allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane».
domenica del T.O. – anno B – 2018
Il brano evangelico di oggi non lo si comprende appieno se non si facendo riferimento ai versetti che lo precedono (Mc 10,32-34), nei quali Gesù annuncia per la terza volta il suo destino di passione, morte e risurrezione.
Gesù e i dodici stanno camminando verso Gerusalemme; l’atmosfera si fa pesante, i discepoli capiscono e non capiscono le parole del Maestro; sono sgomenti e impauriti; solo Gesù va avanti con passo deciso.
E’ in questo contesto, di smarrimento e di incomprensione, che salta fuori la richiesta (fuori luogo) di Giacomo e Giovanni: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo» (v.35). Una richiesta che tradisce prepotenza, saccenza, spocchiosità, arrivismo.
- Noi vogliamo: indice di un io prepotente, invasivo… quasi a voler obbligare Dio, come facevano i pagani. Tutto il contrario di una preghiera fiduciosa, di abbandono, filiale. I due accampano pretese ingiustificate: “ce lo devi, sei in debito con noi (perché abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito!)”
- Che tu faccia: come se Gesù non avesse fatto ancora niente per loro!
- Per noi, e dunque non per gli altri. Emerge una pretesa di esclusività: noi che siamo i più bravi, che ti stiamo più vicino, che siamo i ‘prediletti’…
Salta fuori una ricerca dei primi posti e una squalifica dell’agire altrui (gli altri non contano-valgono nulla).
Perché si arriva a questo punto?
Gesù in questo brano cammina da solo davanti a tutti. I discepoli sono dietro, non lo seguono; parlano tra di loro. Si creano invidie, gelosia, rivalità e contese quando le parole del maestro non vengono più ascoltate e si ascoltano solo le nostre.
Qual è la reazione di Gesù?
- Non da spazio alla propria comprensibile delusione: nessuna traccia nel brano di risentimento, lamentela, arrabbiatura.
- Poi Gesù chiama attorno a sé i discepoli, li raduna, li “tira insieme”. Gesù vuole ricostruire la comunione vacillante, la fraternità che deve essere ricomposta. Facendo questo sembra dire: questo tema è da risolvere, non lasciamolo correre; non è un problema da poco! Occorre intervenire subito altrimenti gli effetti potrebbero essere pesanti…
- Gesù da credito alla risposta dei discepoli; non soffoca il loro desiderio di “essere primi” ma lo orienta, lo trasforma, ne ribalta la prospettiva: di queste cose dobbiamo parlarne; mettiamole a tema. E gli suggerisce: “fate come me e non fate come gli altri (tra voi non sia così)”: chi vuole diventare grande sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo sarà schiavo di tutti. Anche io infatti non sono venuto nel mondo per farmi servire, ma per servire e dare la mia vita in riscatto per tutti (vv. 43-45).
Da la vita solo chi muore, ama chi sa perdere; è signore solo chi serve, farsi schiavo è libertà.
Il vero potere è il servizio e il vero regnare è amare. Se il buon Dio ci ha fatto – o ci sta facendo capire (o almeno intuire) questa verità, siamo sulla buona strada. Gesù ci direbbe: “non sei lontano dal regno di Dio” (Mc 12,34).
XXVIII domenica del T.O. – anno B – 2018
Vangelo famosissimo del giovane ricco (Marco lo chiama ‘un tale’, perché, alla fine, questo giovane non è riuscito a scoprire la verità più profonda di se stesso, che gli antichi identificavano con il ‘nome’). Non solo fa fatica a rispondere alla domanda “chi sono” ma anche a quella più vera e impegnativa: “per chi sono” (la vera domanda vocazionale!)
La ricerca di quest’uomo è comunque sincera: corre incontro a Gesù e si mette in ginocchio davanti a lui. Lo chiama ‘buono’ e gli pone la domanda delle domande:
Cosa devo fare per avere (ereditare) la vita eterna? (10,17) ovvero: cosa devo fare per essere felice? E’ già una domanda messa male: utilizzando il verbo ‘fare’ il tale mette al centro se stesso e sottende che la felicità provenga unicamente dallo sforzo umano: più ti dai da fare, più ti costruisci la tua felicità.
Jovanotti ha capito molto bene che questa non è la logica: infatti nel suo brano canta: “dottore, che sintomi ha la felicità?”… la felicità ti viene incontro… e tu devi essere pronto ad acchiapparla…
Arriva la risposta di Gesù: segui le parole di vita, (in ebraico non esiste la parola ‘comandamento’); le parole che ti fanno crescere, che ti fanno maturare come uomo, le parole che danno gusto, sapore, orientamento; la parola di Dio per te.
Il giovane sta già facendo questo cammino. Il “fare” c’è ed è pure buono! Ma questo non basta, non è sufficiente. C’è ancora un atteggiamento che bisogna interiorizzare: vendere tutto, dare il patrimonio ai poveri e poi seguire il Signore (10,21).
Da notare che Gesù dice al giovane di vendere, non di regalare il suo patrimonio. Perché vendere è più doloroso che regalare. Gli oggetti venduti si spersonalizzano, la loro carica relazionale si perde quando si trasformano in soldi. Infatti, chi riceve del denaro, non sa che cosa si nasconde dietro di esso.
Gesù gli sta dicendo: lìberati dai tuoi pesi, da ciò che ti chiude, che ti opprime.
Gesù lo sta chiamando alla conversione da un cuore appesantito e chiuso a un cuore aperto e accogliente, disponibile alle necessità dell’altro.
Inoltre lìberati dalla presunzione di poter conquistare la vita di Dio a partire unicamente dai tuoi sforzi e dai tuoi meriti. La vita in Dio non la si conquista, la si riceve, la si accoglie.
A queste parole l’uomo si fa scuro in volto e se ne va via rattristato; dice l’evangelista: possedeva infatti molti beni (10,22).
La seconda parte del vangelo ci fa fare un passaggio: dal vendere all’abbandonare – lasciare: un livello più profondo ed esigente. Lascio perché ho trovato di meglio.
Sempre tornando a Jovanotti, canta: “mi fido di te” ma anche “cosa sei disposto a perdere?”.
Questo è scegliere, questo è discernere (scindere, separare): imparare a fare la volontà di Dio, anche e soprattutto quando non coincide con la nostra. Infatti il regno di Dio appartiene a chi ha un animo lieto e libero di accogliere un dono gratuito e immeritato. Appunto non una conquista tua, ma dono. Perché solo perdendo il superfluo, l’illusorio e ciò che è di ostacolo, si trova l’essenziale, che, ricordiamocelo, è sempre invisibile agli occhi… ma non al cuore (Saint-Exupéry, Il piccolo principe).
XXVII domenica del T.O. – anno B – 2018
La parola di Dio di questa domenica affronta il tema del matrimonio: lo abbiamo ascoltato nel vangelo, nella disputa (discussione) che Gesù ha con i farisei e poi nella prima lettura (tratta dal libro della Genesi), ripresa proprio da Gesù per fondare l’indissolubilità del sacramento matrimoniale.
Cos’è il matrimonio? E’ un patto tra uomo e donna che liberamente decidono di essere “una sola carne” (Mc 10,7) per tutta la vita, costruendo fra di loro un’intima comunione di vita e di amore che ha come scopo il bene e la felicità dei coniugi e la nascita e l’educazione dei figli, il formarsi della famiglia.
L’amore fra uomo e donna, nella prospettiva cristiana non è solo un sentimento (sarebbe un amore acerbo, immaturo), ma una chiamata, una vocazione che si fa progetto di vita: la costruzione, la realizzazione di una vita ‘a due’: un’unità (infatti nel vangelo Gesù dice: “ciò che Dio ha congiunto” Mc 10,8): due alterità, due diversità che si incrociano, si incontrano, si scontrano e … si completano.
Questo patto, questo contratto (per usare il termine giuridico), antico come il mondo, è stato elevato dal Signore Gesù a dignità di sacramento.
Il matrimonio è sacramento perché rivela, ri-presenta, manifesta, realizza nella natura umana, il rapporto d’amore e sponsale, matrimoniale di Cristo con la Chiesa, prefigurato nell’A.T. dal rapporto di amore e di fedeltà di Dio con il suo popolo, Israele.
E’ da questo legame inscindibile e indissolubile fra Cristo e la Chiesa che il matrimonio cristiano riceve le caratteristiche fondamentali ed essenziali che lo definiscono e ne fanno una realtà unica, irripetibile e non modificabile da tempi, culture, mentalità, desideri della coscienza pubblica.
Il matrimonio cristiano è indissolubile cioè eterno.
Restiamo un attimo sull’indissolubilità, sul ‘per sempre’: si può ancora, oggi, pensare il matrimonio nell’ottica del ‘per sempre’? Sì! Ma ad una condizione: che lo si fondi né sul singolo, né sul coniuge, né sul rapporto umano ma sul mistero che esso manifesta:“con la grazia di Dio lo voglio!”
Limiti e fragilità non minano l’indissolubilità. Se vissuti nell’amore anche questi diventano vie di santificazione. Cosa invece mina l’indissolubilità? Solo una cosa: il cuore indurito (sklerocardia), insensibile, rigido, incapace di perdonare e di amare, chiuso nelle proprie pretese, recriminazioni, diritti. A volte anche un cuore ferito che si chiude a riccio per paura di soffrire ancora… ma è dal cuore ferito (di Cristo) che nasce l’amore: la sfida dell’amore passa per un cuore che accetta di ‘perdere sangue’!
- Unitivo: rende una cosa sola: “siano una cosa sola”
- Procreativo: fecondo, generativo
- Fedele: la fedeltà è una delle caratteristiche di Dio e un segno di maturità dell’amore umano.
Ce la si fa? Non è un ideale troppo ‘alto’? Ce la si fa con la grazia di Dio, con la virtù dell’umiltà, della pazienza, della capacità di ascolto, di comprensione e di perdono. E siccome questo amore umano è segno-sacramento dell’amore di Dio non può venire meno; non può essere ritrattato, rinnegato, adulterato (rovinato). Potranno esserci sbagli, errori, limiti, incomprensioni, anche tradimenti… ma l’orizzonte deve essere questo.
Se ci si scopre bambini, ossia figli che hanno una fiducia immensa nel Papà, si trova anche la forza per vivere il patto nuziale. Gesù infatti dice: “a chi è come loro appartiene il Regno di Dio”(Mc 10,8). E se il matrimonio è una via importante per arrivare al Regno, il Signore ci garantisce la strada.
