CRISTO RE DELL’UNIVERSO – 2020 (Mt 25,31-46)
Celebriamo la solennità di Cristo Re dell’universo.
Parlare di Cristo come Re, oggi, per alcuni di noi, soprattutto per i più giovani, può avere un po’ il gusto dello stantio, del retrò, un linguaggio d’altri tempi, di un qualcosa di ormai sorpassato, come sono le monarchie nel mondo (alcuni popoli le hanno ancora e ne vanno fieri… bah, qualche sano dubbio ce lo poniamo…).
E invece no. Il regnare di Gesù è totalmente diverso dal regnare dei re della terra. Tranne una dinastia, come ci ha accennato la prima lettura (2Sam 5): quella dei re di Israele, che erano re-pastori: uomini chiamati da Dio a prendersi cura del popolo, in particolare delle fasce più deboli ed esposte della popolazione (nella Bibbia si parla infatti di orfani e vedove).
Dicevamo, la discordanza, meglio dire la contrapposizione con gli altri re della terra è netta:
I re del mondo hanno regno e sudditi. Gesù ha amici e fratelli.
Il re decide tutto da solo. Gesù non decide nulla se non aver prima consultato suo Padre.
I re del mondo hanno una carta costituzionale. Gesù ha le beatitudini.
I re del mondo hanno una regina: Gesù ha una sposa, la Chiesa e una Madre come regina.
I re del mondo hanno un trono elegante e solenne: Gesù ha la croce.
I re del mondo hanno una corona preziosa: Gesù ha una corona di spine.
I re del mondo hanno un mantello di porpora: Gesù ha la sua nudità e la sua povertà.
I re del mondo hanno un puledro di razza: Gesù cavalca asini.
I re del mondo hanno un castello o un grande palazzo: Gesù
non ha un luogo dove posare il capo (Mt 8,20).
I re regnano e governano sui loro sudditi; Gesù invece si mette a servirli e lava loro i piedi;
I re sono sempre i primi; Gesù è sempre l’ultimo di tutti;
I re, per essere rispettati, mostrano la sua forza con la violenza; Gesù invece è mite e umile di cuore;
I re vogliono essere temuti; Gesù invece vuole essere amato.
Gesù è Re perché serve. E il servizio è una delle espressioni più alte dell’amore. Gesù è re perché dona la vita. E l’amore di Gesù prende la forma del perdono.
Infatti, la seconda cosa che stupisce di questo vangelo è che il primo cittadino del paradiso è un disgraziato, un ladro, uno che ha sbagliato ma è stato raggiunto dalla misericordia di Dio che lo ha riabilitato, lo ha reso di nuovo figlio. Allora è il caso di dire: c’è veramente speranza per tutti. Nessuno si senta escluso, nessuno è fuori dall’amore di Dio (almeno che uno voglia starsene fuori, ovviamente). Lʼamore di Dio è per tutti, ma fa una preferenza ai poveri, lo abbiamo ascoltato nel vangelo, che sono il tesoro del Re crocefisso.
Questa regalità di Gesù cosa c’entra con noi?
Anzitutto siamo chiamati a partecipare della regalità di Cristo, regnando sulla nostra vita, ossia facendola diventare una cosa seria, non banalizzandola, non sprecandola, ma vivendola in pienezza.
Poi siamo chiamati a partecipare alla regalità di Cristo facendoci pastori, cioè gente che si prende cura degli altri, in particolare di chi non ce la fa.
Domandiamoci sinceramente: ma a me, questo Re piace? Non tanto vero? Eppure è l’unico re che vince. Noi adoriamo e siamo i discepoli, i collaboratori e i continuatori di questo re. Gli altri in un primo tempo sembrano essere i vincitori, ma perdono e passano. Lui vince e resta. Solo chi ama, infatti non passa ma resta per sempre.
XXXIII DOMENICA DEL T.O. – anno A – 2020 (Mt 25,14-30)
La liturgia della parola di questa domenica, che ci sta accompagnando verso la fine dellʼanno liturgico ci presenta la famosa parabola dei talenti. Questa parabola è tuttavia preceduta dalla bella immagine, tratta dal libro dei proverbi, della donna laboriosa, che non se ne sta con le mani in mano ma che si dà da fare. Trasforma le cose che possiede in frutto.
Ritorniamo alla parabola: ci sono tre servi a cui il padrone affida dei talenti. Qui il talento non è tanto una qualità personale ma i talenti sono i beni del padrone. E li consegna secondo le capacità di ciascuno. Il padrone ne chiede conto ai servi, quando ritornerà.
Due servi si mettono a lavorare e tirano fuori da questa consegna, una realtà corrispondente. Per contro, il terzo servo che ha ricevuto il talento, non lo usa e lo vuole restituire così come gli è stato consegnato.
Domanda: perché il Signore ci consegna i suoi beni? Perché non compie Lui le sue opere? Perché cʼè bisogno di noi per costruire il Regno di Dio? Perché ci vuole bene e ci affida delle responsabilità, dei compiti, degli impegni. Ognuno di noi, in un certo senso, completa lʼopera di Dio. Manca un pezzo: ce lo devo mettere io! Lo strumento della grazia è lʼopera dellʼuomo! Le cose che facciamo nel nome di Dio, sono importanti, perché fanno avanzare il vangelo!
Il grande talento che riceviamo da Dio è la fede, la speranza, la carità. E queste vanno trafficate, vanno lavorate artigianalmente affinché il bene cresca!
I primi due servi restituiscono il doppio: cioè il corrispettivo umano della grazia ricevuta.
“Prendi parte alla gioia del tuo padrone!” Il “molto” è poter condividere la gioia del padrone, la sua felicità.
Il servo pigro: “ho avuto paura, ho nascosto il talento; te lo restituisco”. Il padrone sarebbe un uomo cattivo, duro, esigente.
I due servi credono alla fiducia del padrone. Questo servo pensa male del padrone. Pensa al compito affidato come ad una trappola.
“perché non sei andato dai banchieri?” perché non ti sei fatto aiutare? Il servo non sa che il padrone è generoso.
Mai dubitare della generosità di Dio, della fiducia che pone in noi, della chiamata a collaborare per costruire, in noi e attorno a noi, un mondo più umano, più giusto, più fraterno.
XXXII DOMENICA DEL T.O. – anno A – 2020
In queste ultime domeniche che ci accompagnano verso la fine dellʼanno liturgico con la festa di Cristo Re, la Chiesa, attraverso la Parola di Dio ci invita a ricordarci di quella dimensione della nostra fede che facciamo fatica a tenere presente e che ogni anno perdiamo un poʼ per strada: è la dimensione escatologica della vita credente, ovvero riconoscere che la nostra vita, sia personale che comunitaria è in cammino verso unʼorizzonte, una mèta, una direzione. Dal greco “escaton” che significa “le cose ultime”, quelle che fanno riferimento al ritorno finale del Signore Gesù, il quale, a nome di Dio Padre, dichiarerà conclusa lʼesperienza umana, storica, temporale.
Gesù, attraverso la parabola delle dieci vergini, cinque stolte e cinque sagge, ci invita a vegliare, a stare pronti, a preparare la venuta, lʼarrivo, il ritorno dello sposo. Se ci pensiamo bene, prepararsi è unʼazione che fa parte della vita umana, soprattutto riguarda quei fatti che ci sono importanti, a cui teniamo: tutti i passi importanti, le scelte decisive, le decisioni da prendere, le prepariamo!
Proviamo a prendere questa immagine del Signore e a metterla nel nostro contesto odierno: fuori cʼè un nebbione da paura e noi siamo chiamati a vegliare. E come si fa? Andando a cercare, a fatica, a tentoni, un punto luce, per potersi orientare, per non perdere la bussola, per capire la rotta, per non perdere lʼorizzonte… un punto luce. Noi cristiani ce lʼabbiamo il nostro punto luce: è la luce del Signore, è la luce della fede, è la luce del vangelo, è la luce della preghiera.
Gesù più volte lʼha detto del vangelo: io sono la luce del mondo. Chi segue me non cammina nelle tenebre ma avrà la luce che gli consente di vivere (Gv 8,12).
Di fronte a tante tenebre che annebbiano la vista, il cuore, il domani, i progetti, stiamo attenti a non perdere la luce di Dio e soprattutto a coltivarla. Penso non sia un caso che in questo secondo lockdown chi ci governa ha fatto la scelta di tenere aperte chiese e librerie: la salute dellʼessere umano infatti non è solo fisica, ma integrale: riguarda il corpo, ma anche lo spirito, la mente, il cuore. Che ce ne facciamo di un corpo sano se poi si ammala la testa, oppure il cuore, peggio ancora lʼanima?
Ritorniamo alla parabola: da cosa scopriamo che cinque di queste ragazze erano sagge e cinque stolte? Le prime avevano lʼolio; le seconde non lo avevano, non se l erano procurato. Cosʼè questʼolio? è lʼolio della preghiera, che tiene accesa la lampada della nostra fede. E quando parliamo di “fede” non facciamo riferimento univocamente al senso religioso della parola, ma al suo significato umano, laico: fede come fiducia. Se viene meno la fiducia, è molto facile che cadiamo nel buio, della disperazione, nel risentimento, nella rabbia, nel nervoso, nella frustrazione.
Interessante notare una cosa: questʼolio non può essere ceduto: la fede, la preghiera, il rapporto con Dio non possiamo delegarlo: o lo coltiviamo noi o nessuno può farlo al posto nostro… è unʼesperienza talmente personale che non può essere appaltata.
Cari fratelli e sorelle, in queste settimane complicate e travagliate, coltiviamo il nostro rapporto con Dio; teniamo accesa la lampada della preghiera, affinché non si spenga la luce della fede; perché se si spegne la fede in Dio è più facile che si spenga anche la fiamma della carità e della speranza, che dalla fede vengono alimentate e rinvigorite. Auguriamoci che queste tre virtù godano sempre di buona salute!
TUTTI I SANTI – 2020
Celebriamo la solennità di tutti i santi, gli ‘amici di Dio’, i testimoni della fede; coloro che hanno preso sul serio il vangelo e attraverso la loro vita hanno manifestato le grandi opere di Dio e soprattutto il suo amore e la sua misericordia.
La prima lettura, tratta dal libro dell’apocalisse, li identifica in una “moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, etnia, popolo e lingua (7,9). E’ l’immagine della Chiesa cattolica, cioè universale.
Il vangelo ci dice che i santi sono gli umili, i miti, coloro che hanno fame e sete di giustizia; i misericordiosi; i puri di cuore; gli operatori di pace; coloro che ci “rimettono” affinché il bene prevalga sul male.
Proviamo ad andare un poʼ oltre: Chi sono i santi di oggi? Come vivere la santità oggi? Provo a rispondere a questa domanda riferendomi agli insegnamenti di papa Francesco che troviamo nella sua ultima enciclica “Fratelli tutti”.
Oggi partecipiamo della santità di Dio quando non costruiamo muri ma ponti; quando non ci si mettiamo davanti allʼaltro con un atteggiamento ostile, sulla difensiva, ma quando diamo la possibilità allʼaltro di rivelarsi per ciò che è.
Oggi partecipiamo della santità di Dio quando non guardiamo solo al nostro tornaconto personale, al nostro interesse individuale ma cerchiamo, promuoviamo, lavoriamo per il bene sociale; il bene comune; il bene di tutti. Nella vita di noi credenti non deve valere il “si salvi chi può” ma il “ci si salva tutti insieme” perché figli di Dio, fratelli e sorelle, marinai della stessa barca. Il pericolo dellʼegoismo oggi è più che mai in agguato; ho sentito in questi giorni testimonianze di gente, soprattutto giovani, che in àmbito lavorativo si sentono delusi, amareggiati, sconfortati e sconfitti dal clima cinico, indifferente, approfittatore che si respira nelle aziende e sul posto di lavoro.