Ultima cosa: rispetto e comprensione (e nessuna crociata!) per le alte forme di amore. Il matrimonio, per noi cristiani, è la via più bella, più matura, più completa per vivere l’amore. Per questo la Chiesa non si stanca di annunciare il vangelo del matrimonio. Tuttavia, ripeto, accoglienza e sguardo buono verso le altre forme di amore, soprattutto quelle che hanno in sè i semi (da far crescere) della fedeltà, del dono di sé, della responsabilità del legame.
XXVI domenica del T.O. – anno B – 2018
La Parola di Dio di questa domenica ci fa riflettere su due aspetti, su due tematiche che incrociano la nostra vita di fede:
- Il profetismo, accennato nella prima lettura (Nm 11,25-29)
- Il tema dello scandalo, narratoci dal vangelo (Mt 9,38-48)
Mosè nella prima lettura esclama: “Fossero tutti profeti nel popolo di Dio e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!”
L’uomo di Dio risponde così al suo servitore Giosuè perché quest’ultimo mostra un accenno di gelosia nei confronti di due uomini, Eldad e Medad, convocati ma non presenti al momento della comunicazione dello Spirito. Essi lo ricevono lo stesso, anche se non si trovano nel luogo indicato.
Qui viene sottolineato, come in altre parti della Bibbia, l’agire libero e misterioso di Dio, che offre i suoi doni spirituali a tutti, senza distinzioni né esclusioni. Ecco allora il primo insegnamento: occhio al rischio che corre Giosuè, ossia l’essere gelosi dei doni di Dio! L’invidia per cui Dio è buono con tutti. Ricordiamoci le parole di Gesù nella parabola dei servi della prima e dell’ultima ora: “non sarai mica geloso perché io sono buono e posso fare dei miei beni quello che voglio?” (Mt 20,15).
Oppure sempre le parole di Gesù a Nicodemo nel vangelo di Giovanni, al capitolo terzo: lo Spirito Santo soffia dove vuole, ne senti la voce, non sai da dove viene né da dove va (Gv 3,7).
Lo Spirito soffia dove vuole: anche al di fuori della Chiesa! Lo ha detto anche il Concilio Vaticano II parlando dei ‘semi del verbo’ presenti anche nelle altre tradizioni, culture e religioni…
Non facciamo l’errore di ‘incasellare’ l’agire di Dio, secondo le nostre categorie umane, i nostri schemi, le nostre precomprensioni e i nostri pregiudizi. La verità di Dio è sempre più grande della nostra recezione – percezione!
Gioele 3,1-2: “Effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni”.
Cosa significa essere profeti? Come essere profeti nel nostro mondo?
Il profeta è colui che vede ‘oltre’; colui che vede in anticipo ciò che gli altri vedranno solo in un secondo momento.
Ma il profeta, oggi è anche colui:
- Che riesce a scovare, in mezzo al gran casino, alle contraddizioni e alle incoerenze di questo mondo, i semi di bene che Dio ancora oggi non si stanca di piantare e che tanta gente non si stanca di far crescere. “Profeti di speranza”!
- Colui che sa pro-vocare con mitezza e semplicità, senza urlare, senza strafare, senza mettere al centro se stesso ma i valori che vuole comunicare. Colui che sa dire il vero senza imporlo. “Proporre ma non imporre”.
- Colui che sa incoraggiare, stimolare, tirar fuori le energie di bene presenti in ciascuno.
- Colui che indica una strada di luce, ma poi non ti dice: “armiamoci e partite”… cammina con te, si fa compagno di viaggio. Come hanno fatto tutti i grandi personaggi biblici, fino ad arrivare a Gesù.
Il secondo tema lo prendiamo dal vangelo: lo scandalo.
Dal greco skàndalon: è un comportamento esecrabile, colui che lo commette diventa ostacolo, pietra di inciampo per i fratelli e le sorelle di fede (e non solo). Gesù è molto duro contro coloro che creano scandalo, anche se offre sempre una possibilità di conversione, di pentimento, di rinascita.
Viviamo in un’epoca (anche a causa dei mezzi di comunicazione che ci informano in tempo reale) in cui il male e gli scandali sono all’ordine del giorno… infatti sembra che ce ne siano uno al giorno, sia nella società civile che nella Chiesa.
E nella comunità cristiana fanno ancora più male, soprattutto se perpetrati da chi ci si aspetterebbe maggiore esemplarità e moralità.
Tuttavia vorrei invitarvi a non fare confusione tra chi commette scandalo (con chi compie un atto moralmente deplorevole) chi è malato. La pedofilia, ad esempio, è una malattia. Il reato di pedofilia va perseguito; il pedofilo va condannato ma anche curato, perché, come tale è una persona malata. E anche la persona che commettesse il più efferato dei delitti, resta sempre persona, resta sempre un fratello e una sorella, e se non riuscirò più ad amarlo per quello che ha fatto, cercherò almeno di aiutarlo in nome di quella dignità umana che non viene perduta neanche con il più grave dei peccati. Non è facile, ma ci si deve provare…
Perché questa è l’unica strada per non farsi divorare dall’odio e dal desiderio di vendetta, che è come un boomerang: ritorna sempre a chi lo ha scagliato: non te ne liberi più!
Non facciamo l’errore di riscoprirci ‘bestie’, dei giustizialisti, dei forcaioli… primo perché non siamo migliori degli altri e secondo perché a ciascuno, sempre, deve essere data una opportunità di riscatto… e quando sentiamo parlare di castrazione chimica, di ritorno ai “forni crematori”, di dare in mano a tutti armi come caramelle per difendersi… fermiamoci un attimo e ritorniamo a far funzionare il cervello e non qualcos’altro…
Papa Francesco, pochi giorni fa a Tallin (Estonia), nella visita delle repubbliche baltiche, parlando con i giovani, ha detto queste parole:
È brutto quando una Chiesa, una comunità, si comporta in modo tale che i giovani pensano: “Questi non mi diranno nulla che serva alla mia vita”. Alcuni, anzi, chiedono espressamente di essere lasciati in pace, perché sentono la presenza della Chiesa come fastidiosa e perfino irritante. E questo è vero. Li indignano gli scandali sessuali ed economici di fronte ai quali non vedono una condanna netta (…).
Sessualità vissuta male, soldi e ricerca di potere sono le tentazioni che il diavolo utilizza per indebolire e cercare di sconfiggere la crescita del bene e l’annuncio del vangelo.
Come fare a superare tutto questo? (in riferimento soprattutto ai pastori):
- Preghiera e contatto con il popolo di Dio
- Una seria e solida formazione, a partire dagli anni di seminario, di un’educazione alla relazione, agli affetti, ai sentimenti e alla sessualità.
- Il fare esperienza di comunione, di fraternità e imparare a camminare e a lavorare insieme.
Papa Francesco conclude:
Non stanchiamoci di chiedere al Signore che la comunità cristiana, la Chiesa, possa essere, possa diventare, possa ri-diventare (dove ha perso la strada) una «comunità trasparente, accogliente, onesta, attraente, comunicativa, accessibile, gioiosa e interattiva» (ibid., 67), cioè una comunità senza paura. Le paure ci chiudono. La fratellanza e la comunione aprono, come le braccia di Gesù in croce. Solo guardando a Lui ci può essere rinascita, speranza e gioia piena.
XXV domenica del T.O. – anno B – 2018
Sceso dal monte della trasfigurazione, Gesù attraversa la Galilea. E, come nel vangelo di domenica scorsa, continua a pro-vocare i suoi discepoli, annunciando il suo destino di sofferenza e di morte, tappe imprescindibili e assolutamente necessarie per arrivare alla risurrezione, alla pienezza della vita.
Che bella immagine! Un Dio che attraversa strade, che mangia polvere, che non ha paura di sporcarsi mani e piedi con l’umano… perché “la gloria di Dio è l’uomo che vive!” (Ireneo di Lione).
L’evangelista ci dice che i discepoli “non capirono queste parole e avevano timore di interrogarlo” (Mc 9,32).
Non capivano o non volevano capire? Le parole di Gesù sono parole ‘scomode’. Le parole scomode… quanta fatica ad accoglierle!
Quali sono le parole scomode (che non vanno più di ‘moda’) dell’uomo d’oggi?
- Fragilità, limite, debolezza…
- Fatica, impegno, sacrificio, costanza…
- Onestà
- Sofferenza e morte
Poi la discussione sul ‘chi fosse il più grande’.
Gesù non tarpa le ali ai discepoli, non dice “non dovete neanche pensarci”… quello del “diventare grandi” è un desiderio che abita il cuore dell’uomo e per questo da non sopprimere… ma da orientare bene!!
Se uno vuole essere primo sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti (Mc 9,35).
Come non possono venirci in mente le parole di san Paolo nella lettera ai Filippesi, al capitolo secondo:
5 Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù,
6 il quale, pur essendo di natura divina,
non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio;
7 ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana, 8 umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce.
9 Per questo Dio lo esaltò!
Se la Chiesa e noi cristiani vogliamo essere veramente fedeli al Signore Gesù questa è la strada: essere servi dell’umanità; una Chiesa ‘del grembiule’, come diceva don Tonino Bello. E una Chiesa serva è una Chiesa che ama; una Chiesa che ha a cuore il bene dell’altro, facendo di tutto affinché questo bene venga custodito, difeso, accresciuto.
Come, oggi, incarnare questa vocazione al servizio a favore di tutti? Attraverso:
- La prossimità: “esserci”
- L’ascolto paziente e orante
- La ‘simpatia’, l’affetto verso coloro che la pensano diversamente da me…
- La sospensione del giudizio sulle persone (non sulle azioni) e la capacità di accordare fiducia: “ce la puoi fare!”
- In sintesi: l’apertura del cuore. “Voglio una Chiesa aperta!” (papa Francesco).
Una Chiesa ‘serva’… ma di cosa?:
- Serva della comunione – sinodalità – ‘camminare insieme’
- Serva del mondo, una Chiesa ‘estroversa’, verso le periferie del peccato, del dolore, dell’ingiustizia, dell’ignoranza e dell’assenza di fede, quelle di ogni forma di pensiero (papa Francesco).
«Dobbiamo servire il mondo, ma da risorti. Di servizio se ne compie, nella Chiesa, e tanto anche. A volte fino all’esaurimento. Ci schieriamo con i poveri, facciamo mille sacrifici, aiutiamo la gente… ma non con l’anima dei risorti, bensì con l’anima degli stipendiati. E non sempre col nostro servizio annunciamo Cristo speranza del mondo. Annunciamo più noi stessi e la nostra bravura, che lui! Appariamo non di rado un’organizzazione che incute rispetto, spesso anche paura, soggezione. Ma non siamo i viandanti entusiasti che insieme con gli altri dirigono i propri passi verso Cristo risorto». (don Tonino Bello).
- Serva della pace, la quale può essere definita “la convivialità delle differenze” (don Tonino Bello).