Oggi partecipiamo alla santità di Dio quando ci sforziamo di coltivare lʼarte del dialogo, del confronto e non dello scontro, del disprezzo, del discredito dellʼaltro.
Dice papa Francesco: tra lʼindifferenza egoista e la protesta violenta cʼè unʼopzione sempre possibile: il dialogo. Spesso confondiamo il dialogo con il febbrile scambio di opinioni, monologhi che non hanno vie di uscita. Lʼautentico dialogo invece presuppone il rispetto del punto di vista dellʼaltro, delle sue idee e del suo modo di pensare. Il vero dialogo non elimina la tensione ma la utilizza per arrivare a un compromesso (che non è una brutta parola!) che possa diventare consenso, che si nutre di valori solidi e permanenti, perciò condivisi, apprezzati per il loro significato intrinseco. Solo così lʼumanità progredisce e non arretra (FT cap.6).
Oggi partecipiamo della santità di Dio quando impariamo ad essere gentili.
Scrive il papa: oggi raramente si trovano persone che si impegnano a trattar bene gli altri. Eppure ogni tanto si presenta il miracolo di una persona gentile, che mette da parte le sue preoccupazioni e urgenze per prestare attenzione, per regalare un sorriso, per dare una parola di incoraggiamento, per rendere possibile uno spazio di ascolto in mezzo a tanta indifferenza. La gentilezza, quando diventa stile culturale trasforma la società (FT n.224).
Oggi si partecipa della santità di Dio quando coltiviamo una qualità di Dio, che deve appartenere anche a noi: la tenerezza. Per papa Francesco la tenerezza è “lʼamore che si fa vicino e concreto”. Eʼ la strada che hanno percorso gli uomini e le donne più coraggiosi e forti” (FT n.194).
Ai santi non è andato tutto e sempre bene (l apocalisse parla di “coloro che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti rendedole candide nel sangue dell Agnello” – v.14). Molti di loro hanno sofferto, hanno pianto, hanno subìto, hanno sopportato… ma hanno resistito, grazie alla forza della fede e al loro saldo rapporto con Dio. In questo momento non facile anche per noi, chiediamo il dono della fortezza, insieme al dono della santità!
I santi hanno reso il mondo più bello e abitabile. Noi credenti non possiamo abdicare a questa nobilissima vocazione!
Proviamo ad essere, con lʼaiuto di Dio, “il cambiamento che desideriamo vedere nel mondo” (Mahatma Gandhi).
XXX domenica del T.O. – anno A – 2020
Il vangelo di oggi si apre con un contesto polemico: Gesù è messo alla prova. I farisei tentano di metterlo in difficoltà in merito a ciò che di più sacro e importante esista per la fede di un israelita: la Legge, la Torah di Mosè.
Domanda intelligente, furba e pericolosa: qual è il grande comandamento? C’erano piccoli comandamenti… 613 precetti da osservare…
Gesù mette insieme due detti della Bibbia: Capitolo sesto del Dt e Lev 19,18:
AMA DIO – dimensione verticale dell’amore.
AMA IL PROSSIMO come te stesso (qui non c’è un lettura narcisistica… potremmo tradurre: perché è un altro te stesso)
Dimensione orizzontale dell’amore.
Due amori distinti ma complementari! Formano la croce!! E sono due facce della stessa medaglia!
L’amore del prossimo diventa la via per amare Dio (che non vedi, direbbe san Giovanni in una delle sue lettere)
L’amore di Dio diventa la sorgente e la fonte dell’amore umano.
Non separare questi due comandamenti! Dice la prima lettera di Giovanni (4,20-21)
20Se uno dice: «Io amo Dio» e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. 21E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello.
Solo amore per Dio: falso spiritualismo, evasione dalla realtà, solo benessere personale ed egoistico;
Solo amore per il prossimo: filantropia ‘debole’, che non sta in piedi… anche perchè, invece di voler bene agli altri ci capita spesso e volentieri di “mandarli al diavolo” con molta più facilità…
I due comandamenti, senza essere confusi, vanno intesi come espressione di un’unica perfetta carità.
Gesù è colui che nella sua vita ha realizzato in pienezza i due precetti dell’amore, ama Dio e ama il prossimo. Proviamoci anche noi, con lʼaiuto del Signore.
XXIX domenica del T.O. – anno A – 2020 Giornata Missionaria Mondiale
Celebriamo oggi la Giornata Missionaria Mondiale, attraverso la quale la Chiesa ci invita ad allargare lo sguardo a tutta lʼumanità, che, secondo le parole di Gesù diventa la destinataria dellʼannuncio del vangelo della salvezza: “che conoscano Te e colui che hai mandato”.
Il tema di questa giornata è quello della fraternità, che ben si collega allʼultima enciclica di papa Francesco “fratelli tutti”. Scrive il papa: “siamo chiamati a riconoscerci come un’unica umanità, viandati fatti della stessa carne umana, figli dellʼunico Dio e di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede, delle sue convinzioni, dei suoi valori; ciascuno con la propria voce: tutti fratelli!”
Ricordando tutti i missionari sparsi nel mondo, consacrati, religiosi, diaconi permanenti, laici, famiglie (in particolare quelli legati alla nostra terra cremasca), questa giornata ci ricorda e ci sprona alla nostra vocazione di missionari: tutti siamo chiamati ad annunciare con il vangelo!
Cosa vuol dire annunciare il vangelo?
Anzitutto una cosa molto semplice ma non banale: che Dio è buono. Non è nemico, avversario, antagonista, giudice severo, colui che ama fare sgambetti, colui che ti mette in situazioni di pericolo; colui che te la fa pagare se non gli vai a genio e se non fai quello che vuole lui; colui che ti punisce e ti castiga; lʼuomo della stanza dei bottoni che li pigia a caso per far vivere una persona; per farla soffrire, per farla morire.
Annunciare il vangelo significa imparare a “rendere ragione della speranza che è in noi”; significa saper motivare e argomentare le nostre scelte di vita. Il vangelo non è qualcosa di astratto ma concreto; annunciare il vangelo significa vivere nel quotidiano il mio rapporto con Dio e tutti i valori che a cascata discendono da questa relazione: annuncio il vangelo quando sono onesto, quando mi prendo cura degli altri, quando sono solidale, quando costruisco comunione; quando sono generoso e altruista; quando sono capace di perdonare; quando divento capace di accoglienza, di integrazione, di inclusione; quando mi sforzo di avere una mente aperta e un cuore libero;
Infine Gesù nel vangelo oggi sprona tutta la Chiesa e tutti i cristiani a “dare a Cesare quel che è di Cesare e dare a Dio quel che è di Dio”. Qui Gesù sta facendo riferimento alle due autorità, ai due poteri che regolano la vita umana: il potere temporale e il potere spirituale. In un periodo oscuro della storia umana questi due poteri si sono mescolati e avvelenati tra loro. Oggi in molte democrazie del mondo vige la conquista: “libera Chiesa in libero Stato”; in altri regimi totalitari o false democrazie purtroppo non è così. Con la sua parola il Signore oggi ci sta dicendo che ogni autorità, libera e indipendente deve sempre porsi a servizio dellʼessere umano. E se questo è il fine, ogni autorità può e deve interagire e collaborare per realizzare questo obiettivo.
Chiediamo al Signore, come cristiani e come cittadini, che la Chiesa faccia sempre più la Chiesa e si impegni in ciò che è di sua competenza, e chiediamo che lo Stato faccia lo Stato e si impegni in ciò che è di sua competenza. In una collaborazione, nel rispetto dei ruoli e delle competenze, a servizio del bene di tutti e di ciascuno.
XXVIII domenica del T.O. – anno A – 2020
La parola di Dio di questa domenica utilizza una immagine molto bella e molto cara allʼA.T.: lʼimmagine del banchetto, della festa (l abbiamo ascoltata sia nella prima lettura che nel vangelo).
Noi spesso, come cristiani siamo il popolo dei musi lunghi, dei volti corrugati, dei caratteri nervosi e scontrosi, delle personalità arrabbiate e scostanti… Dio oggi ci dice: ricordati che sei discepolo del Dio della gioia! Quindi impara lʼarte del gioire e cerca di stare sereno perché ad ogni tuoi problema corrisponde una strada per uscirne. Certo, occorre trovarla ma cʼè, esiste, e se la cerchiamo insieme.. prima o poi salta fuori!
Il far festa, il radunarsi, il ritrovarsi, lo stare insieme devono caratterizzare noi cristiani (il termine greco Chiesa – “Ecclesia” indica proprio questo!). immersi in un individualismo esasperato anche noi facciamo fatica a vivere questa dimensione.. pensiamo alle nostre celebrazioni: sono momenti gioiosi, festosi, oppure assomigliano più a dei funerali… la fatica nel canto, nel rispondere alle monizioni del sacerdote…
Alla festa di nozze organizzata dal re sono invitati tutti i popoli: ecco il significato della parabola di Gesù narrataci nel vangelo: Gesù abbatte i muri, le distinzioni e le separazioni e ci rende un solo popolo, figli dellʼunica razza umana: via le distinzioni di razza, di ceto sociale, culturali, perfino religiose, di orientamento sessuale.. Lʼultima enciclica di papa Francesco “fratelli tutti” va in questa direzione e parla di una fraternità universale, che il papa chiama “fraternità aperta”.. avremo modo di rifletterci sopra.
Infine, alla festa di nozze partecipa anche un personaggio che non ha lʼabito nuziale. Il re se ne accorge e si arrabbia. Cosʼè questo abito nuziale? Difficile dirlo, tuttavia, con lʼaiuto di san Paolo, possiamo abbozzare una risposta: san Paolo in una delle sue lettere (Colossesi 3,14) invita i cristiani a rivestirsi della carità. La fede senza carità non è fede; è semplice ritualismo o tradizione religiosa. San Giacomo scrive: Tu hai la fede ed io ho la carità; mostrami la tua fede senza le carità, ed io con la carità ti mostrerò la mia fede (2,17).
Carissimi, chiediamo al Signore la grazia di saper rispondere allʼinvito che ci viene rivolto e a saperci rivestire del vestito che non va mai fuori moda, il vestito della Carità di Cristo.
XXVI domenica del T.O. – anno A
Lʼimmagine che Gesù utilizza questa domenica per lanciarci il suo messaggio è semplice e provocatoria: lʼabbiamo appena ascoltata dal vangelo di Matteo al capitolo 21esimo. Gesù è in aperta polemica con i sacerdoti e gli anziani del popolo e condanna la loro incredulità e il loro rifiuto nei suoi confronti. E lo fa raccontando la storia di due figli che rispondono e reagiscono in maniera diversa alla richiesta del padre di andare a lavorare nella vigna di famiglia: il primo figlio si dichiara subito pronto ma poi non si reca al lavoro; il secondo rifiuta lʼinvito ma poi ci ripensa e si reca a lavorare.
Cosa ci insegna Gesù attraverso questa immagine? Una cosa molto semplice e apparentemente banale: che non è importante tanto il dire quanto il fare.
Proviamo a pensare a quante volte nella nostra vita il nostro dire e il nostro fare non coincidono: “tra dire e il fare cʼè di mezzo il mare”…
Quante promesse non mantenute, quante parole dette e non realizzate; quanti impegni presi e non rispettati… mi viene in mente un detto: di buoni propositi e di belle parole è lastricato lʼinferno…. Gesù ci sta chiedendo coerenza, nella vita e nella fede. “La fede la si professa con la lingua ma la si vive nelle opere, nelle scelte, nei fatti”.