Infine l’immagine del bambino. Qui l’evangelista non vuole sottolineare la tenerezza di Gesù verso i bambini… non c’è un Gesù tenero, romantico, davanti a cui commuoversi. I bambini (soprattutto se orfani) al tempo di Gesù non erano considerati nella società, appartenevano alla categoria degli ‘ultimi’ (come le vedove).
Gesù ci invita ad accogliere gli ultimi, gli esclusi, gli emarginati, chi fa più fatica e chi nessuno vuole fra i piedi. Ci invita a stare ‘dalla loro parte’.
Non è facile, talvolta è una cosa che può dare anche fastidio, talvolta può capitare di dover ‘forzare’ il nostro istinto, le nostre precomprensioni… ma ci si prova, nel nome di Colui che, primo di tutti, si è fatto servo, ultimo di tutti.
XXIV domenica del T.O. – anno B – 2018
La liturgia della parola di Dio ci offre la lettura continua del vangelo di Marco. Siamo nel capitolo ottavo e stiamo arrivando al cuore del vangelo, stiamo raggiungendo una vetta, una cima, e nello stesso tempo scopriremo di dover salire ancora, per vie ancora più impervie e affascinanti.
Il brano è composto da due brevi parti: nella prima troviamo la rivelazione di Gesù come Cristo, per bocca dell’apostolo Pietro (Mc 8,27-30); nella seconda Gesù rivela il suo destino paradossale, suscitando una reazione alquanto sconsiderata del primo degli apostoli (primum inter pares), che rimprovera Gesù e a sua volta viene rimproverato (Mc 8,31-33). Pietro non fa una bella figura e ne esce con le ossa rotte perché intuisce la divinità di Gesù ma non riesce a coglierne il significato profondo e soprattutto la modalità concreta con la quale Gesù porterà a salvezza tutta l’umanità.
Soffermiamoci soprattutto sulla prima domanda di Gesù:
“Voi chi dite che io sia?” (8,29); “chi sono io per te?”: è la domanda della fede, è la domanda con la quale viene a galla se siamo credenti o meno e a che ‘tipo’ di ‘dio’ crediamo…
Chi è Gesù per me?
- Una tradizione, seppur importante?
- Una devozione da trattare con rispetto e debita distanza?
- Un soprammobile da lucidare ogni tanto?
- Un regalo che ho ereditato (dalla mia famiglia, dalla Chiesa, dalla cultura in cui son nato) e che non ho mai scartato?
- Un maghetto alla Harry Potter per risolvermi i problemi che non riesco a risolvere da solo?
- Una bella idea?
- Un’etica, una morale, su cui fondare la mie scelte?
- Un uomo bravo, buono, uno dei tanti (o tra tanti) che ha cercato di lasciare un segno in questo mondo, a cui va la mia stima e la mia ammirazione?
Pietro: Tu sei il Cristo (8,29), il Figlio di Dio, l’unico Dio generato (unigenito) che ha il potere di rendermi bella la vita! (Occhio! non che ha il potere di regalarmi/promettermi la “bella vita” – come si è confuso Pietro). P.S.: Importantissima questa differenza tra la ‘bella vita’ e la ‘vita bella’. Quale vuoi? Quale cerchi? Per la quale ti affanni e ti impegni, stai investendo?
Sappiamo che Pietro aveva in testa un messianismo trionfante, vincente, potente, sia sul piano religioso che sul piano civile, sociale e politico.
E proprio qui sta lo sbaglio: Gesù è sì il Messia ma lo sarà nella forma del servo obbediente e sofferente.
Obbediente perché vivere è accogliere una parola che porta con sé una promessa che va realizzata.
Sofferente perché il Figlio dell’uomo, per compiere fino in fondo e in piena libertà la sua missione dovrà soffrire molto, essere rigettato, venire ucciso e il terzo giorno risorgere.
Gesù parla apertamente di ciò che lo attende e invita gli altri a non dimenticarlo, preparandosi a fare altrettanto. Perché questa è l’unica strada per poter amare; sentiero stretto, pericoloso, faticoso, e per questo fecondo, che genera vita.
Dicendo questo Gesù invita i suoi discepoli a fare altrettanto, a imparare ad “andare dietro a lui” (Vai dietro a me Satana; impara a pensare secondo Dio e non secondo gli uomini! Gesù dice a Pietro: togliti dalla testa l’idea di Messia che ti sei fatto e accogli la rivelazione di Dio, come sto facendo io; non fare di testa tua ma “Seguimi”!).
Quante volte anche noi vogliamo fare di “testa nostra” nelle cose che riguardano la fede! E invece, anche qui c’è un’obbedienza da far crescere, come ha fatto Gesù che, in tutto e per tutto, si è reso obbediente al Padre ed ha imparato ad amare dalle cose che ha vissuto e sofferto (“pur essendo figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì” – Ebrei 5,8).
Questa è la strada. Non ce ne sono altre. Impari ad amare quando ti fai umile; quando impari ad accettare i tradimenti e i fallimenti; quando ti alleni a perdonare; quando ti metti nella logica del soffrire per il bene dell’altro. Perché amare è sempre un po’ soffrire e morire a se stessi.
Alla luce di questo comprendiamo anche la conclusione del vangelo: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8,34b-35).
Chi vuole salvare la propria vita; chi vuole tenerla per sé, possederla in modo esclusivo in realtà la perderà, perché vittima del proprio egoismo e della propria autoaffermazione. Chi invece offre la vita per il vangelo, cioè chi è capace di fare della propria vita un dono, la salva perché la vita genera altra vita; perché la vita produrrà frutti di bene, destinati a rimanere in eterno.
Testimone luminoso di questa logica di amore è stato il beato don Pino Puglisi che papa Francesco ha voluto venerare a 25 anni dalla morte, nella sua terra, la Sicilia e nella sua città, Palermo. Che il suo esempio e la sua intercessione ci stimolino a una testimonianza sempre più forte e coraggiosa.
XXIII domenica del T.O. – anno B – 2018
La profezia di Isaia che abbiamo ascoltato nella prima lettura (35,4-7a) trova il suo compimento nel vangelo. Qui ci è stato narrato dall’evangelista Marco (siamo al capitolo settimo) la guarigione del sordomuto da parte di Gesù.
Innanzitutto Gesù va nel territorio della Decapoli, in terra pagana. Abbatte gli steccati territoriali e va a portare la salvezza anche a chi, secondo la mentalità ebraica, non ne avrebbe ‘il diritto’. E questa è già una grande apertura, che, come vedremo, ha a che fare il seguente gesto di guarigione.
In questi luoghi alcune persone non specificate, portano a Gesù un sordomuto. Attraverso due tipi di gesti, Gesù lo guarisce. Quali sono questi gesti:
- Di attenzione alla persona che Gesù ha davanti: lo prende in disparte, gli parla insieme personalmente, cerca un contatto fisico. Tutti gesti che indicano la bella umanità del Figlio di Dio.
- I gesti che richiamano la creazione: gli pone le dita negli orecchi, gli tocca la lingua con la sua saliva, emette una parola di vita. Gesù si rivela come Dio creatore, capace di ricreare l’umanità segnata dal limite, dalla fragilità, dal peccato.
Il sordomuto chi è? E’ un uomo che fa i conti con la propria disabilità fisica che diventa ancora più pesante perché questa disabilità lo chiude, lo isola dal mondo. Quest’uomo è un emarginato; una persona che non riesce a comunicare, a dirsi, a narrarsi, a instaurare relazioni. E’ una persona che amaramente sperimenta i segni della morte, più interiore che fisica.
Soffermiamoci sul verbo (all’imperativo) che Gesù utilizza per guarirlo: “APRITI!”
Questa parola di Gesù va al di là del poter sentire e del poter parlare. Il sordomuto sperimenta una chiusura (a Dio, al mondo, nelle relazioni, magari anche nel suo stesso cuore). Gesù gli dona la possibilità di aprirsi, di rapportarsi a Dio, alle persone, al reale, in maniera diversa, aperta appunto.
Anche noi sperimentiamo nella nostra vita un sacco di chiusure: sordità, mutismi, indifferenze, superficialità…
Anche noi siamo sordi:
- Sordi al grido dei poveri e sordi di fronte alle ingiustizie del mondo… sembriamo addirittura anestetizzati, ci abbiamo fatto l’abitudine… niente più ci scalfisce, ci emoziona, ci fa provare compassione…;
- Sordi alle sofferenze degli altri;
- Sordi alla richiesta che sale dai giovani di essere accompagnati; di avere il diritto ad avere adulti che siano testimoni credibili di una vita buona…;
- Sordi al ‘nuovo’ che ci viene incontro e che spesso ci fa paura: pensiamo ai mondi digitali, alle nuove fontiere del lavoro on line, al mondo dei ‘social’… la frase che più si sente in giro? “dove andremo a finire!”
- Sordi alla diversità, alla multiculturalità, alla multi religiosità… altra frase ‘famosa’: “cosa succederà della nostra civiltà europea?”
Anche noi siamo diventati muti (non proferiamo parole), di fronte:
- Alla corruzione dilagante;
- Alla banalizzazione del corpo, alla violenza sul ‘femminile’;
- A un mondo del lavoro che schiavizza gli operai e gli impiegati, i giovani che si affacciano o alle partite iva…;
- Ad una società totalmente incapace di dire cosa è famiglia, che se ne disinteressa e che ne ha perso il valore…;
- Ad una società che ha perso il valore della verità ed è bombardata dalle “fake news” che distorgono il reale e fanno fuori le persone;
- Ad una politica (e ad un tipo di informazione) che invita a chiuderci nella paura piuttosto che aprirci con serenità e fiducia al pensiero che si possa costruire una città, una nazione, un continente e un mondo migliore, abitabile per tutti.
Gesù ci invita, ti dice: “APRITI!”
Fatti risanare dalle tue chiusure, dalle tue sordità, dai tuoi mutismi; apriti a Dio, dai fiducia ai fratelli e alle sorelle, e scoprirai che c’è sempre una via di risurrezione, di rinascita, di luce. Per tutti.
XXII domenica del T.O. – anno B – 2018
Con questa domenica la liturgia della Parola ci fa riprendere la lettura del vangelo di Marco, interrotta per l’inserzione del discorso di Gesù dopo la moltiplicazione dei pani del capitolo sesto di Giovanni.
Il vangelo è introdotto dalla prima lettura, che ci ha raccontato del dono della Legge da parte di Dio a Mosè (Dt 4). La legge, i comandamenti (parole di vita) sono il segno della vicinanza, della cura e dell’amore di Dio nei confronti del popolo.
Gesù ci invita a riprendere il tema della Legge, ma in una prospettiva nuova, ossia distinguendo bene (fare discernimento) ciò che è parola di Dio e ciò che è tradizione degli uomini.
Il fatto che scatena la discussione con i farisei (i quali accusano i discepoli di non osservare la tradizione degli antichi) è la non osservanza del precetto di purificare le mani prima di prendere il cibo. Qui non c’è solo in gioco l’igiene ma la religione: prendere i pasti è ricordarsi della fedeltà di Dio che nutre il suo popolo e quindi è un atto religioso e come tale richiede che ci si accosti in stato di purità.
Gesù cita Isaia (29,13): “questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini. Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate le tradizioni umane”.
E qui ci sta la provocazione anche per noi: religione – fede – vita stanno insieme. Mai separarle, altrimenti saltano fuori dei veri e propri disastri! L’atto religioso in sé non salva! La fede, vissuta nella vita, salva!
Qui c’è un discernimento sia personale, sia comunitario da fare: i miei atti religiosi e gli atti della comunità devono essere sempre finalizzati al bene delle persone, legati alla loro vita e incarnati nel contesto storico-culturale e antropologico in cui viviamo (la realtà è sempre più importante dell’idea, dice papa Francesco).
Dobbiamo dire due secchi e decisi ‘no’: no al relativismo e no all’estremismo (quello che il papa definisce anche come rigidità… nella Chiesa ce ne sono varie forme… rigidità dottrinale, liturgica, pastorale ecc…).
Coloro che osservano le tradizioni umane sono i “talebani cattolici”: gente fissata sul “si è sempre fatto così” (terrorizzati dal cambiamento); gente che non vuole confrontarsi con gli altri e che pretende di avere in mano la verità, gente chiusa, intollerante, bigotta, che si arrocca su verità evangeliche o magisteriali senza averne compreso il senso profondo, o peggio, citando a sproposito vangelo e magistero per avvallare le proprie idee e posizioni. Uomini e donne, giovani, adulti e anziani dal cuore duro, che si ergono a giudici inflessibili degli altri, incapaci di empatia e di comprensione… quanto può far male gente così… facciamoci un serio esame di coscienza: se siamo un po’ così ci occorre una bella sterzata, una bella virata, una bella botta in testa dal Signore, che ci faccia riscoprire l’umiltà e la consapevolezza dei nostri limiti e delle nostre fragilità.
Coloro che osservano le tradizioni umane sono anche quelli che mettono al centro i loro sforzi (eresia pelagiana di ritorno!); quelli che dicono “me lo merito”… io sono fedele al Signore e dunque merito il suo amore. Ma cosa vuoi meritare? Ma ti sei guardato nel profondo?
Nanni Moretti in un suo film (Caro diario) fa una battuta bellissima: “se tutto dipende da me, sono sicuro che non ce la farò”.
E poi l’amore non si merita, mai… l’amore lo si accoglie; l’amore lo si ringrazia, l’amore lo si dona e lo si condivide… anche (e soprattutto) con chi la pensa diversamente da noi; con chi ha una cultura, uno stile di vita, modi differenti dai nostri di pensare, di giudicare e di agire. Con chi è semplicemente ‘altro-da-me’.
Coloro che osservano le tradizioni umane siamo noi quando trattiamo la diversità come un fastidio, come una seccatura, come un impedimento e non come una possibilità di amare e di lasciarci amare.
Siamo una Chiesa che mette al centro il vangelo (la parola di amore che Dio pronuncia per gli uomini di oggi) oppure siamo una chiesa che mette al centro se stessa, chiusa, che cerca di autopreservarsi (quando i buoi sono già tutti scappati)? Ma la Chiesa non deve essere missionaria, evangelizzatrice, inclusiva, dalle porte aperte? (o mi sbaglio?)
Passiamo alla seconda parte del vangelo (Mc 7,14-15.21-23). Dice Gesù: non è l’esterno (la formalità) il centro dell’uomo: il centro dell’essere umano è la sua dimensione interiore, il suo ‘cuore’. La purificazione esteriore ha valore se è segno di cuore che si lascia cambiare, trasformare e purificare.
Gesù ci insegna che gli ostacoli al nostro incontro con Dio vengono da dentro. Per questo fa quell’elenco di dodici atteggiamenti che impediscono l’incontro con il Signore: impurità, furti, omicidi, adulteri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza.
Allora diventano vere le parole dell’apostolo Giacomo ascoltate nella seconda lettura (1,27): religione pura e senza macchia è quella che si sporca le mani con i fratelli e le sorelle, che si contamina, che li lascia anche ferire perché fiorisca il bene altrui. E’ la sintesi stringata della vita di Gesù!
Tutte le considerazioni fatte fin’ora trovano il loro àpice nel salmo responsoriale 14 (15): “Signore, chi abiterà nella tua tenda? Chi dimorerà sulla tua santa montagna? Chi cammina senza colpa, pratica la giustizia, dice la verità che ha nel cuore. Colui che agisce in questo modo resterà saldo e stabile per sempre”. Amen, così sia.
XXI DOMENICA DEL T.O. – anno B – 2018
Si sta per concludere il capitolo sesto del vangelo di Giovanni, che ci ha presentato Gesù come pane della vita. Si sta avviando alla conclusione anche la discussione tra Gesù e giudei, iniziata nel vangelo di domenica scorsa e continuata oggi. Questi ultimi, molti dei quali discepoli, hanno ascoltato le parole di Gesù e, sconvolti o quantomeno perplessi, dicono tra di loro: «questa parola è dura (ruvida, grezza), chi può ascoltarla?» (Gv 6,60)
C’è uno scandalo che si realizza (lo dice Gesù stesso): cos’è che scandalizza questi discepoli?
Questi qua non è che non hanno capito le parole di Gesù… le hanno capite fin troppo bene…! è per questo se la danno a gambe levate (non andarono più con lui)…
Questi hanno capito che Gesù è esigente, c’è una parole che pro-voca, che chiama a convertire il cuore, le scelte, la vita, e se ne vanno via… più o meno tristi… perché non vogliono arrivare “fino alla fine” (usque ad finem).
Quando Gesù si mette a parlare di dono della vita, di sacrificio di comunione, di “pane spezzato per la vita degli altri” e chiede ai suoi di fare altrettanto… ci si tira indietro.
E così capita anche a noi… finchè la parola del vangelo è una parola rassicurante, dolce, calma, consolatoria, che rimette equilibrio nella nostra vita allora tutto va bene… quando arriva la provocazione che scombina le nostre certezze e sicurezze, andiamo in tilt e chiudiamo le orecchie.
La fede cristiana è una scelta impegnativa e controcorrente (tante volte ce ne dimentichiamo)…
da una parte c’è la realtà “mondana”, dove vive anche la nostra cultura e il nostro respiro sociale:
- fatti i tuoi, non rompere le scatole agli altri; vivi e lascia vivere; non impegnarti troppo, lascia che siano gli altri a fare il bene; vivi nel tuo benessere, se stai bene tu stanno bene tutti; non lasciarti coinvolgere; … la vita “comoda”, direbbe papa Francesco; la vita “divanata”… (ma anche la vita sterile!)
- Dall’altra parte c’è un Dio che dona la vita e chiede di fare altrettanto: come ho fatto io, così fate anche voi. E’ l’apertura all’altro; è mettere al centro della propria vita il bene degli altri piuttosto che il proprio interesse personale. E’ rischiare nelle relazioni e nell’amore. E’ buttarsi nell’avventura dell’uscita da sé per incontrare il fratello o la sorella; per vivere la comunità. Certo, questa prospettiva e questo stile di vita comporta coraggio, impegno, rischio, responsabilità.
Gesù intuisce tutto questo e provoca domandando: “volete andarvene anche voi”? (Gv 6,67).
Risponde Pietro: “da chi vuoi che andiamo? Tu solo hai parole di vita eterna, cioè tu solo hai parole di spessore, parole che fanno vivere, parole che fanno crescere, parole che danno sapore e luce” (Gv 6,67).
Anche a noi Gesù dice: vuoi prendere un’altra strada? Vuoi seguire altri maestri? Vuoi un altro stile di vita?
Prego, sei libero, tuttavia se vuoi seguire me non puoi restare rintanato nel tuo egoismo e ammuffire nella tua oziosa comodità, pensando che gli altri si arrangino e se la cavino da soli.
E questa cosa la si impara frequentando Gesù, stando con lui, imparando da lui (noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Figlio di Dio, Gv 6,69).
Perché solo l’amore è il vero principio della conoscenza: tu conosci bene solo le cose a cui ti dedichi, e ti dedichi solo alle cose che ami. E scopri di essere conosciuto e quindi amato (don Fabio Rosini).
Infine facciamo attenzione che la risposta di fede al Signore è sempre al singolare. Pensiamo anche alla struttura della Messa: dopo che Dio ci ha parlato nella liturgia della Parola siamo tutti invitati a professare personalmente la nostra fede: recitiamo tutti insieme il credo ma lo facciamo utilizzando la prima persona singolare: “Credo!”
Che il Signore ci aiuti a compiere questo “esodo” da noi stessi che si chiama amore. Se ci consegniamo senza riserve, senza maschere, senza difese a Dio sarà Lui che ci farà capaci di dono, arricchendoci di tutti i talenti e di tutte le qualità necessarie per metterci a servizio del prossimo.
Perché le cose più belle e più importanti della vita (come l’amore, la preghiera, le relazioni…), non te le insegna nessuno, e non ci arriverai mai solo con la testa; le impari facendole, coinvolgendoti in prima persona, rispondendo (e rischiando) ad esse con libertà e generosità.
XX DOMENICA DEL T.O. – anno B – 2018
In queste domeniche e nelle prossime, nella liturgia della Parola ci accompagnerà il capitolo sesto del vangelo di Giovanni, che ha come tema Gesù pane della vita (a dir la verità è Gesù stesso che si autodefinisce così).
Tre brevi sottolineature:
- Gesù ci invita a mangiare la sua carne e a bere il suo sangue
Non è solo un rito, pura formalità…
Non è neanche cannibalismo… era la preoccupazione dei giudei, come abbiamo ascoltato nel vangelo: “come può costui darci la sua carne da mangiare?”
Alle divinità pagane bisognava “dare da mangiare”; qui invece c’è un Dio che si da a mangiare…
Mangiare la carne di Cristo e bere il suo sangue è partecipare della sua vita (perché abbiate in voi la vita di Dio); è vivere come ha vissuto Lui; è amare come Lui ha amato; è scegliere come Lui ha scelto; è servire come Lui ha servito…
2. Prendete e mangiate… non prendete e guardate (a distanza)…
Vale sempre l’insegnamento della Chiesa: chi ha un peccato mortale sulla coscienza lo confessi e poi si accosti all’Eucarestia.