E poi cʼè il ripensamento del secondo figlio: i “no” si possono trasformare in “sì”: Dio non ha fretta: sempre tempo per cambiare; cʼè sempre tempo per convertirsi, per scegliere di “sporcarsi le mani” per collaborare con Dio a rendere migliore il mondo.
La seconda parte del vangelo è ancora più provocatoria: pubblicani (pubblici peccatori) e prostitute vi passano avanti nel regno dei cieli. Con questa affermazione Gesù non vuole che diventiamo tutti dei delinquenti, delle prostitute e dei gigolò…. semplicemente il Signore ci sta dicendo che non ci salva la presunzione di essere a posto, di avere i conti in ordine con Dio, di sentirci dei “buoni cristiani”… ciò che ci salva è il grido che deve salire dal nostro cuore:
“Signore, ho bisogno di te! … per essere un uomo e una donna migliore; per non chiudermi nel mio egoismo; per non sentirmi migliore degli altri… per imparare ad amare e a perdonare”.
Gesù termina con lʼaffermazione: “pubblicani e prostitute gli hanno creduto”. Noi cosa rispondiamo? Se riusciamo a rispondergli: “credo Signore, aiutami nella mia incredulità”, siamo sulla buona strada.
XXV dom. del T.O. – anno A – 2020
Parabola dei lavoratori della vigna. Siamo chiamati a lavorare nella vigna per far sì che questa vigna possa produrre frutti buoni.
Lavoratori a tempo indeterminato. Non lavoratori stagionali, occasionali, par-time, lavoratori di ditte appaltatrici.
La parabola ci rivela il grande amore che Dio ha nei confronti dei suoi figli, di ciascun lavoratore.
Un amore che non si fonda sul merito, ma un amore immeritato.
XXIV domenica del T.O. – anno A – 2020 Mt 18,15-20
Anche in questa domenica, il tema dei rapporti nella comunità affrontato dal capitolo diciottesimo di Matteo, che abbiamo iniziato a leggere e a meditare domenica scorsa, si esemplifica, si concretizza nellʼatto del perdono, non tanto quello ricevuto, ma soprattutto quello donato.
Pietro si rivolge a Gesù e gli chiede quante volte deve perdonare a un fratello che ha commesso colpe contro di lui e abbozza una cifra, sette volte, che era la quantità di cui parlava lʼantico testamento (la Legge di Mosè). La risposta di Gesù va dritta al nocciolo della questione: Gesù risponde a Pietro: non fare il fariseo, se vuoi essere mio discepolo devi imparare a perdonare, sempre.
Domanda: perché perdonare?
Per essere buoni?
Per crederci migliori degli altri?
può anche essere, ma non è sufficiente…
Per non perdere i rapporti? ci sta, ma non è sufficiente…
Per far contento qualcun altro?… Per filantropia?
Perché perdonare? La risposta la troviamo nella parabola che ci ha raccontato Gesù: perché così fa Dio con noi, e se Dio ci ama nella forma del perdono, anche noi dobbiamo perdonarci gli uni gli altri. Lo scrittore Alessandro DʼAvenia dice che il perdono è la misura più alta dellʼamore: più sei capace di perdonare più stai amando veramente; meno sei disposto a perdonare; più stai amando te stesso e il tuo egoismo.
Qual è la chiave per entrare in questa logica: ce la spiega ancora la parabola: smetterci di sentirci creditori verso Dio e il mondo intero; al contrario imparare a sentirci in debito verso Dio e verso gli altri. In particolare nel rapporto con Dio dobbiamo arrivare a pensarci non solo debitori nei suoi confronti, ma anche che questo debito è così grande che non lo estingueremo mai con le nostre forze. Sarà lui a estinguerlo. Quando Dio ci guarderà negli occhi e saremo faccia a faccia con lui non farà i conti con la calcolatrice ma conterà a partire dalla ricchezza del suo cuore. Questa si chiama misericordia divina.
Perdonare non è facile; perdonare non è immediato; richiede un lavoro su di sé e tanta preghiera; perdonare non è prima di tutto e soprattutto un sentimento ma una decisione libera, scelta e molte volte sofferta. Perdonare, per noi umani non coincide con il dimenticare tutto, togliere cicatrici che non possono essere eliminate. Perdonare significa dire a noi stessi e agli altri: hai diritto ad un’altra possibilità, ad un’altra occasione per far vedere a te stesso e agli altri che non sei il male che hai fatto. E provo a perdonarti perché io stesso, ogni giorno, mi riconosco come un peccatore perdonato, come un figlio amato a cui il Signore continuamente usa misericordia.
Se non arriviamo qui, sarà veramente difficile imparare il perdono. In alcuni casi non ce la facciamo con la sola nostra umanità o forza di volontà. Cʼè bisogno dellʼaiuto e dellʼesempio di Dio nei nostri confronti. Chiediamo questa grazia al Signore.
XXIII domenica del T.O. – anno A – 2020 Mt 18,15-20
La parola di Dio di questa domenica è tratta dal discorso ecclesiale che troviamo nel vangelo di Mt al capitolo 18esimo; siamo nella seconda parte dellʼinsegnamento di Gesù e qui troviamo un tema un poʼ ostico, un poʼ difficile da accettare, soprattutto per noi, immersi in una cultura individualista ed egocentrica… qual è questo tema? Eʼ la correzione fraterna.
Per capire lʼinsegnamento di Gesù dobbiamo far riferimento alla prima parola con cui si è aperto il vangelo: se tuo fratello commette una colpa: tuo fratello. Occorre che ci riscopriamo fratelli, cioè tutti sullo stesso piano… che fatica… di solito ci guardiamo dallʼalto al basso… invece, ci dice il Signore siete tutti fratelli perché figli dellʼunico Padre, Dio.
Seconda osservazione: se correggo mio fratello, non è per criticarlo ma per aiutarlo. Se lo correggo è perché gli voglio ben e ci tengo a lui. Una delle cose più brutte e odiose nei rapporti è lʼindifferenza… Quante volte ci è capitato di dire, anche alle persone più care: “ma rangès, fa chèl che ta gà nèt vòia!”
Qual è lʼ”ultima spiaggia”, lʼultimo passaggio, al di là del quale non si può andare? La libertà della persona umana: se un fratello, decide, in coscienza di non voler più niente a che fare con me o con la comunità cristiana, scelta sua. Tutto viene rimesso alla coscienza del singolo e al suo rapporto con Dio (solo però quando si è tentato il tutto per tutto).
Questo vangelo ci invita a riflettere sui rapporti che abbiamo nella comunità: sono rapporti fraterni, aperti, sinceri, leali, diretti, collaborativi… oppure instauriamo rapporti formali, superficiali, distanti, peggio ancora viscidi, doppio giochisti (mai giocare sulle parole!), rapporti in cui emerge lʼinvidia, il sotterfugio, la chiacchiera gratuita, il pettegolezzo; la calunnia, lo sparlare alle spalle degli altri… Non si costruisce la comunità in questo modo; anzi, la comunità si distrugge…
E infine, dal vangelo di oggi, impariamo anche a relazionarci bene… e come si fa?
- Imparando ad ascoltarci;
- Imparando a prendere la parola quando è necessario e non tenerla per ore (pensiamo alle nostre riunioni…);
- Imparando, quando prendiamo la parola, ad essere sintetici e chiari;
- Eliminando il presupposto: io possiedo la verità e gli altri non capiscono niente;
- Quando si è insieme e si sta pensando insieme, non mettere al primo posto sempre gli interessi particolari, miei o di un gruppo, ma avendo ben presente lʼinteresse comune.
Chiediamo al Signore di aiutarci a vivere dei rapporti e delle relazioni che abbiano come fondamento e come orizzonte lʼamore vicendevole, che si esprime anche e soprattutto nel perdono e nella correzione fraterna.
XXII domenica del T.O. – anno A – 2020 Mt 16,21-27
Anche in questa domenica la liturgia della parola ci presenta la figura di Pietro e il suo rapporto con Gesù. Ma se domenica scorsa abbiamo trovato un Pietro sicuro di sé, illuminato dallo Spirito Santo, forte nella fede del Signore fino ad arrivare a riconoscerlo come il Cristo, il Figlio di Dio, la continuazione del vangelo di domenica (siamo al capitolo sedicesimo di Matteo), ci rivela un Pietro che sbaglia, un Pietro che non ha capito niente; un Pietro che vuole costruirsi un Gesù a sua immagine e somiglianza e non ascolta più il maestro. Pietro perde la bussola (che è la parola di Gesù) e soprattutto non accetta che Gesù si riveli come Messia sofferente, peggio ancora, Messia sconfitto. Pietro vuol far fare a Gesù quello che vuole lui perché non accetta lo scandalo della croce. Gesù è duro con lui, lo rimanda al suo posto e lo richiama alla sequela: “guarda che devo star davanti io, non tu, altrimenti le cose non funzionano…”.
Pietro oggi, uomo fragile, ci insegna ad accettare i nostri errori, i nostri sbagli, i nostri peccati e provare a ripartire con lʼaiuto di Dio.
Quanto è difficile accettare i nostri errori…
Quanto è difficile entrare nellʼottica che possiamo sbagliare;
quanto è difficile accettare che anche gli altri sbaglino;
e quanto è difficile perdonare gli sbagli altri…
La forza di Pietro sta nel riconoscere il proprio peccato, la propria presunzione, la propria autosufficienza; nel piangerlo, nel chiedere scusa, nellʼessere perdonato. E il perdono di Gesù lo fa ripartire.
Pietro oggi capisce che amare è sempre un poʼ soffrire; che, per poter amare come Gesù bisogna passare dallʼesperienza del perdersi per ritrovarsi.
Pietro impara a spogliarsi di se stesso, delle sue certezze, delle sue sicurezze, per aprirsi alla parola di Gesù e fidarsi di lui.
Quante volte anche noi vogliamo metterci al posto di Dio; volgiamo decidere ciò che è bene e ciò che è male per noi e per coloro che amiamo… invece il Signore ci insegna la via dellʼascolto (ascoltare le persone, i fatti che ci accadono, le situazioni, le occasioni, le battute dʼarresto), per poter fare discernimento (come ci ha esortato san Paolo nella seconda lettura), cioè per poter, nelle cose che ci succedono, nelle conquiste e negli sbagli della vita, trovare la voce di Dio, trovare ciò che ci fa crescere, maturare, correggere; per migliorare, diventando sempre di più veri figli di Dio, e non solo per sentito dire o per etichetta incollata addosso.
XXI domenica del T.O. – anno A – 2020 Mt 16,13-20
Cari fratelli e sorelle, in questa domenica abbiamo ascoltato il vangelo di Matteo che ci ha narrato il primato di Pietro.
Pietro è stato scelto da Gesù quale roccia (kefa in aramaico) su cui fondare, costruire, erigere la sua Chiesa.
Pietro è stato scelto non per i suoi meriti personali (pochi), per la sua bravura (parliamone…), per i suoi talenti, ma perché è stato un uomo che ha imparato ad amare: di un amore generoso, impulsivo, viscerale, sincero, anche sofferto (pensiamo al suo tradimento).
Il primato petrino si rivela nella formula latina “primus inter pares”. Le funzioni di Pietro e dei suoi successori:
- Presiedere la Chiesa nella carità. Ciò vuol dire che Pietro deve vigilare affinché la Chiesa abbia come sola e unica missione quella di rivelare lʼamore di Dio per tutta lʼumanità e non altri interessi di tipo “mondano”…
- Creare, alimentare, sviluppare, far crescere la comunione nella Chiesa: impresa titanica se la pensiamo solo nellʼorizzonte umano; impresa possibile e auspicabile se la pensiamo nella logica dello Spirito Santo.