Tuttavia Papa Francesco dice con forza: l’Eucarestia non è un premio per i buoni, per i perfetti, ma sostegno, forza, nutrimento per i peccatori: “beati i poveri in spirito…”: beati coloro che si fanno mendicanti di vita, bussano alla porta del Padre e si nutrono del suo Pane… foss’anch’ero le briciole dei cagnolini…
3. Per molti – per tutti…
Nella Bibbia le moltitudini indicano tutte le genti…
Cosa ci insegna questo atteggiamento di Gesù?
- No a discriminazioni
- No ad esclusioni
- No a muri
- No a ghetti
- Non a barriere e steccati
- Si all’inclusione, all’integrazione, alla fraternità e alla comunione.
Quelle braccia aperte sulla croce non sono state messe a caso…
Infine: “Andate e portate a tutti l’amore di Dio”.
Prendere la forza di Dio e parteciparla, condividerla, portarla al mondo, affinché il suo cuore e le sue mani si dilatino fino ad assomigliare sempre più, per quanto possibile, alla misura del cuore e delle mani di Dio, creatore e padre, fonte di ogni bene, sorgente di amore.
SOLENNITA’ DELL’ ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA – 2018
Celebrare la solennità dell’Assunzione della beata vergine Maria significa contemplare, ammirare, guardare stupiti ad una creatura umana che si è fidata e affidata al Signore e in lei e con lei ha fatto grandi cose, ha fatto meraviglie.
Quando una persona compie la scelta di fidarsi e di affidare al Signore la propria vita non può restare deluso, perché Dio, come ci ha detto Maria nel canto del Magnificat, compie le sue promesse e resta fedele al suo amore.
Come ha fatto la Madonna ha raggiungere la mèta, il traguardo, la casa del Regno dei cieli, immagine della piena e definitiva comunione con Dio?
- Maria ha creduto alla parola che Dio le ha rivolto. C’è una parola che Dio dice anche a ciascuno di noi. Occorre dargli credito.
- Maria ha avuto un rapporto personale, sincero, aperto e trasparente con Dio. Non ha esitato a dirgli alcune cose che non capiva; non ha esitato a chiedergli spiegazioni; non ha esitato a mettere tutto nelle sue mani, anche quando le cose, i fatti e le situazioni (in particolare la vita di Gesù stesso) si facevano sempre più ingarbugliate e incomprensibili.
- L’assunzione (la pasqua) di Maria è il compimento della Pasqua di Gesù. Gesù primo dei risorti, chiama la Madre a partecipare della felicità eterna che lui ha inaugurato. Tuttavia, prima di arrivare alla risurrezione, Maria vive e patisce il venerdì e il sabato santo. Maria non subisce la prova, ma la affronta con l’atto di abbandono e di affidamento, tipico dei poveri e dei piccoli del popolo d’Israele. Non si da per vinta, ma continua a credere a suo Figlio Gesù, nonostante gli eventi presagissero il contrario.
Così deve essere anche per noi: denti stretti, spalle larghe e tanta fiducia in Dio per affrontare i temporali, le tempeste e gli tzunami della vita. Solo così si può contemplare l’alba della risurrezione. Ve la dico con una immagine: chi non fa fatica nello scalare la montagna non assaporerà mai la gioia che produce non tanto l’essere in vetta, quanto l’esserci arrivati con le proprie gambe, magari con piedi doloranti, gambe stanche e ginocchia vacillanti.
Dove Maria prende la forza per fare tutto questo?
“Beata te che hai creduto”: le dice la cugina Elisabetta.
Beata te che hai scelto di credere.
Beata te che ti sei fidata e affidata.
Beata te che non hai smesso di credere anche quando ne avevi tutte le ragioni.
Beata te che hai perseverato fino alla fine anche quando tutto ti portava a credere il contrario.
Beata te, donna forte e coraggiosa, che a denti stretti e con il cuore trafitto non hai smesso di credere nel tuo Figlio Gesù.
Sì, perché Maria non è prima di tutto Madre di Dio perché ha generato biologicamente Gesù, ma è Madre di Dio perché è stata la prima a credergli; perché è stata la prima a generarlo nella fede.
Beati noi se sapremo ascoltare, meditare e vivere il vangelo del tuo Figlio Gesù e sapremo generarlo nella fede nella nostra vita di credenti.
XVI DOMENICA DEL T.O. – anno B – 2018
La metafora, l’immagine che viene usata da tutte le letture della parola di Dio di questa domenica è quella del pastore. Un’immagine biblica, antica, piena di significato sia per il popolo ebraico che per i popoli medio orientali.
Nella prima lettura che abbiamo ascoltato troviamo Dio arrabbiato con i pastori che fanno perire e disperdono il gregge. Non se ne preoccupano e addirittura scacciano le pecore, dice l’oracolo.
Qual sono le cause di questo atteggiamento così cattivo, sbagliato, malvagio?
La prima è quella della sostituzione: quando il pastore si sostituisce a Dio e diventa un dittatore, tratta le sue pecore come schiave. Le ritiene come roba sua e ne fa quello che vuole. Primo rischio.
La seconda causa è la smania di ricchezza. Non mi prendo cura delle pecore, ma mi trasformo in mercenario. Ciò che mi interessa è ciò che ci ricavo, non il bene del gregge.
Cosa fa Dio di fronte a tutto questo? Prende in mano la situazione e raduna lui stesso le sue pecore e costituisce nuovi pastori che le faranno pascolare in modo sicuro.
E alla fine della lettura ecco l’annuncio, la profezia dell’arrivo, dell’invio del pastore dei pastori: un pastore che uscirà dalla casa di Davide che regnerà da vero re ed eserciterà il diritto e la giustizia. Chi è? Gesù, Figlio di Dio, re di Israele.
Il vangelo, sempre su questa linea, ci ha raccontato della compassione di Gesù verso la folla perché “erano come pecore senza pastore”.
Anche noi viviamo in un mondo e in un periodo storico dove c’è tanto disorientamento, tanto senso di straniamento, di disordine, di confusione, in tutti gli ambiti: ecclesiale, civile, sociale, politico, lavorativo… sembrano mancare delle figure guida, delle persone sagge, sapienti, profetiche…
L’invito della Parola di Dio di questa domenica è che tutti siamo pastori (non solo i preti, i vescovi, il papa, in ambito religioso, ma anche chi è chiamato a guidare il popolo in ambito civile, amministrativo, politico, medico, educativo ecc…)
Tutti siamo pastori perché tutti siamo chiamati da Dio a prenderci cura gli uni degli altri.
Chi è allora “pastore”? Pastore è il servo, colui che si mette a servizio per il bene degli altri, della loro crescita, del loro benessere, della loro felicità.
Quali allora gli atteggiamenti del pastore?
E’ colui che si mette davanti al gregge per guidarlo, per indicare la strada, l’orizzonte, la prospettiva. Mai dobbiamo venir meno al ruolo dell’insegnamento (scrivere nel cuore)
E’ colui che sta in mezzo al gregge, che ha compassione del gregge, che patisce-con, che porta i pesi dei suoi fratelli e sorelle.
E’ colui che sta in fondo al gregge per raccogliere, spronare, stimolare, incoraggiare, aiutare le pecore che fanno più fatica.
Chi è chiamato a far questo? Solo i preti, solo i vescovi, solo il papa?
In forza del nostro Battesimo, del nostro legame e della nostra chiamata da parte di Dio tutti siamo chiamati ad essere pastori. Ricordiamocelo bene!
Pastore è il sacerdote della comunità.
Pastore è il genitore nei confronti dei figli.
Pastore è il nonno nei confronti dei nipoti.
Pastore è l’insegnante, l’educatore, dei propri ragazzi.
Pastore è il medico nei confronti del proprio paziente.
Pastore è il datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti.
Pastore è l’amico nei confronti di un altro amico.
Pastore siamo ciascuno di noi quando ci prendiamo cura gli uni degli altri, a nome e in nome del Pastore dei pastori, Colui che non ha esitato a dare la vita per il gregge.
NATIVITA’ DI SAN GIOVANNI BATTISTA – SOLENNITA’ – 2018
Questa solennità, quest’anno sostituisce la 12esima domenica del tempo ordinario.
Non sto a fare una esegesi dei brani biblici, mi soffermo sul significato che questa festa può avere per noi, per la nostra vita.
Cosa ci insegna la nascita, la persona e la vita di Giovanni?
- Che ogni essere umano, indipendentemente da etnia, lingua, sesso, religione, condizione sociale ed economica, ha un’altissima dignità. Ce lo dice il salmo responsoriale (138): hai fatto di me una meraviglia stupenda, per questo ti ringrazio.
Aver coscienza che siamo una meraviglia stupenda, un progetto di Dio che deve venire alla luce in tutta la sua bellezza (e questo vale per noi ma anche per gli altri) è una realtà che occorre ribadire con forza.
Tante volte ci sminuiamo, diciamo che non siamo buoni a nulla, facciamo un’equazione maldestra: io sono la somma dei miei peccati. No, noi non coincidiamo con il nostro peccato, noi siamo l’espressione più alta dell’amore di Dio. La bellezza abita dentro di noi, anche quando ce ne dimentichiamo o la deformiamo o ne facciamo delle caricature.
Dio ci ama a partire dai nostri peccati, dalle nostre mancanze, dalle nostre fragilità, dai nostri tradimenti e infedeltà. Dio ci ama deboli. Così può farci forti (san Paolo). E’ quello che è successo a Giovanni il Battista.
2. Ogni essere umano, cristiano o meno, ha una missione sulla terra. Per i credenti questa missione è comunicata-rivelata da Dio (secondo i suoi tempi e i suoi modi); per i non credenti coincide con il lasciare una ‘traccia buona’; lasciando il mondo migliore di come lo abbiamo trovato (Baden-Powell).
C’è una missione che riguarda tutti: vivere la santità, vivere l’amore, comunicare l’amore che Dio ha per noi.
Poi c’è una missione particolare affidata a ciascuno, che spesso coincide con la vocazione personale: c’è chi si santifica attraverso la famiglia, attraverso il ministero, attraverso la vita di preghiera, attraverso la vita missionaria, attraverso il lavoro e la professione, il volontariato ecc…
Occorre dire “Sì” (soprattutto oggi) a questa prospettiva: non sono nel mondo ‘a caso’, ma ho un compito, un lavoro da portare a termine, una missione da compiere, per il mio bene e per il bene degli altri. In quest’ottica si vive e si muore diversamente.
3. Giovanni con la sua vita, con la sua parola, con le sue scelte diventa un vangelo vivente, una provocazione per i suoi concittadini e per chi lo incontra.