Mio parere personale, penso che oggi la persona e il ministero del papa stia felicemente ritornando al suo ruolo originario, evangelico. Il papa infatti oggi è riconosciuto come una guida spirituale a servizio della fede dei credenti e punto di riferimento per molti uomini di buona volontà.
Per questo e per quanto detto sopra, non possiamo dirci cristiani cattolici e fregacene delle parole del papa, qualunque successore di Pietro lo Spirito Santo abbia scelto per la sua Chiesa in un determinato periodo storico.
Ci è chiesta una cosa che a molti fa venire lʼorticaria: obbedienza, dal latino ob-audire, cioè ascoltare nel profondo, con coscienza critica, illuminata dallo Spirito e attraverso il magistero (insegnamento) del papa, far crescere la nostra fede.
Chiediamo questa grazia al Signore nella nostra preghiera e in questa Celebrazione Eucaristica.
XIX domenica del T.O. – anno A – 2020 Mt 14,22-23
Sono molto belle e interessanti le due letture che ci ha proposto la Parola di Dio di questa domenica, sia la prima lettura che il vangelo che ci ha narrato lʼepisodio della tempesta sedata.
Nella prima lettura, tratta dal primo libro dei Re, attraverso lʼesperienza del profeta Elia scopriamo che Dio non si rivela prima di tutto e soprattutto nei segni grandi, eclatanti, sorprendenti. Dio si percepisce in una brezza leggera, come a dire che la presenza di Dio, spesso, occorre saperla percepire. Dio non è immediatamente visibile ad occhio nudo ma per trovarlo occorre avere occhi, orecchi e cuore attenti e vigilanti. I segni grandi li vedono tutti; per scorgere i segni umili e semplici con i quali Dio si rivela occorre fare attenzione.
Nel vangelo troviamo Pietro, sulla barca, che vuole raggiungere Gesù che sta camminando sulle acque. Gli va incontro ma ad un certo punto sta per affondare perché il dubbio di non farcela lo assale. Infatti Gesù gli dice: “uomo di poca fede, perché dubiti?” (Mt 14,31).
Il dubbio fa parte del cammino di fede. Chi non ha dubbi crede più a se stesso che non a Dio. Tuttavia cʼè un dubbio, che viene insinuato dal diavolo dentro di noi, che può essere veramente pericoloso: è lʼidea, il pensiero, lʼipotesi che Dio non sia buono, non sia padre provvidente, non stia dalla nostra parte, non sia un “Dio vicino”, insomma, non ci voglia bene. Questo dubbio può essere devastante; su questo non dobbiamo MAI dubitare! Mai dubitare della bontà di Dio, anche e soprattutto in mezzo agli znunami, alle tempeste, alle burrasche che la vita ci riserva: “Coraggio, sono io – ci sono, non abbiate paura!” (Mt 14,27).
XVII domenica del T.O. – anno A – 2020 Mt 13,44-46
Cari fratelli e sorelle, anche in questa domenica Gesù ci parla attraverso due semplici parabole, (sarebbe meglio chiamarle similitudini), due immagini che vogliono farci riflettere sulla nostra vita di credenti e di esseri umani, cittadini, abitanti di una porzione di territorio, che provano ad avere uno sguardo ampio sul mondo e sulla società in cui viviamo.
Le due metafore parlano di un tesoro nascosto e di una per la preziosa: due oggetti di grande valore, il cui acquirente è disposto a vendere (nel vangelo troviamo addirittura il verbo “perdere”) il suo intero patrimonio per impossessarsene.
Cosa ci vuol dire il Signore con questa immagine? Gesù ci sta provocando su una delle domande fondamentali della vita: “qual è la tua perla preziosa? Qual è il tesoro che custodisci gelosamente? Quali sono i tuoi valori? Su cosa e su chi stai fondando la tua vita? Che cosa per te è prezioso, vale la pena di essere protetto costi quel che costi?
Eʼ la domanda delle domande, domanda tosta, perché dalla risposta che ne diamo orientiamo tutta la nostra esistenza.
Unʼesistenza che deve avere un baricentro, un perno, un fondamento… altrimenti continuiamo a correre, ad affannarci, a stancarci senza mai sentirci “a casa”, in pace con noi stessi.
Questa domanda penso sia affiorata in molti di noi nei mesi della pandemia, dove abbiamo sperimentato la paura, il senso di smarrimento, il vedere diversi parenti, conoscenti e amici soffrire e non poter far nulla per loro, lontani dai loro affetti.
Carissimi, non disperdiamo ciò che abbiamo vissuto e in ciò che abbiamo vissuto andiamo in cerca della perla preziosa. Eʼ lʼunico modo per non disperdere e non vanificare ciò che nella fragilità e nella prova ci è stato insegnato (è molto bello questo verbo: in-segnare: scrivere in maniera indelebile, scrivere nei cuori).
Un ultima provocazione che ci viene sempre dalla parola di Dio, in particolare dalla prima lettura che abbiamo ascoltato è rappresentata dalla figura di Salomone, re di Israele.
Salomone, quando viene chiamato da Dio a regnare sul suo popolo è poco più che un ragazzo. Ha ancora un animo semplice, buono, retto, libero dai condizionamenti e dalle imposizioni della vita. Dio gli dice: “chiedimi ciò che vuoi e io te lo concederò”. Salomone non chiedere ricchezze, onori o prestigio personale, chiede un cuore docile per poter svolgere la sua missione”. Dio rimane meravigliato di questa richiesta e gli concede un tesoro inestimabile, una perla preziosa: gli regala un cuore saggio, prudente e intelligente. Da quel momento Salomone sarà ricordato per sempre come il più grande re di Israele: “uno come te non ci fu prima né sorgerà dopo di te”, gli dice Dio.
Cari amministratori del bene pubblico, in questi giorni sono state liberate molte risorse per far ripartire il nostro Paese.
Lʼoneroso compito e lʼimpegnativa e avvincente sfida (lo sapete bene) sarà di utilizzare saggiamente questi aiuti economici, con oculatezza e con prudenza, come fa un buon padre di famiglia, investendoli su ciò che veramente vale e può migliorare la vita dei cittadini. Si può fare… noi, nel nostro piccolo, ne abbiamo avuto una felice prova e non possiamo che ringraziare per la fattiva collaborazione, nel rispetto dei ruoli, a vantaggio, di tutta la collettività.
Se nei prossimi anni riuscirete a fare questo la gente ve ne sarà grata e i valori repubblicani e democratici, sostenuti e radicati nei valori evangelici, non si trasformeranno più in parole sbiadite ma ritorneranno ad essere, anche e soprattutto per le giovani generazioni, perle preziose e scrigni aperti per tenere viva la memoria, per vivere lʼoggi e per progettare un domani che abbia il gusto della promessa, di dare, a tutti, la propria possibilità, lʼoccasione per provarci, per rendere migliore il territorio che abitiamo e, a cascata, il mondo intero.
XVI domenica del T.O. anno A – 2020 Mt 13,24-43
La liturgia di questa domenica ci presenta unʼaltra parabola di Gesù di stampo agreste, agricolo.
Gesù oggi ci lancia il suo messaggio attraverso lʼimmagine del grano e della zizzania. Il campo in cui vengono seminate queste piante è simbolo del mondo; il grano buono è simbolo del bene (ricordiamoci la parabola di domenica scorsa del seminatore), mentre la zizzania è simbolo del male.
Tra lʼaltro lʼimmagine della zizzania è molto azzeccata, perché la zizzania (le erbacce) ci fa venire in mente disordine, confusione, caos… una pianta insidiosa, pericolosa, capace di soffocare il seme buono. Pensiamo anche al proverbio “seminare zizzania”… Eʼ unʼimmagine che si sposa bene con quella del serpente, simbolo del male.
La prima domanda (molto impegnativa) che ci poniamo è la seguente: perché il male nel mondo? Proviamo a darci due riposte, una più teologica, una più antropologica.
La prima è perché, come esiste una sorgente di bene (Dio), esiste anche una sorgente di male (il diavolo, satana, il tentatore, il separatore, il divisore, colui che mette confusione, disordine nel cuore umano).
La seconda risposta fa riferimento alla nostra creaturalità: siamo creature (occorre ricordarcelo), portiamo nel nostro DNA il timbro della fragilità, della finitezza, del limite.
Pensiamo alle malattie: la malattia ci dice che siamo esseri umani e in quanto tali, ci capita di essere in salute e ci può capitare di ammalarci… un ultima risposta sul perché del male del mondo è perché siamo stati creati liberi. Infatti, molto spesso, la maggior parte del male del mondo non la infila Satana ma proviene dagli esseri umani… se volessimo abbozzare una percentuale siamo 20 a 80….
Il secondo aspetto della parabola non fa riferimento al campo del mondo ma al campo del nostro cuore, perché dentro di noi convivono bene e male. Pensiamo a san Paolo, quando nelle sue lettere dice: “vorrei fare il bene e mi trovo a fare il male”.
Perché Dio non toglie la zizzania?
Due risposte: la prima ci viene ancora dalle parole di Gesù: perché non accada che, togliendo la zizzania, si sradichi anche il grano buono.
E poi, cosa non marginale, perché la zizzania può trasformarsi in buon grano. Dio infatti sa trasformare il male in bene; Dio sa trarre il bene anche dal male. Con questa certezza di fede andiamo avanti e cerchiamo di non avere paura di combattere la battaglia che è presente dentro di noi: togliere i semi di male perché i semi di bene non trovino impedimenti nella loro crescita.
XV domenica del T.O. anno A – 2020 Mt 13, 1-23 (forma breve)
Cari fratelli e sorelle, la liturgia della chiesa ci farà ascoltare per le prossime tre domeniche alcune delle parabole contenute nel capitolo tredicesimo del vangelo di Matteo. Iniziamo oggi con la parabola, molto conosciuta, del seminatore. Domenica prossima la parabola del grano e della zizzania, fra quindici giorni quella del tesoro e della perla preziosa.
Il protagonista della prima parabola è Dio, nellʼimmagine molto bella ed evocativa del seminatore. La prima caratteristica che balza allʼocchio è che questo seminatore non è tirchio, avaro, ma semina in abbondanza e, in prima battuta sembra non curarsi del terreno dove va a finire la semente. Dio non si stanca di seminare il bene nel mondo e lo fa senza risparmiarsi.
Cʼè una bella preghiera che dice così:
Semina, l’importante è seminare;
– poco, molto, tutto – il grano della speranza.
Semina il tuo sorriso perché splenda intorno a te.
Semina le tue energie per affrontare le battaglie della vita.
Semina il tuo coraggio per risollevare quello altrui.
Semina la tua passione, la tua fede, il tuo amore.
Seminale più piccole cose, i gesti più semplici.
Semina e abbi fiducia:
ogni chicco arricchirà un piccolo angolo della terra.
La seconda parte della parabola si concentra sui vari tipi di terreno che possono accogliere il seme. Eʼ lʼimmagine del nostro cuore, che, a seconda di come è messo, può accogliere o meno la Parola di Dio e farla fruttificare.
Una parte del seme cade sulla strada: è un terreno scivoloso, duro, impermeabile. Eʼ lʼimmagine di un cuore chiuso a riccio, sprangato, indurito… quante volte anche noi abbiamo chiuso il nostro cuore per paura, per non soffrire, per non contaminarci, per credere di restare al sicuro. Eʼ unʼillusione, perché solo un cuore aperto può essere felice.
Un’altra parte del seme cade su un terreno sassoso, dove con cera molta terra; un terreno poco profondo: la pianta germoglia, ma non avendo radici, si secca.
Gesù ci invita a stare attenti ai sassi di inciampo, a tutte quelle occasioni, situazioni, paure e fatiche che ostacolano e impediscono di accogliere ciò che ha realmente valore nella nostra vita.
Il terreno è poco profondo: immagine per dire la superficialità, la banalità, lʼincostanza, il disinteresse verso tutto ciò che riguarda le domande importanti della vita. Quanta gente ragiona in questo modo: “meglio non farsi troppe domande, così si vive meglio…” No, così vivi solo in modo superficiale e non sai di niente… in dialetto è come dire “lʼè cumʼè ciucià al scarnàs”. La banalità e la superficialità fanno perdere alle cose il loro valore e alla fine niente sa più di nulla… e ci ritroviamo degli eterni insoddisfatti…
Un’altra parte del seme cade su un terreno pieno di rovi: questi crescono e lo soffocano. I rovi, ci ha detto Gesù, impersonificano le nostre preoccupazioni mondane, le ipocondrie, i nostri blocchi mentali insieme alle seduzioni e alle ossessioni della ricchezza, che ingrovigliano la mente e il cuore.
Occorre non dar da mangiare a questi rovi, e possibilmente tagliarli perché non ci imprigionino in una morsa mortale.
Un ultima parte del seme cade su un terreno buono, ed essendo terreno buono, da frutto.
Signore, donaci un cuore accogliente, disponibile, libero, sincero, premuroso, appassionato, vivace, forte e tenace. Perché solo un con un cuore così sapremo accoglierti e accogliere. E qui, di solito, entrano in gioco i “ma”…
Eh ma… io non sono capace… è colpa della società in cui viviamo; è colpa del mio carattere; è perché sono fatto male…
Sono tutte scuse che addossiamo a tutto ciò che è esterno a noi! Se lo vogliamo, insieme allʼaiuto di Dio, possiamo diventare “terreno buono” e per piantare quei semi di bene che danno sapore alla nostra vita e arricchiscono il mondo. Chiediamo tale dono in questa Eucarestia.
XIV domenica del T.O. anno A – 2020 Mt 11, 25-30
Nel vangelo di questa domenica troviamo due inviti da parte del Signore Gesù.
Il primo riguarda la rivelazione di Dio. Dio non si rivela agli arroganti, ai superbi, ai “so tutto io”; Dio invece si rivela, si fa conoscere, ai piccoli.
Dobbiamo intenderci su chi sono questi piccoli: non sono tanto i bambini, come afferma la nostra cultura, ma sono in greco, gli ptocoi, potremmo definirli i mendicanti: coloro che hanno ben coscienza della propria povertà, dei propri limiti, delle proprie fragilità, del proprio vuoto interiore, della propria inconsistenza e gridano aiuto a Dio attraverso il gesto del tendere le mani, affinché qualcun altro le possa riempire.
Gli ptocoi sono anche gli umili, i puri di cuore, gli operatori di pace e di riconciliazione, i miti, coloro che non alzano la voce; coloro che non prevaricano sugli altri; coloro che, se necessario sono disposti a pagare di persona affinché la verità si manifesti.
Se vogliamo incontrare Dio dobbiamo coltivare questo atteggiamento interiore, altrimenti incontreremo un Dio che non è il Dio vero che ci ha rivelato Gesù ma una caricatura, un immagine che ci siamo costruiti a nostra immagine e somiglianza, una proiezione del nostro “ego”.
Il secondo invito del Signore riguarda tutti noi che a volte (spesso) siamo stanchi, oppressi e spossati. Da me, dice il Signore, troverete riposo. Che cosʼè il riposo? Bella domanda! Non è il dolce far nulla (quello si chiama ozio); non è evadere dalla vita quotidiana, ma è ritemprarsi, rigenerarsi, ravvivarsi… per questo un vero e sano momento di riposo può e deve essere la messa domenicale.
Cari fratelli e sorelle, viviamola così la messa della domenica: come un incontro riposante, rigenerante, ristorante con Colui che può lenire le nostre fatiche, consolare i nostri dolori, com-patire le nostre sofferenze e stanchezze. Affidiamole al Signore.
XIII domenica del T.O. anno A – 2020 Mt 10, 37-42
Il brano di vangelo di questa domenica conclude il discorso missionario di Gesù ai discepoli, iniziato nel capitolo nono di Matteo.
Come succede in ogni discorso, pensiamo ad esempio alle convention politiche, il protagonista dellʼarringa da il meglio di sé nelle ultime battute, per sottolineare le idee più importanti del suo programma e per far breccia nelle teste dei presenti. Ma a Gesù non interessano le teste bensì i cuori.
Sono cosciente che questʼultima frase può suonare un poʼ strana di fronte a Gesù che ci dice: “Chi ama il padre, la madre, i figli più di me, non è degno di me”. Sembra che Gesù faccia lo spaccone; si sia montato la testa, abbia superato la soglia dellʼegocentrismo più esasperato. Eppure non è così, anzi è proprio il contrario.
Gesù non ci sta chiedendo di non voler bene ai nostri cari, ai nostri affetti più intimi, e non ci sta chiedendo neanche di relativizzarli o metterli in secondo piano, ma ci sta invitando a far sì che lʼamore umano prenda linfa e nutrimento dallʼamore divino, dal suo amore.
Perché amare Dio al di sopra di tutto e di tutti?
Perché Dio è lʼunico che può rendere eterno lʼamore. Allora se vogliamo che i nostri legami sappiano di eternità, da Lui devono partire e a Lui devono arrivare.
Poi Gesù continua su questa linea e arriva a dire di prendere la propria croce per essere degni di Lui. Il verbo greco è ancora più pregnante: utilizza infatti il verbo amare: “chi non ama (porta sulle spalle) la propria croce non è degno di me”. Ve la dico con una frase di un noto cantante, Ermal Meta: “sulla schiena trovi cicatrici; è li che puoi e devi attaccarci le ali”.
Infine la conclusione della prima parte: “chi avrà trovato (trattenuto, difeso) la sua vita la perderà, invece chi avrà perduto (donato) la sua vita per causa mia, la troverà”. Anche in questo caso una frase ci può aiutare: “lʼamore è vero quando decide di mettersi in pericolo”.
Nella seconda parte del vangelo tutta lʼattenzione Gesù la mette sul verbo “accogliere”. Un verbo bello, impegnativo ed esigente.
Per accogliere una persona, occorre una premessa fondamentale (altrimenti non può esserci vera accoglienza): per accogliere lʼaltro occorre fargli spazio; occorre che lʼaltro possa entrare nella mia vita; non ne sia un soprammobile o peggio uno zerbino da lasciare fuori dalla porta o da utilizzare in caso di necessità. Accogliere lʼaltro è mettersi a nudo, svuotarsi, rivelarsi. Accogliere lʼaltro è un rischio, una scommessa, una sfida. Ma la si accetta perché si vede nel fratello o nella sorella la rivelazione dellʼamore di Dio per noi, per me.
Un Dio che non ha paura di mettersi in gioco, chiedendo a ciascuno ospitalità e accoglienza.
XII domenica del T.O. anno A – 2020 Mt 10, 26-33
Il brano di vangelo di questa XII domenica ordinaria è composto da una serie di versetti tratti dal discorso missionario di Matteo che Gesù rivolge ai suoi discepoli. Interessante notare che lʼevangelista inizia a chiamare i dodici con il nome di “apostoli” cioè “inviati”, mandati nel nome di Gesù.
La prima caratteristica che balza allʼocchio è che, nel giro di poche parole Gesù ripete per tre volte “non abbiate paura”.
La paura è un sentimento ambivalente: da una parte è preziosa e necessaria perché attiva in noi quelle difese per far fronte ad un pericolo incombente; dall’altra parte la paura può diventare anche nociva, tossica, perché ci può paralizzare, bloccare, inibire. E’ da questo secondo tipo di paura che Gesù ci mette in guardia.
All’inizio del vangelo Gesù ci dice: “non abbiate paura degli esseri umani”. Marco Mengoni, qualche anni fa cantava: “credo negli esseri umani che hanno il coraggio di essere umani”. Dobbiamo smontare due pregiudizi: il primo sostiene la tesi per cui ogni persona che si avvicina sia un potenziale nemico, calunniatore, diffamatore, approfittatore; uno che voglia farci cadere e poi goda della nostra caduta. E il secondo è che le differenze (che pur ci sono, viva dio) sono un ostacolo, un pericolo da sconfiggere perché minano la convivenza comune. Pensiamo a tutto quello che è successo negli Stati Uniti in questi giorni… ancora oggi nel mondo tante persone vengono umiliate, sfruttate, derise, violentate, sottopagate per il colore della pelle. E ci si stupisce che, nel 2020, in America, che la Corte Suprema affermi che non si può licenziare una persona solo per la propria identità e orientamento sessuale. E noi… ci stupiamo…?
Dio ha creduto negli esseri umani, così, noi, suoi discepoli, dobbiamo fare altrettanto. No agli atteggiamenti difensivi o peggio razzisti; sì ad atteggiamenti fraterni e accoglienti.
Il secondo invito che Gesù ci rivolge è quello di non avere paura di chi ha il potere di uccidere il corpo ma non l’anima – v.28… esempio lampante in questi mesi è stato (ed è ancora, purtroppo) un minuscolo batterio, che, per fortuna in pochi casi gravi, ha avuto il potere di portare alla morte fisica. Ma ci sono altre morti ben più importanti da cui stare attenti: cʼè la morte spirituale, la morte interiore, la morte psicologica, la morte affettiva (il diventare anaffettivi). Da queste morti Gesù ci avverte di stare attenti: abbiate paura di coloro che hanno il potere di far morire lo spirito: è quella la morte più dolorosa e insopportabile: la vera nemica dell’essere umano.
Nella terza parte dei detti evangelici troviamo il perché del “non avere paura”: perché voi valete (v.31); “tu si que vales”.
L’essere umano, afferma Gesù, ha un valore in sé e non trae valore fuori di sé. Tu non vali perché hai una posizione sociale, un buon conto in banca, un buon lavoro, perché sei affermato, rispettato, considerato dalla società. Tu vali perché sei importante agli occhi di Dio e il tuo valore è dentro a ciò che sei. Nessuno deve avere il potere di togliere la dignità umana ad una persona, neanche la persona stessa.
L’ultima parola di Gesù suona un po’ strana; suona un po’ “occhio per occhio, dente per dente”. “Tu mi rinneghi? Anch’io ti rinnegherò davanti al Padre mio” (v.33).
Per capire bene dobbiamo far riferimento al verbo usato da Gesù: rinnegare, che vuol dire negare definitivamente; come quando dici ad una persona: “per me non esisti più”. Ecco che allora, e solo in questo caso, non è tanto Dio che si allontana da noi ma siamo noi che lo mettiamo fuori dalla finestra, neghiamo la sua presenza nella nostra vita. E siccome Dio rispetta la libertà umana, non è tanto Dio che ti rinnega quanto tu che gli dici di no. E di fronte a un no, convinto, cosciente, libero e definitivo, anche Dio non può far nulla e si deve arrendere.
Portiamo nel cuore questa Parola e proviamo a farla incontrare con la nostra vita. Ne usciremo rinfrancati.
CORPUS DOMINI 2020 Gv 6,51-58
Solennità del Corpus Domini, del corpo e sangue del Signore.
E’ una festa decisamente, marcatamente e specificamente cattolica, perché ribadisce l’importanza della presenza reale e salvifica dell’Eucarestia, del pane e del vino che, consacrati mediante l’annuncio delle parole dell’ultima cena e l’invocazione dello Spirito Santo, diventano il Corpo e il Sangue di Gesù. Per noi cattolici infatti l’Eucarestia non è solo un segno, un ricordo di un gesto lontano nel tempo, (come invece credono i protestanti).