Questo deve avvenire anche per noi… quando ci incontrano gli altri cosa dicono?
Mi vengono in mente molti esempi belli, che suscitano ammirazione e imitazione:
- Sposi da tantissimi anni che si vogliono bene come il primo giorno…
- Lavoratori professionisti bravi, in gamba, che fanno il loro lavoro con passione…
- Sacerdoti e vescovi santi, che si spendo per il bene della loro gente e delle loro comunità…
- Giovani volenterosi che si spendono nel volontariato o comunque a favore degli altri, dei più poveri ed emarginati, oppure nel servizio educativo…
- Gente anziana o ammalata che vive con letizia e con serenità di cuore la propria situazione…
- Gente famosa, dello spettacolo o di altri ambienti che non si monta la testa ma vive in maniera semplice, bella, ordinata e pulita.
- Gente sorridente, nonostante ferite, fatiche della vita, anche batoste… eppure non si stanca di offrire un sorriso bello, caldo, solare, incoraggiante, ricco di speranza (io non sono proprio capace… ho un’ammirazione e una venerazione particolare per queste persone…)
E io che testimonianza offro? Una testimonianza o una contro testimonianza?
Che il Signore ci aiuti ad offrire, attraverso la nostra vita, una bella, chiara, limpida, audace, generosa e lieta testimonianza di fede. Quella fede capace di rendere bella e significativa l’esistenza. Perché la fede cristiana è questa, non altro.
XI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO B – 2018
Il vangelo ci ha appena presentato due piccole parabole che hanno come protagonista il seme, che simboleggia la Parola di Dio che cresce nel mondo, annunciando e realizzando il Regno di Dio.
La prima caratteristica di questo seme (che balza subito all’occhio) è la forza misteriosa di quest’ultimo, indipendentemente dalla sua accoglienza e dal tipo di terreno in cui è seminato. Così è della Parola di Dio: non è una parola umana (fragile di suo, instabile, contraddittoria…), è parola divina e dunque una parola che fa crescere, che da vita, che è feconda: molto belle e significative sono le parole del canto “come la pioggia e la neve”: Come la pioggia e la neve scendono giù dal cielo e non vi ritornano senza irrigare e far germogliare la terra; Così ogni mia parola non ritornerà a me senza operare quanto desidero, senza aver compiuto ciò per cui l’avevo mandata.
La Parola di Dio è così: imprevedibile e misteriosa, a volte sembra non dire niente ma sotto sotto continua a lavorare e poi salta fuori quando meno te lo aspetti e illumina un avvenimento, un fatto, una sofferenza, una gioia, una storia… pone domande e offre risposte. Consola, insegna e provoca… a patto che la si frequenti… e non la si ascolti frettolosamente solo la domenica a messa…
E’ la stessa logica del seme: cade nel terreno, ma poi bisogna coltivarlo, altrimenti è tutto inutile… è l’atteggiamento di l’obbedienza alla Parola: ob-audire: ascoltare nel profondo e poi provare a metterla in pratica. Così la Parola di Dio esprime tutto il suo potenziale, la sua forza, la sua energia. Altrimenti resta sterile.
La seconda sottolineatura riguarda il Regno di Dio, che cresce, anche se noi facciamo fatica a vedere questa crescita, soprattutto nel contesto sociale, culturale, ecclesiale, civile in cui viviamo. Ricordiamo il detto: “fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce”.
Come cristiani siamo chiamati a testimoniare, comunicare, annunciare i semi di bene presenti nel mondo. C’è chi annuncia e comunica i semi di male, noi siamo chiamati a far brillare i semi della risurrezione di Cristo. E ce ne sono. Occorrono gli occhi giusti per vederli, gli occhi della fede, gli occhi della fiducia. Pensiamo ai telegiornali…
Il Concilio Vaticano II, nei lontani anni ’60 già parlava di “segni dei tempi”; cioè di segni che dimostrano e testimoniano che lo Spirito santo non se ne sta con le mani in mano ma lavora per gli uomini e con gli uomini. Il Concilio ne ha evidenziati alcuni, quali:
- Il progresso medico e scientifico
- La condizione della donna e la sua dignità nelle società democratiche
- L’ecumenismo
- Lo sviluppo dei diritti umani e civili (in particolare la libertà religiosa, … ma non solo).
- La lotta alle discriminazioni
- La crescita del vangelo in tante parti del mondo, in particolare in Asia (Cina e India) e in Africa
- La caduta dei sistemi ideologici e totalitari come il nazismo, il fascismo e il comunismo
- Io ci metterei la Comunità Europea (la quale non ha mai conosciuto settant’anni ininterrotti di pace… e ditemi se è poco…)
Terza e ultima sottolineatura: queste parabolette di Gesù ci aiutano a riscoprire uno sguardo bello e sereno con il creato.
Per fortuna oggi stanno aumentando i giovani che scelgono di avvicinarsi al mondo della natura e, nell’ambito del lavoro, all’agricoltura, all’agriturismo, ai prodotti “a chilometro zero”. E’ un segno bello di un rapporto ritrovato con il creato e con la terra, dalla quale proveniamo. E’ il segno di un’umanità che ritrova le sue radici, e di conseguenza, il suo futuro.
Di tutto questo ringraziamo il Signore, e, attraverso il nostro piccolo ma importante contributo, facciamo sì che i semi di bene continuino a moltiplicarsi e a produrre una messe abbondante, a lode di Dio e per il bene di tutti.
SOLENNITA’ DI SAN PANTALEONE, patrono della Città e della Diocesi di Crema
2Sam 24,15-19.25
Sal 27 1-2.6-9
2Pt 3,14-17
Gv 12,24-26
La prima lettura, tratta dal secondo libro di Samuele, è stata probabilmente scelta per le sue assonanze, similitudini e allusioni con la storia del nostro patrono, san Pantaleone: qui il Signore “manda” la peste in Israele. Nel 1361 Crema viene colpita da un’epidemia di colera, per questo invoca il santo medico che libera la città dal morbo maligno, proprio il giorno del suo martirio.
Come nella lettura che abbiamo appena ascoltato, il re Davide diventa il tramite (sacerdote) tra Dio e la sua gente, così san Pantaleone, invocato dal popolo cremasco, diventa protettore della città e del territorio circostante.
San Pantaleone, pur essendo un santo cronologicamente distante da noi (è vissuto attorno al 250-300 d.C.) ha delle caratteristiche peculiari che lo rendono attuale, vicino alla nostra vita di fede e alla nostra sensibilità. Vediamo quali sono:
- San Pantaleone è un martire: il martire sceglie di dare la vita per Cristo. In un periodo storico in cui le scelte definitive fanno paura e vengono considerate da molti superate, Pantaleone è uno che “gioca la sua vita” per un grandissimo ideale, “ci mette la faccia”, rischia tutto: trova la perla preziosa e per acquistarla non esita a dare ciò che ha di più prezioso: la vita stessa.
Pantaleone ha coraggio: cor-actio: un cuore in azione, un cuore donato a Cristo, che ne diventa il motore, l’orizzonte, la mèta.
- Pantaleone è medico anargiro: esercita gratuitamente la sua professione a favore delle fasce più deboli e indigenti della popolazione. Risuonano in lui le parole del Vangelo: “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8).
E’ una persona colta, acculturata, preparata. La fede, ci insegna il patrono, non è (come si pensava in passato e alcuni lo pensano tutt’ora) una storiellina romantica per gli ingenui, i ‘sempliciotti’, i creduloni… una caramella Ambrosoli per addolcire le fatiche della vita…
Parafrasando le parole di San Paolo, Pantaleone è stato un uomo del suo tempo, la cui formazione e preparazione intellettuale ed esperienziale lo ha aiutato a “rispondere alla speranza che abitava in lui”. La scienza, ci dice il patrono, da sola non salva (come pensano in molti, oggi). E cultura e fede non sono in opposizione, al contrario si compenetrano, interagiscono e si arricchiscono. E quando lo fanno, nascono dei capolavori!
- Pantaleone è un laico. Un laico impegnato. Un laico che ha vissuto il vangelo nei propri ambienti di vita, soprattutto nel lavoro. Un uomo che ha fatto della sua professione una vocazione e una missione. Impegnato nel sociale, nella promozione del bene comune, nella costruzione della “polis”. Uno che non si è chiuso nel proprio benessere egoistico e autoreferenziale, ma si è aperto con generosità e dedizione al bene dei fratelli.
Aperta parentesi: il martirio non lo si “inventa”: il martirio lo si prepara, giorno dopo giorno, attraverso le piccole scelte quotidiane di amore donato e condiviso.
- Infine, ultima caratteristica, Pantaleone è un giovane. Giovane come età anagrafica e soprattutto giovane ‘dentro’. Una giovinezza che gli viene dallo Spirito e dall’incontro con il Signore. Risuona il salmo 43: “Mi accosto all’altare di Dio, (…) che rende lieta la mia giovinezza”.
Il vangelo ci insegna che il segreto della vita è donarla, spenderla per il bene del prossimo. Altrimenti la vita insterilisce, sfiorisce, rinsecchisce. Chi invece sceglie di fare della propria vita un dono d’amore la ritrova arricchita e accresciuta da Dio e dai fratelli.
Pantaleone ha seguito Gesù, ha realizzato la sua vocazione nel servizio al prossimo e ha ricevuto la corona di gloria (kabod = il peso specifico, la giusta importanza).
Che il patrono Pantaleone ci sia di esempio, di sostegno e di incoraggiamento nel cammino verso la santità.
SOLENNITA’ DEL CORPUS DOMINI – anno 2018
Questa solennità, di origine medievale (celebratasi la prima volta in Francia nel 1247) ci ricorda la centralità del sacramento dell’Eucarestia nella nostra vita di credenti (alimento – cibo e bevanda spirituale), nella vita della Chiesa e nella vita del mondo.
Sì, anche del mondo intero, perché il significato del mistero eucaristico non riguarda solo i credenti, ma tutti gli uomini. (Qualcuno si domanderà: perché? non riguarda solo i credenti, e in particolare i cattolici?) Perché l’Eucarestia rivela a tutto il mondo il mistero dell’amore, che tutti, e sottolineo tutti, andiamo cercando, talvolta a tentoni, talvolta in modo sbagliato, sgangherato e confuso; affamati e assetati di questa energia e di questa forza, l’unica a saper dare senso pieno e definitivo all’esistenza.
Ricordiamo anche le parole della Tradizione: L’Eucarestia fa la Chiesa e la Chiesa ‘fa’ l’Eucarestia (card. Henry De Lubac).
L’Eucarestia è il sacramento che edifica, costruisce la Chiesa, la quale, per mandato di Gesù (fate questo in memoria di me) la celebra ogni giorno e ogni domenica. Perché? Per obbligo, per tradizione, perché ‘si deve’, perché ‘si è sempre fatto così’? No. Perché l’Eucarestia, come dicevamo prima, è la fonte dell’amore e se uno vuole imparare ad amare, qui trova la fonte, la sorgente dell’amore.
Abbiamo bisogno di imparare ad amare da Dio. Perché spesso, l’amore umano lo viviamo in forme parziali, riduttive, incomplete. Vediamole insieme:
- AMORE NARCISTA, EGOISTA: mentre amo te, amo me stesso.
- AMORE POSSESSIVO, ASFISSIANTE: ti voglio bene se stai sotto il mio controllo/ ti amo quando ti possiedo.
- AMORE CHE ESALTA SOLO IL SENTIMENTO: ti amo solo se sento/provo qualcosa per te… amore di pancia.
- AMORE “INTELLETTUALE”, RAZIONALISTA, “MATEMATICO”: amo solo se mi tornano i conti (convenienza)…
- AMORE “A TEMPO”: ‘sto insieme a te finché dura…’
- AMORE DEL “DO UT DES” (dare per avere): voglio bene solo se dall’altra parte trovo il contraccambio.
- AMORE A DISTANZA DI SICUREZZA: ti amo solo se non invadi il mio spazio vitale.
- AMORE DI SOTTOMISSIONE: dicendo di amarti, annullo la mia persona.
- AMORE CONDIZIONATO: ti amo ‘a patto che…’
- AMORE STERILE: che non porta frutto, che non si moltipica, che non genera, che non crea storia santa, che non da vita, che non offre ragioni per vivere e per sperare…
Occorre guardare e imparare dall’amore di Cristo, che ha delle caratteristiche tutte sue; è originale e originante (viene dall’origine):
- E’ IRREVOCABILE: una volta che Dio si dona non può più tirarsi indietro (Dio non può rinnegare se stesso!)
- E’ ETERNO, FEDELE E INDISSOLUBILE (indistruttibile!)
- È INCONDIZIONATO: Ti amo perché voglio (scelgo di) amarti. Non pone condizioni per la sua accoglienza
- E’ GRATUITO: non ti chiede nulla in cambio
- E’ UNIVERSALE: per tutti, nessun escluso (‘per voi e per tutti!’)
- E’ FECONDO: che genera vita
- E’ TOTALE, PIENO, ESUBERANTE, ESAGERATO (ASIMMETRICO), CHE CHIEDE RECIPROCITA’
- UN AMORE CHE SPRECA, CHE NON HA PAURA DI ‘BUTTAR VIA’… (immediatamente ci viene in mente la parabola del seminatore – Mt 13,1-23 e sinottici)
- UN AMORE CHE CI RIMETTE, CHE SI LASCIA ANCHE FERIRE, per il bene dell’altro.
Santa Eucarestia, aiutaci ad amare, aiutaci a sperare, aiutaci a vivere sullo stile di Gesù.
SOLENNITA’ DELLA SS. TRINITA’ – anno 2018
Centro della nostra fede, definizione del nostro Dio.
C’è un canto antico (La creazione giubili) che definisce il mistero della SS. Trinità come “mistero imperscrutabile, inaccessibile”……. ma anche no! Il nostro Dio non è un Dio chiuso in se stesso, un Dio che gioca a nascondino… un Dio di cui non sappiamo nulla, un Dio che non ha mai parlato (il nostro Dio è un Dio ‘chiacchierone’… certo, per chi lo vuole ascoltare!)
Al contrario, noi cristiani adoriamo, veneriamo, amiamo, seguiamo, siamo discepoli e testimoni di un Dio rivelato, di un Dio che si fa conoscere, che ci cerca, che si fa trovare dagli uomini, che si mette in comunicazione con loro, che “parla come ad amici, che si intrattiene con loro; per invitarli alla comunione con sè” dice il Concilio Vaticano II (Dei Verbum 2).
Dio non è un Dio chiuso, ripiegato su se stesso, un Dio timido, introverso, che si fa i fatti suoi…
E’ il Dio della vita ed è il Dio dell’amore, perché la Trinità è la rivelazione più alta dell’amore: un Padre che ama il Figlio e questo amore prende la forma dello Spirito Santo (terza persona trinitaria).
Dicevamo non un Dio chiuso ma aperto, una trinità “ad extra”, direbbero i teologi; che si dona per noi uomini, che fa il tifo per noi, che ci sostiene, ci incoraggia, ci provoca a cercare e trovare la verità su noi stessi (una verità che non è mai un’idea, un’astrazione, un concetto ma un’esperienza).
La trinità infine è mistero di comunione. Quanto ne abbiamo bisogno in questo periodo storico! Ogni volta che ci facciamo il segno della croce dovrebbe venirci in mente proprio questo: che come Dio è comunione, anche noi siamo chiamati a costruire legami di comunione, con tutti. Dio è inclusivo, non esclusivo!
Se qualche anno fa la verità potevi cercarla magari anche da solo, a tentoni, oggi non è più possibile. E’ molto più faticoso! E’ più bello cercare la verità insieme, lasciarsi illuminare e arricchire da prospettive diverse per arrivare, sì, ad una sintesi personale.
Trinità, mistero di amore e di comunione, accompagnaci, sostienici, pro-vocaci, nel cammino della vita perché si compia la tua santa volontà, ovvero che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità che da vita e gioia al mondo (1Tim 2,4).
SOLENNITA’ DI PENTECOSTE – anno 2018
Cinquanta giorni dopo la Pasqua celebriamo e viviamo la discesa dello Spirito Santo.
Non facciamo l’errore di pensare alla Pentecoste come un fatto passato. Non siamo spettatori di qualcosa che non ci riguarda ma siamo resi attori protagonisti di una rinnovata Pentecoste. Infatti Gesù ci ha promesso che il dono dello Spirito santo viene regalato in abbondanza a coloro che glelo chiedono (Lc 11,13).
Lo Spirito è l’amore del Padre e del Figlio che viene riversato nei nostri cuori, dice san Paolo (Gal 4,6), è forza interiore, energia spirituale che si sostiene nella fede; è fuoco e vento che gonfia le vele, che ci fa andare avanti, che ci fa camminare (papa Francesco).
Il vangelo e Gesù stesso parlano dello Spirito come:
- Creatore, perché ci ri-crea a immagine di Gesù, ci da la sua forma (conformi all’immagine del Figlio (Rm 8,29)
- Difensore (paracleo, advocatus): ci difende dal male e non abbandona nei momenti di prova, di fatica, di tentazione
- Consolatore: ci aiuta quando le cose non vanno per il verso giusto… quando il professare e il vivere la fede diventa difficile, magari a causa di un contesto ostile o refrattario…
Chi è lo Spirito Santo?
Lo Spirito Santo è il regista della Chiesa: promuove, suscita e sostiene i carismi nella Chiesa (le energie di bene a servizio della comunità).
Lo Spirito è anima della preghiera e della Parola…
Lo Spirito è protagonista e autore dei sacramenti della Chiesa (il copyright ce l’ha lui!)…
Lo Spirito è il suscitatore, l’allenatore dell’unità, della comunione ecclesiale…
Lo Spirito è guida della coscienza (no ad una coscienza fine a se stessa ma illuminata, guidata, orientata, accompagnata)
Lo Spirito è sapienza che guida il discernimento nella Chiesa (Luce che tutto fa nitido)…
Lo Spirito santo è colui che è capace di mettere insieme le diversità e farle diventare ricchezza. Parlando una sola lingua: la lingua dell’amore, della fede in Dio.
Il cristiano è colui che si lascia insegnare la lingua dell’amore dallo Spirito Santo. Quando succede questo, le persone ci capiscono, le incomprensioni si sciolgono, le distanze si accorciano, i cuori si avvicinano. Non abbiamo più bisogno di raffinate tecniche pastorali per annunciare il vangelo. Accade e basta. E questo è il vero miracolo, che continua nel corso dei secoli, dei millenni, e che probabilmente continuerà fino alla fine del mondo.
SOLENNITA’ DELL’ASCENSIONE DEL SIGNORE – anno B – 2018
Con la solennità dell’Ascensione, e domenica prossima con quella della Pentecoste, si compie il mistero pasquale di Gesù. La missione di Cristo riceve il suo sigillo.
L’Ascensione è una festa strana, nella quale nostalgia e gioia si mescolano insieme.
E’ una conclusione e allo stesso tempo un inizio: termina la storia di Gesù di Nazareth e inizia la storia della Chiesa.
Gesù scompare agli occhi dei suoi discepoli ma il suo non è un addio. Inizia una modalità diversa di rapporto: “se non me ne vado non può arrivare a voi lo Spirito Santo”. La forma spirituale di Gesù sarà il suo nuovo modo di stare e di accompagnare i discepoli nell’avventura e nella sfida dell’evangelizzazione.
E’ quell’allora che abbiamo ascoltato nel vangelo che rende possibile tutto ciò: i discepoli non possono più contare sulla presenza fisica, terrena del Maestro ma ricevono molto di più: asceso al cielo, in piena comunione con il Padre, Gesù è vicino ad ognuno di loro senza più limiti di spazio e di tempo.
Tuttavia una domanda sorge spontanea: come potranno questi uomini che si sono rivelati così fragili e per certi versi inaffidabili, portare avanti un compito così gravoso e impegnativo?
Semplice, perché la vera risorsa della missione non sarà la loro bravura ma il dono dello Spirito santo. Infatti riceveranno “potenza dall’alto”. E’ infatti nella mia debolezza che si rivela la tua forza (san Paolo).
Per i discepoli il tempo dell’ascensione segna un ‘giro di boa’: è il tempo della maturità e della responsabilità: Gesù non cammina più con loro, non determina le loro scelte momento per momento, non suggerisce più il come, il dove e il quando… tuttavia promette assistenza attraverso il dono dello Spirito: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria fino agli estremi confini della terra».
Non è una “mission impossibile”, perché il Signore “agisce insieme con loro”, accompagna, sostiene, incoraggia, promuove, protegge e consola da possibili insuccessi, fatiche e pericoli.
La festa che celebriamo è allora la festa della “vita adulta”: Dio si fida della sua Chiesa, dei suoi discepoli, si fida di noi e affida a noi il suo vangelo, perché attraverso la parola, la vita e la testimonianza, raggiunga tutti, nessuno escluso. L’essere testimoni non è così un’onorificenza, ma un dono e un impegno per continuare e arricchire la missione stessa del Figlio di Dio.