E’ il momento più importante della messa, dove noi credenti dopo aver chiesto scusa delle nostre colpe e dopo esserci confrontati con la parola di Dio, accogliamo il grande dono di un Dio che sceglie di farsi “Emmanuele”, Dio con noi, Dio per noi; un Dio che cammina al nostro fianco come ha fatto nell’antico testamento con il popolo di Israele, come ci ha raccontato la prima lettura.
E, sempre facendo riferimento all’antico testamento, Dio si è fatto conoscere non in segni grandi e potenti, come terremoti, tzunami, sconvolgimenti di vario tipo, ma in una brezza leggera (1Re 19 – Elia), così Dio si rivela oggi ai suoi discepoli nei segni umili, poveri e semplici ma necessari del pane e del vino. Sono i segni della quotidianità e della gioia; sono i segni dell’umiltà (noi crediamo in un Dio umile), i segni della vita dell’uomo.
La seconda sottolineatura, su cui la Chiesa e noi credenti dobbiamo convertici – c’è ancora tanta strada da fare – la prendo dalle parole di papa Francesco: l’Eucarestia non è un premio per chi si sente giusto, a posto davanti a Dio ma un aiuto, un sostegno, una forza, un’energia interiore per chi sente peccatore e sente di aver bisogno di Dio (cari fratelli e sorelle, aver bisogno di Dio non è una bestemmia! E’ fede… mai vergognarsi di aver bisogno di Dio!). Se noi pastori riuscissimo a far comprendere, almeno un pochino questa verità, allora avremo fatto un buon servizio alla fede del popolo di Dio.
Terza e ultima sottolineatura: adorando e mettendoci in ascolto del corpo e sangue di Cristo, noi impariamo qualcosa dell’amore; impariamo ad amare; impariamo a nutrirci alla sorgente dell’Amore.
Saremo coscienti che la sproporzione tra l’amore di Dio per noi e il nostro amore umano è immenso, ma proprio per questo avremo un gran bisogno del primo affinché non si appiattisca, non si affievolisca, non si esaurisca il secondo.
Signore Gesù, presente e vivo in mezzo a noi, nel sacramento dell’Eucarestia, nutrici, sostienici, difendici, fai crescere la nostra fede affinché possiamo avere vita nel tuo nome. Amen.
SS. TRINITA’ – 2020 Gv 3,16-18
Dopo aver concluso il tempo pasquale con la solennità di Pentecoste di domenica scorsa, la Chiesa ci fa celebrare alcune feste che vanno al cuore della nostra fede cattolica: la Trinità questa domenica, il mistero Eucaristico (il Corpus Domini, domenica prossima) e infine il sacro cuore di Gesù.
La SS. Trinità è il grande mistero della nostra fede: siamo stati battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e la preghiera, i sacramenti e ogni azione che pone in essere la Chiesa, si invoca la SS. Trinità.
La prima caratteristica di questo mistero è che, per noi credenti, la Trinità non è un mistero sconosciuto, imperscrutabile, inaccessibile (come dice un canto molto bello musicalmente, ma le cui parole lasciano a desiderare – La creazione giubili).
Don Pierluigi Ferrari, nel suo libro “scherzi da prete”, in un passaggio, racconta di alcuni parroci anziani che, a pranzo, dopo la festa della Trinità, si scambiano alcune impressioni: “cùsa ghet dèc an predica?” “Ma làsa pèrt, fa mia la prèdica n’dal dè dà la ss.Trinità: sa capès nient, sa pol dì nient, ta èt andà l’ort e tà ègnèt fòra pö…”.
E’ l’idea della Trinità che aveva la teologia scolastica, medievale (quella di San Tommaso d’Aquino per intenderci), che tentava di spiegare il mistero di Dio con le categorie filosofiche… Scelta sbagliata!
La Trinità, il mistero di Dio, non si spiega con la filosofia, la metafisica, l’ontologia… ma con la rivelazione. Il nostro non è un Dio nascosto, ma rivelato (ecco cosa ci differenzia dalle altre religioni!): un Dio che ha voluto e deciso di farsi conoscere, un Dio che ha parlato, ha dialogato, si è messo in relazione con l’essere umano. Non l’uomo alla ricerca affannosa di Dio ma Dio che cerca noi!
Secondo passaggio: da questa relazione nasce, si rivela la comunione. Dio non è solo, ma cerca il legame, il rapporto, la relazione, dentro di sé (le relazioni che intercorrono tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo) e fuori di sé: Dio vuole entrare in relazione con noi: l’ha sempre fatto, continua a farlo e continuerà a farlo, perché il Dio cristiano, che ci ha rivelato Gesù, è fatto così. Una prova di questa comunione sono i santi: nel credo infatti affermiamo di credere nella “comunione dei Santi”, coloro che hanno accolto lʼinvito del Signore e hanno costruito la loro vita tessendo legami di fraternità.
Terzo passaggio: abbiamo detto che dalla relazione nasce la comunione, e la comunione genera vita. Se ci facciamo caso, sono anche i passaggi che caratterizzano ogni famiglia. Dio non è sterile ma prova gioia quando un suo figlio viene alla luce, ovvero inizia l’avventura della fede: “Dio ha tanto amato il mondo da inviare il suo Figlio, non per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di Lui” (Gv 3,17).
Cari fratelli e sorelle, il mistero della Trinità che oggi celebriamo e viviamo ci interpella, ci provoca e ci scuote: noi cristiani siamo chiamati ad essere il riflesso, la gioiosa e appassionata testimonianza del mistero del nostro Dio: se continuiamo a testimoniare il Dio dei filosofi, la gente continuerà a tenersi a debita distanza (e come dar loro torto); se saremo capaci, in famiglia, con gli amici, sul posto di lavoro, nella comunità di far vedere il vero volto di Dio, allora molti inizieranno a porsi domande, alcuni inizieranno a cercare e altri troveranno ciò che vanno cercando.
Noi, e solo noi, possiamo essere il vero impedimento o il “gancio” affinché altri fratelli e sorelle incontrino il Dio cristiano. Qualcuno diceva: “noi siamo l’unica Bibbia che la gente ancora legge”. Non è un problema morale, di coerenza, ma una questione di passione.
PENTECOSTE – 2020 Gv 14, 15-16. 23-26
Festa dello Spirito Santo, terza persona della SS. Trinità, legame di amore tra il Padre e il Figlio che viene donato a noi credenti in Cristo.
Abbiamo due narrazioni dellʼevento della discesa dello Spirito Santo sopra Maria e gli apostoli: la prima è quella narrataci dal libro degli Atti, poi abbiamo il racconto del dono dello Spirito nel vangelo di Giovanni, dove Gesù dona la pace e la remissione dei peccati. Questʼultima accadde il primo giorno della settimana, il giorno della risurrezione; la narrazione degli Atti invece avvenne cinquanta giorni dopo la Pasqua (da qui il nome Pentecoste).
Cosa accadde quel giorno? Gli apostoli erano riuniti nel cenacolo per paura dei giudei, dice il testo, venne lo Spirito Santo ed essi incominciarono a profetizzare in lingue nuove, che tutti potevano intendere. In quel luogo cʼera gente proveniente da tutto il Medio Oriente antico.
Come è possibile una cosa del genere? Che lingua hanno utilizzato i dodici per farsi comprendere da gente che proveniva da popoli, razze, culture e tradizioni diverse? Latino? Greco? Inglese? Cinese?
Nessuna di queste, bensì la lingua dellʼAmore, del perdono, dellʼaccoglienza, della gentilezza, dellʼascolto: la lingua parlata da Gesù e dallo Spirito Santo. Perché lʼamore è lʼinfinito messo alla portata di ognuno di noi (Roberto Benigni, Cantico dei Cantici).
Lo Spirito è forza vitale, è energia interiore, spirituale per la vita di noi credenti e per la vita della Chiesa.
Senza Spirito, oggi, Gesù sarebbe solo un mito, un personaggio del passato, un ricordo. Invece Gesù è presenza reale per coloro che credono in Lui.
Cosa fa ancora lo Spirito Santo? Due cose importanti:
- Ri-corda e in-segna ciò che Gesù ha detto e fatto nella sua vita terrena (v.26). La Bibbia diventa così non un testo morto, ma vivo. Lo Spirito ha il potere di rendere attuale la parola di Dio e farla diventare parola per me, per la mia vita, per la mia crescita, per costruire il mio futuro.
- Lo Spirito Santo mette insieme e valorizza le diversità, che non sono più un ostacolo, un limite, un motivo di divisione ma una ricchezza. Lo spirito infatti da valore ai carismi (alle qualità, ai talenti) di ciascuno per il bene di tutti.
Carissimi, lo Spirito non va in automatico: occorre chiederlo, invocarlo, pregarlo affinché ci regali la presenza di Gesù Risorto e i suoi doni. Lo facciamo attraverso questa celebrazione Eucaristica.
ASCENSIONE – 2020 Mt 28, 16-20
Con la solennità dell’Ascensione che oggi celebriamo e viviamo nella fede, si compie il mistero pasquale di Gesù: il Signore, risorto da morte, ritorna al Padre che lo aveva voluto e inviato come “Emmanuele”, Dio con noi, Dio per noi, un Dio a fianco del suo popolo.
Gli apostoli, tornati sul monte Sinai (il monte dei dieci comandamenti e della trasfigurazione, dove Gesù aveva rivelato il suo vero volto di Figlio amato), fanno esperienza di un distacco. E hanno paura. Non tanto dell’avvenimento in sé, quanto della paura del perdere colui che hanno amato, una persona a cui hai voluto bene. E’ anche la nostra esperienza, che tanti di noi hanno vissuto in questi mesi: la paura di perdere chi ami, i tuoi cari; la paura che attraverso la pandemia qualcuno della tua famiglia potesse ammalarsi e aver bisogno delle cure ospedaliere. Il simbolo di tutto questo è stato il suono imperterrito e incessante delle sirene delle ambulanze… E’ inutile negarlo: spesso viviamo come se fossimo degli automi, delle isole, autosufficienti in tutto, invece siamo legati gli uni gli altri e ci sosteniamo con l’amore che diamo che riceviamo.
La seconda parola che Gesù rivolge ai dodici è “andate in Galilea”. Interessante: Gesù non dice ai suoi di ritornare a Gerusalemme, nella capitale, nel centro politico e religioso del popolo ebraico. Dice loro di tornare nella Galilea delle genti, crocevia di popoli e di culture; dice loro di contaminarsi con i fratelli e le sorelle che sembrano distanti; con chi la pensa diversamente, mettendo nel loro cuore (questo significa in-segnare – scrivere dentro, in profondità) ciò che Lui ha comandato (le sue parole di vita), il suo stile, lo stile del vangelo.
Gesù ci invita: non abbiate paura di incontrare la gente che la pensa diversamente da voi; costruite ponti e non muri; datevi all’accoglienza, all’inclusione, all’integrazione (sono i verbi usati da papa Francesco nella Evangelii Gaudium per descrivere un rinnovato annuncio).
Terza e ultima parola: “guardate il cielo”.
In questo periodo non è stato facile guardare il cielo: intravvedere una speranza, uno spiraglio, una luce in mezzo al buio e alle tenebre che ci hanno avvolto.
Guardare il cielo per noi cristiani è necessario, è possibile, è auspicabile, è reale perché abbiamo un Dio che ci dice: “io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”. Dio è con noi attraverso il dono del suo Spirito.
Guardiamo al cielo: impariamo a cogliere, a mettere in pratica, a utilizzare bene e a non lasciare nel cassetto le nostre potenzialità, le nostre migliori energie, le nostre qualità. Sarebbe davvero un peccato… impoveriremmo noi e gli altri…
Guardiamo al cielo: impariamo a guardare le potenzialità e le qualità degli altri, relativizzando i difetti, gli errori e le mancanze.
Guardiamo al cielo: impariamo a scoprire le tracce di risurrezione che Dio ha lasciato in questo mondo.
Guardiamo al cielo: impariamo sempre più a scrutare i segni della bellezza; andiamo a stanarli, perché spesso non si vedono ad occhio nudo. Proviamoci. Con l’aiuto di Dio.
VI DOMENICA DI PASQUA – 2020 Giovanni 14,15-21
Siamo ancora nel tempo pasquale e la Chiesa ci fa ricordare e rivivere quel tempo in cui Gesù, già risorto, attende il suo ritorno al Padre (sarà la solennità dellʼascensione che celebreremo domenica prossima).
Il brano evangelico di questa domenica è la continuazione di quello di domenica scorsa, dove Gesù ci ricordava che, ritornando al Padre, ci prepara un posto.
Il Signore continua le sue esortazioni e ci invita: “se mi amate, osserverete i miei comandamenti”. Detta così, non sembra una frase felicissima: come fa lʼamore a esprimersi con unʼosservanza a dei comandamenti, a delle norme (che pensiamo come leggi esterne a noi, che ci vengono buttate addosso). Soprattutto oggi, in cui la cultura vede l’amore solo e unicamente e prima di tutto come un sentimento, unʼemozione, un qualcosa di non controllabile con la ragione umana ma solo come un istinto del cuore (niente di più sbagliato – lʼamore non è solo emozione, ma “dedizione”, se volessimo fare un gioco di parole), Gesù mette in relazione amore e comandamento. E siccome il Figlio di Dio non prende cantonate, dobbiamo rifletterci un pochino.
Come prima cosa diciamo che nella Bibbia la parola comandamento non esiste. Cʼè la parola “dabar” che significa “parole di vita”, parole che ti fanno vivere, che ti fanno crescere. Dio non manda ordini, imposizioni, divieti al popolo ebraico: Dio offre parole di vita affinché il popolo possa vivere bene, in pace con se stesso, con Dio e con i fratelli.
Ed è, ancora una volta, lʼesperienza umana dellʼamore che ci viene in aiuto: quando ami, stimi, vuoi bene ad una persona, quando questa comincia a parlare pendi dalle sue labbra: stai attento al suo lessico, ad ogni espressione, ad ogni silenzio; cerchi di capire cosa ti sta dicendo con le sue parole; le sue pause e i suoi silenzi, attraverso il suo tono di voce, la sua flessione, il suo timbro.
Se vuoi bene ad una persona, la ascolti, perché ti fidi di lei, sai che sta dicendo cose per il tuo bene, sia quando ti da dei consigli, quando ti elogia, è dʼaccordo con te; sia quando non è dʼaccordo con te, con le tue scelte, e magari ti corregge. Ma tu la ascolti, anzi, capita che la ascolti di più proprio in quei momenti… dove la sua parola lì per lì ti infastidisce, ma ti attrae… Così deve essere nella nostra relazione con Dio. Magari in questi giorni ho partecipato, assistito a tante messe del Papa… ma Dio l’ho ascoltato? Mi sono messo in relazione con Lui? Mi sono connesso con la sua Parola?
“Se mi amate, custodirete nel cuore le mie parole, perché sono parole di vita, parole che ti offrono l’occasione per crescere, per maturare, per diventare migliore”.
La seconda parola che il Signore ci rivolge è “non vi lascio orfani”.
Per tanti secoli la Chiesa e i cristiani (e non solo loro) si sono arrovellati su come possa essere l’inferno: Dante Alighieri ce l’ha dipinto alla grande, come pure Michelangelo nel capolavoro del Giudizio universale nella Cappella Sistina: gente dannata, diavoli di ogni tipo, fuoco, tenebre, sofferenza. Ma come sarà veramente l’inferno? Alcuni teologi del secolo scorso hanno dato un loro punto di vista: l’inferno non sarà un luogo ma uno stato: la solitudine, il sentirsi profondamente e tremendamente soli. E noi l’inferno lo sperimentiamo, anche qui sulla terra, quando ci allontaniamo da Dio, dagli affetti più cari; quando distruggiamo ciò che abbiamo faticosamente costruito.
Al contrario il paradiso è abbandonarci nelle braccia di un Dio che ci vuole bene… sperimentare la tenerezza di un abbraccio dato gratis, senza alcun merito. “non vi lascio orfani, non vi lascio soli”.
Scusa eh, ma se te ne vai, come fai a non lasciarci soli? Terza e ultima parola di Gesù: “vi mando il Paraclito, lo Spirito Santo”.
Paraclito: paracleo, lʼavvocato; il difensore, colui che ti difende da chi ti accusa, da chi ti fa del male, da chi ti vuol far cadere, sbagliare, peccare. Allora lo Spirito santo ci difende da noi stessi quando vogliamo fare di testa nostra; ci difende dai nostri vizi, dalle nostre dipendenze, dalle nostre paure, dai nostri egoismi, dai nostri istinti primordiali che ci portiamo dentro e che spesso non riusciamo a controllare e attraverso i quali ci facciamo del male e facciamo del male agli altri.
Gesù chiama lo Spirito santo lo Spirito della verità, che si contrappone allo spirito della menzogna, della falsità, dellʼinclinazione al male. Per san Giovanni la verità non è unʼidea ma unʼesperienza: lo Spirito come una forza, una luce interiore, profonda, tenace, che fa verità sulla nostra vita, smaschera le nostre false certezze, le finte sicurezze, sbugiarda le nostre convinzioni, per farci pro-vocare dall’imprevedibilità e dalla novità della parola del Vangelo.
Certo, lo Spirito santo non arriva a caso, non te lo spedisce Amazon con consegna gratuita; non te lo trovi in abbonamento su una piattaforma digitale. Lo devi chiedere, lo devi invocare, lo devi cercare: “se lo vogliamo, noi lo conosciamo, noi lo abbiamo, lo possediamo, perché figli di Dio: egli rimarrà presso di noi e sarà in noi e con noi”.
Occorre tirarlo fuori dalla valigia, dal baule, in soffitta, in quel posto dove lo abbiamo cacciato, per non dimenticarcene definitivamente. La festa dell’Ascensione, e soprattutto quell di Pentecoste ci aiuteranno in questa impresa, faticosa ma sicuramente fruttuosa.
V DOMENICA DI PASQUA – 2020 Giovanni 14,1-12
Il brano evangelico che abbiamo appena ascoltato è preceduto dall’annuncio che Gesù fa ai discepoli circa la sua morte in croce. Gesù anticipa il suo destino e gli apostoli sono turbati. Per questo dice loro: “non sia turbato il vostro cuore; abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” (v.2).
Questa parola il Signore la dice anche a noi, oggi, credenti profondamente turbati, scossi, disorientati da ciò che stiamo vivendo.
E poi arriva seconda parola consolante, luminosa, sicura e calda di Gesù: vado a prepararvi un posto. Vado a prepararti un posto. Un posto che è preparato per te e che non può essere occupato da nessun altro.
Cari fratelli e sorelle, siamo chiamati a credere a questo grande annuncio: nel cuore di Dio c’è un posto per ciascuno di noi.
Nel cuore di Dio c’è un posto anche per te, a prescindere dalla tua posizione sociale, economica, culturale; dal tuo credo religioso; dal tuo orientamento affettivo-sessuale;
Nel cuore di Dio c’è un posto anche per te, che pensi di meritare la salvezza con i tuoi sforzi e la tua bravura.
Nel cuore di Dio c’è un posto anche per te, che ti costruisci un posto a partire dalle tue fragili certezze e dalle tue deboli sicurezze;
Nel cuore di Dio c’è un posto anche per te, che pensi di aver sbagliato tutto nella vita;
Nel cuore di Dio c’è un posto anche per te, che ti vergogni perfino con te stesso dei tuoi sbagli, errori, peccati;
Nel cuore di Dio c’è un posto anche per te, che non riesci a perdonarti;
Nel cuore di Dio c’è un posto anche per te, che magari ti da fastidio che Dio sia così buono con tutti, perché il tuo metro di giudizio è un altro.
Nel cuore di Dio c’è un posto anche per te, che non riesci ad accettare una cosa del genere perché hai in testa il dio dei filosofi, il dio soprannaturale che fa guerra alla scienza (e viceversa);
Nel cuore di Dio c’è un posto anche per te, che non riesci o non vuoi accettare la sua paternità.
Come si fa ad arrivare al cuore di Dio? Come mi devo comportare? Cosa devo fare?
Domande sbagliate, o meglio, domande che vengono dopo. Ce n’è una che viene prima: chi devo accogliere? Da chi devo lasciarmi amare?
Perché allʼinizio dellʼesperienza di fede non c’è da fare un bel niente se non credere che Gesù è la via, la verità e la vita per arrivare a Dio, per conoscere il suo volto; per fare esperienza di Lui: “nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (v. 6).
I discepoli, come al solito, non capiscono: Tommaso la mette sul piano materiale: “se non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la strada?” mentre Filippo la fa facile: “mostraci il Padre e stop, non girarci troppo in giro”.
Gesù poi prosegue e insiste: “credete a me” (v.11), tutto il resto verrà di conseguenza: se credete in me, compirete le opere che io compio; anzi, ne compirete di più grandi.
Questa è la più grande prova che il Signore ci vuol bene veramente perché ci lascia liberi… liberi di compiere opere più grandi delle sue! Liberi di diventare ancor più grandi di lui in santità, in gesti di servizio, di attenzione, di perdono, di cura verso gli altri e verso noi stessi.
Eʼ, ancora una volta, la verità dellʼamore: quando vuoi bene veramente e sinceramente ad una persona non hai paura che essa diventi migliore di te; abbia più conoscenze di te; diventi più ricca e più talentuosa di te; abbia più successi di te. No, non sei invidioso di lei, ma gioisci per i risultati che essa è riuscita a raggiungere. Questa è la verità dellʼessere padre, madre, sposo, sposa, nonno, nonna, amico, amica.
Non un Dio acido, rancoroso, dalle braccia corte, ma dal cuore grande e dalle braccia spalancate, che soffre quando i suoi figli perdono la loro libertà e gioisce per la conquista della loro felicità:
“Credete in me e scoprirete il cuore di Dio; un cuore per il quale non dovete sudare sette camice per entrarvi, perché già lo abitate… non da ospiti, ma da figli amati”.
IV DOMENICA DI PASQUA – 2020 Giovanni 10,1-10
La parola di Dio di questa quarta domenica del tempo di Pasqua ci offre due immagini con cui confrontarci: lʼimmagine di Gesù come pastore e come porta delle pecore.
Sono due immagini che a noi, uomini post moderni non dicono molto (anche perché di pastori e di greggi, purtroppo, anche nelle nostre zone, ne vediamo pochi) ma pensiamo allʼepoca di Gesù, dove ogni persona si imbatteva quotidianamente con queste figure, con questo ambiente.
Gesù utilizza lʼimmagine del pastore per rivelare ai suoi ascoltatori che il Padre è colui che si prende cura dei suoi figli. Prendersi cura significa che gli altri sono “tuoi”; non ti sono estranei. Prendersi cura significa che gli altri sono il tuo orgoglio, il tuo vanto, la tua croce ma anche la tua gioia.