Gesù ci affida il suo vangelo, non una parola qualsiasi. Capace di cambiare la vita, di trasformare i cuori, di guarire nel profondo, di donare incoraggiamento e slancio nuovo. Una parola che non deve andare perduta, lasciata in un cassetto, ma seminata con abbondanza, addirittura esagerando, senza avere paura di sprecare il seme in terreni apparentemente sterili o inadatti.
VI domenica del tempo pasquale – Anno B – 2018
La liturgia di questa domenica ci porta al cuore del vangelo: Gesù ci rivela cos’è l’amore, come si manifesta e da dove scaturisce, quale ne è la sorgente.
Partiamo proprio dalla sorgente: il Padre che ama il Figlio. E il Figlio, ricambiando questo amore paterno, dona la vita per i suoi amici, per i suoi fratelli e sorelle, che siamo noi.
Poi c’è un secondo aspetto che potrebbe apparire un po’ in contraddizione con una certa idea di amore che ha la nostra società e la nostra cultura: se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore… Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri.
Cosa c’entra l’amore con l’osservanza di alcuni comandamenti, che siano pure di Dio? Si può comandare l’amore??
E qui c’è una traduzione errata della nostra lingua italiana: nell’originale ebraico non esiste la parola ‘comandamento’. Esiste il termine “parola”, parola che fa crescere, parola di vita, parola che da la vita, che ti da coraggio, che ti fa andare avanti… parola creatrice, e dunque parola di amore. Per quello che Gesù poi parla di gioia: è la gioia di aver trovato parole che fanno crescere, che danno vita!!
Ecco allora il grande invito di Gesù, la sua grande proposta per l’uomo: amatevi gli uni gli altri COME io vi ho amato voi. Non c’è un amore più grande di questo.
Com’è l’amore di Gesù: diciamo anzitutto cosa non è:
- Non è sterile, egoista, narcisista, autoreferenziale, chiuso in se stesso
- Non è un amore calcolato, interessato, condizionato “io ti do se tu mi dai”
- Non è un amore legato al merito: sono bravo, bello, buono, allora Dio mi vuole bene…
- Non fa distinzioni, classificazioni, graduatorie, non mette ‘etichette’…
- Non è superficiale ma profondo, intenso, “che ci rimette di tasca sua per il bene dell’altro”.
Come allora deve essere l’amore, quale caratteristiche imprescindibili deve avere?
- L’amore di Dio non è prima di tutto e sopratutto un sentimento (che va e viene… come si fa a fondare un’intera vita sul sentimento?), ma è un atto, un fare, uno sporcarsi le mani, un costruire la vita insieme…
- L’amore di Dio, come ci ha detto anche la prima lettura (gli apostoli che annunciano il vangelo anche ai pagani e questi si aprono alla fede) non discrimina, non chiude, non imbriglia, non fa venire rimorsi di coscienza, non è complicato, ma è semplice, non è esclusivo ma è inclusivo. Sì l’amore di Dio include, l’amore di Dio abbraccia, tiene insieme, tiene uniti, crea comunione.
Non è che ci siamo noi e poi ci sono gli altri. Non è che ci sono i ‘vicini’ e ci sono i lontani; non ci sono quelli ‘di chiesa’ e quelli ‘del mondo’. Ci siamo noi, essere umani, fratelli e sorelle di un unico padre che è nei cieli e ama tutti allo stesso modo. Anzi, ama con particolare predilezione chi ha sbagliato e chi continua a sbagliare: “amami quando me lo merito meno, perché sarà il momento in cui ne avrò più bisogno”.
Dio non guarda al merito. Dio guarda gli occhi e il cuore. Dio guarda nel profondo.
Cari fratelli e sorelle, mai discriminare, mai. Né per razza, ne per cultura, né per religione, né per istruzione, né per orientamento sessuale.
Non facciamo soffrire le persone. Soffriamo già tanto di nostro. Amare le persone così come sono.
Ricordiamo i verbi di papa Francesco nell’Amoris Latetitia: accogliere, sostenere, promuovere e integrare. Per tanto tempo abbiamo fatto fatica su questo. Ora è il momento per giocarcela questa partita, come discepoli di Gesù.
Infine, chi ama porta frutto. Molto frutto. Nel vivere l’amore si può sbagliare (lo sappiamo tutti, in particolare gli sposati, i findanzati, i genitori…), ma se la prospettiva e il fondamento è l’amore di Dio, anche sbagliando, l’amore è sempre fecondo e generativo.
Frutto del dono dello Spirito Santo è l’amore, ci ha ricordato la seconda lettura.
Se abbiamo trovato questo amore nella nostra vita, custodiamolo gelosamente nel cuore e alimentiamolo ogni giorno. E saremo profondamente, serenamente e cocciutamente felici. Perché solo l’Amore salva. Salva dalla morte e da senso alla vita.
IV domenica del tempo pasquale – Anno B – 2018
Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni
“Prendete in mano la vostra vita e fatene un capolavoro”, così san Giovanni Paolo II ai giovani, radunati a Roma nell’anno 2000 per a GMG.
E’ la domenica del buon pastore (il pastore bello – kalòs) che si contrappone alla figura del mercenario.
Il mercenario è colui che non si interessa delle pecore. Fa tutto per suo vantaggio personale. Pensa solo a se stesso e al suo tornaconto. E alla fine si sente infelice, triste, e solo. Pensiamo a quante persone vivono così. La vera felicità invece la trovi nella dedizione (il dedicarsi a…, il donarsi all’altro).
Il buon pastore, al contrario:
- Conosce le sue pecore
- Le pecore ascoltano la sua voce
- Da la vita per le pecore
- Ascoltando la voce del pastore, diventano un solo gregge (diventano capaci di stare insieme, di relazionarsi, di aiutarsi, di crescere insieme. E’ la dinamica della Chiesa, attraverso la quale i suoi membri camminano insieme).
Quest’anno la figura del bel/buon pastore viene incarnata da Salomone, un giovane ebreo che viene chiamato da Dio a diventare re-pastore d’Israele, re del popolo eletto.
Dio si manifesta al re in sogno e gli chiede di domandargli quello che vuole, perché intende concederlo (v.5).
Salomone obietta a causa della sua giovinezza e della grandezza del compito che lo aspetta. Egli non si sente all’altezza di questa missione ma nello stesso tempo emerge dalla narrazione un giovane sincero ed umile, autentico. Non presume, non sbatte in faccia a Dio i suoi desideri personali, le sue ambizioni, la sua autorealizzazione. Non pensa a sé, ai vantaggi derivanti dall’essere re ma a quanto potrà e saprà fare per gli altri. Da qui la richiesta successiva rivolta a Dio di un cuore “che ascolta” per poter governare con saggezza il popolo e distinguere il bene dal male.
Dio si compiace di tale richiesta (v.10) perché Salomone non ha messo al centro se stesso ma il bene del suo popolo. Oltre a ciò JHWJ gli concede anche quello che non ha domandato, ovvero ricchezza, lunga vita e vittoria sui nemici. Unica condizione, quella di rispettare l’alleanza, il patto con Lui (v.14). Salomone si è addormentato “giovane principe insicuro” e si risveglia uomo “maturo e sapiente”.
L’esperienza di Dio che fa Salomone esprime molto bene la condizione del giovane di oggi, posto di fronte alle esigenze di un mondo che lo chiama a dover dare sempre di più, ma nello stesso tempo non gli offre energia spirituale, forza morale, chiarezza di valori su cui giocare le scelte di vita. Inseriti in complicate situazioni esistenziali, i giovani sentono la chiamata alla vita come un opportunità insidiosa di fronte alla quale si ritrovano sempre più preoccupati e incerti.
Anche chi si sente chiamato da Dio a seguirlo nella vita familiare, consacrata, sacerdotale, si trova assillato da tante paure che si traducono in un’obiezione di fondo: «Come farò? Ce la farò?».
Rispetto ad aspettative esterne così grandi, emerge una sostanziale inadeguatezza interiore, che può portare ad un duplice esito: il blocco o l’affidamento. Fondamentali diventano allora la testimonianza di coloro che vivono con gioia e nella fede le scelte definitive e l’invito a non avere paura dei propri limiti e delle proprie fragilità, ma ad aprirsi al Signore e a chi media l’opera di Lui.
Come nell’episodio di Salomone la percezione dell’inadeguatezza si fa invocazione a Dio in vista di un cuore sempre più capace di ascoltare. Il giovane chiamato, aprendo il suo cuore a Dio, incontra il cuore di Dio e inizia a vivere una relazione personale con Lui. Qui si gioca la vocazione, qui si alimenta la fede, qui cresce la carità, qui si rafforza la speranza!
Che i nostri giovani possano sperimentare questo, grazie anche all’aiuto di educatori autentici e saggi, di comunità vive, di veri compagni di viaggio che condividono, incoraggiano e sostengono la ricerca.
Allora la domanda finale non è più “chi sono io” (è una domanda narcisista, autoreferenziale, chiusa, sterile) ma “PER CHI sono io”.
III domenica del tempo pasquale – anno B – 2018
Siamo alla fine del vangelo di Luca al cap. 24 dopo l’episodio dei discepoli di Emmaus. Gesù è risorto, i due discepoli ne hanno fatto esperienza. Come? Nello spezzare il pane.
Cosa c’è di tanto importante in questo gesto semplice e quotidiano? C’è un significato profondo da scoprire: chi dona la vita non muore ma vive in eterno!
Come facciamo ad essere sicuri che Gesù sia veramente risorto, vivo, presente, qui in mezzo a noi? Dobbiamo scorgerne le tracce, le tracce della sua risurrezione.
La risurrezione non è vera perché Gesù risorge nel cuore dei credenti, perché noi lo sentiamo vicino… La risurrezione non è un sentimentalismo, una proiezione dei bisogni di immortalità e sicurezza dell’uomo… non è un fuggire dal mondo reale per rifugiarsi in uno fantastico.
Pensiamo a quanta gente fa esperienza di risurrezione ogni giorno! Noi non ci facciamo molto caso… eppure…
- Pensiamo ai papà e alle mamme
- Pensiamo ai giovani – alla ricerca di un lavoro – eppure non mollano!
- Pensiamo ai malati
- Pensiamo a chi ha sbagliato e trova la forza per una vita nuova
- Pensiamo ai disonesti, ai corrotti, ai mafiosi, ai pubblici peccatori che cambiano vita con la forza della fede
- Pensiamo agli anziani, che vedono la propria vecchiaia come dono da offrire alle nuove generazioni (nonni)
Infine Gesù dona la pace. Cos’è?
Provo a dirla con un immagine: dietro le nuvole, oltre le tempeste, dopo i temporali, ricordiamoci che splende sempre il sole… il Sole di Pasqua!
Di questo, ci dice Gesù, voi potete e dovete esserne i testimoni!