Eʼ quello che sperimentano tanti papà e mamme quando guardano i loro figli; è quello che sperimentano tanti educatori, insegnanti, professori quando guardano i loro alunni; è quello che sperimentano tanti bravi imprenditori quando si relazionano con i loro dipendenti…
Il pastore ha un rapporto “simbiotico” con le sue pecore; si riconosce in esse, le protegge, le difende, ha a cuore la loro vita. Così fa Gesù con ciascuno di noi: Lui, dice san Giovanni è il nostro avvocato presso il Padre (1Gv 2,1), a Lui ci possiamo affidare e di lui ci possiamo fidare, Lui ci vuole bene e vuole il nostro bene. Se dentro di noi abita questa certezza, nessuna tempesta, nessuno stravolgimento, nessuna battuta dʼarresto potrà essere definitiva.
Il contrario del pastore è il mercenario: fa qualcosa per ricevere in cambio qualcos’altro. Non fa niente gratis. Gesù è pastore perchè ci ama gratuitamente: non sta a vedere se siamo buoni, bravi, perfetti; se ricambiamo il suo amore. Dio ci vuol bene e grazie a questo voler bene gratuito, ci rende migliori.
Eʼ l esperienza che facciamo tutti nella vita: quando troviamo qualcuno che ci vuol bene così come siamo, ci sentiamo immensamente felici e non abbiamo più bisogno di altro. E intuiamo che le persone che ci vogliono bene così, sono un riflesso della bontà di Dio.
Unʼaltra caratteristica del pastore è quella che egli si sente responsabile di ogni sua pecora. Se serve, se la carica sulle spalle e arriva a donare la vita per lei.
Tanti dicono che la parola responsabilità lʼabbiamo dimenticata per strada. Penso che non sia così. Vedo tanta gente che si sforza di essere responsabile dellʼaltro che gli è stato affidato. Eʼ molto bello vedere, anche nei nostri giorni incasinati e travagliati, giovani che accettano la responsabilità dicendo sì alla costruzione di una famiglia, alla nascita di un figlio, nel mondo del lavoro; oppure mettendosi a servizio di una comunità di fede come preti o come amministratori nella comunità civile.
Responsabilità deriva dal verbo “respondeo”, rispondere.
Responsabilità significa caricarsi dellʼaltro perché lʼaltro possa essere felice. E facendo questo, ci riscopriamo felici noi. Eʼ lʼesperienza di tanti. Eʼ lʼesperienza di noi credenti, che siamo chiamati a vivere la nostra vita come una risposta ad una promessa di felicità.
Allora ecco che lʼimmagine del pastore che ci ha rivelato Gesù non ci è estranea. Gesù non chiama solo il papa, i vescovi, i preti a diventare pastori. Tutti siamo chiamati a diventare pastori: a prenderci cura gli uni degli altri, rispondendo allʼappello che ogni essere umano mi rivolge.
Vi lascio un consiglio: quando chiudiamo una giornata, ci può capitare (e a molti capita spesso) di essere presi dallʼansia, dalle preoccupazioni, dalla paura delle nostre fragilità, dal pensiero di non farcela a sopportare tutto quello che ci viene buttato addosso.
Cʼè una preghiera che ci fa sentire in mani sicure, che ci fa sentire “come un bambino in braccio a sua madre; così è lʼanima mia”, dice il salmo 131,2. Se pregata con fiducia, fa miracoli (… testata da milioni di credenti nel corso dei secoli):
Salmo 22:
Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce.
Rinfranca l’anima mia.
Mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome.
Anche se vado per una valle oscura,
non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza.
Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo; il mio calice trabocca.
Bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
e abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghissimi anni.
III DOMENICA DI PASQUA – 2020 Luca 24,13-35
Il vangelo che ci è stato proposto dalla liturgia di questa terza domenica di Pasqua è una grande e bella catechesi che san Luca rivolge ai destinatari del suo vangelo che stanno muovendo i primi passi nella fede cristiana.
Anzitutto troviamo due discepoli di ritorno da Gerusalemme. Il primo si chiama Cleopa, del secondo non sappiamo il nome. Eʼ una tecnica letteraria attraverso la quale ciascuno di noi si può riconoscere in questo discepolo. Questi due uomini sono tristi, sconsolati, delusi, per come si è conclusa la vicenda terrena del loro maestro: Gesù di Nazareth, grande profeta, considerato un rabbi dalla gente, è stato ucciso e ha subìto una cocente sconfitta: la morte in croce.
Interessante e carica di significato lʼesclamazione: “noi speravamo… e invece… sono passati tre giorni… nulla” (v.21).
Anche noi, nel cammino della vita abbiamo sperimentato e sperimentiamo gli stessi sentimenti: la delusione provocata da una persona amica; il tradimento di un familiare; la pesantezza di una situazione lavorativa; le incomprensioni nelle relazioni; il nostro trovarci faccia a faccia con le nostre fragilità e quelle degli altri; la fatica nel perdonare e nellʼaccogliere il perdono; lʼincomprensibilità di una malattia; la perdita di speranza di fronte al futuro perché non si vede la luce in fondo al tunnel.
Gesù si avvicina (v.15). Eʼ molto bello il verbo utilizzato da san Luca: si fa compagno di viaggio. Tanta gente pensa a Dio secondo le categorie filosofiche occidentali: Dio come onnipotente, come motore immobile, come una sorta di superman capace di risolvere tutti i problemi. Questo non è il Dio cristiano, che ci ha rivelato Gesù. Tanti dicono: “credo in Dio!” Anche il diavolo ci crede…
Papa Benedetto XVI nella sua prima enciclica “Deus Caritas Est” al n.1 diceva bene questo: All’inizio dellʼesperienza di fede non c’è una decisione etica o una idea filosofica, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva.
Gesù ci ha fatto conoscere un Dio vicino, un Dio compagno; un Dio con noi, Emmanuele è il suo nome. Un Dio che toglie il peccato del mondo non perché lo elimina in modo automatico, istantaneo, come si elimina un messaggio sul cellulare, ma un Dio che prende su di sé il peccato del mondo e lo trasforma in energia di amore, proprio perché lo porta sulle spalle e non lo lascia per strada.
Quante volte anche noi abbiamo avuto la fortuna di trovare una persona, un amico, un compagno di viaggio, lo stesso coniuge che si è avvicinato a noi quando tutto stava andando storto e non cʼera nessun motivo per avvicinarsi. La sua presenza ci ha scaldato il cuore; lo ha rimesso in moto. La sua parola, i suoi consigli, i suoi silenzi, la sua capacità di ascolto ci ha fatto vedere le cose in modo diverso e grazie a questo abbiamo riletto la nostra vita in modo differente. Dice il vangelo: “Gesù si avvicinò ai discepoli e spiegò loro tutte le Scritture e ciò che si riferiva a lui”.
Poi Gesù spezza il pane (v.30). Il nostro grande tesoro è quello di poter trovare delle persone che “spezzano il pane con noi”, che con noi e per noi non hanno esitato a condividere la vita, le delusioni, le amarezze, le stanchezze, ma anche le gioie e le soddisfazioni.
Ultimo passaggio: infine Gesù sparisce dalla loro vista, da loro un bello spintone e dice: “andate e fate come io ho fatto a voi” (v.31).
Dio Padre, le persone che ci mette a fianco, i sostegni che troviamo lungo il cammino ad un certo punto ci dicono: “prendi in mano la tua vita; adesso tocca a te; adesso devi ripigliarti, devi risorgere; io non posso sostituirmi a te”.
Eʼ lʼora dellʼ”andare”, del riprendere il volo; del rimettere i remi in mare; è lʼora di riaccendere e di rifar partire i motori. Eʼ lʼora più dura e più impegnativa. Eʼ più facile restare dipendenti; farci assistere, delegare la nostra responsabilità agli altri. Ma la verità dellʼuomo è la sua crescita, la sua maturazione, il suo progresso: “partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme: lì lo trovarono”.
Questa narrazione/catechesi che ci è stata raccontata è la fotografia della santa Messa: Luca ci ha ricordato le parti dalle quali è formata lʼEucarestia. E celebrare lʼEucarestia è celebrare la vita. Che il Signore risorto ce ne dia sempre più coscienza, di quel luogo, di quellʼesperienza dove lʼamore parte e ritorna.
II DOMENICA DI PASQUA – 2020 Giovanni 20,19-31
Continuiamo a celebrare e a vivere la gioia della Pasqua: il vangelo che abbiamo appena ascoltato ce lo ha ricordato.
Due sono apparizioni di Gesù ai discepoli, narrateci dallʼevangelista Giovanni: la prima viene indicata con “lo stesso giorno”: è il giorno della risurrezione, il giorno di pasqua. La seconda avviene “otto giorni dopo”, sempre di domenica. I discepoli sono radunati in luogo chiuso, per timore dei giudei, ovvero per paura di fare la stessa fine del loro maestro.
Questa chiusura e questa paura ci fa venire in mente la situazione che stiamo vivendo da quasi due mesi: le nostre case sono per lo più “chiuse” per paura di un virus che attacca la nostra vita e la nostra salute.
Gesù appare agli undici e dice “pace a voi”! Questo saluto del Signore dobbiamo interpretarlo bene. Non è un semplice: “state tranquilli”… Non è solo resilienza: “tenete duro; andrà tutto bene”. Ma è “io ci sono; qualunque cosa accada io ti sono vicino; non sono Harry Potter con la bacchetta magica che ti risolve tutti i problemi, ma li condivido con te, li porto con te, li faccio miei e ti do la forza necessaria (lo Spirito Santo) per poterli guardare in faccia, affrontare, combattere e risolvere.
Proviamo a pensare a quelle volte che qualcuno ci ha annunciato questa parola: “qualunque cosa accada, io per te ci sono”. Magari le cose non sono andate per il verso che noi volevamo, tuttavia quella parola ci ha dato forza, ci ha fatto bene, ci ha messo in moto, ci ha dato coraggio (cor-actio = il cuore ha riniziato a battere).
Gesù ritornerà dopo otto giorni. Nella prima apparizione manca un discepolo, Tommaso; nella seconda Tommaso cʼè. Tommaso non vede, e dunque non crede. Poveretto, non ha tutti i torti: gli altri lo hanno visto, lui no.
Come fa Tommaso a fare esperienza della risurrezione? E qui sta la cosa interessante: deve stare con i discepoli, deve sperimentare la comunione. Gesù risorto si rivela nella comunione: “dove due o più sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20).
Gesù viene in mezzo a loro, la domenica! Tommaso deve esserci in quel giorno, in quel posto, insieme alla Chiesa, come ci ha riferito la prima lettura. Così è anche per noi: il Signore lo troviamo nella comunità dei credenti, riunita per celebrare la sua (e la nostra) risurrezione.
Noi cristiani, spesso e volentieri, abbiamo fatto della fede una realtà individuale. La fede come benessere spirituale: la prendo per quel che mi serve… accentuando un forte individualismo. Molta gente vive nel privato la propria fede… mmmm…. Se la mia fede è ridotta a un fatto privato, intimista, non è la fede che mi chiede Gesù; se la fede non mi porta ai fratelli, non è la fede pasquale.
In questa quarantena ci mancano gli altri, ci manca lo stare insieme, quei piccoli gesti che ci fanno star bene, che ci consentono di comunicare, di dialogare, di confrontarci con gli altri…
Gesù si manifesta nella Chiesa perché solo nelle relazioni (seppur complicate, incomplete, fragili) si manifesta lʼamore. Noi siamo chiamati a risorgere non per stare meglio, ma per amare, per servire, per imparare a perdonare, per dare senso al dolore e alla sofferenza (nostra e altrui)!
A che ci serve la risurrezione se restiamo gli egoisti di prima; gli irrisolti di prima… a ben poco…
E quando parliamo di Chiesa in questo caso, non ci riferiamo tanto allʼistituzione quanto, alla comunità di persone che credono in Gesù: gente che non si crede perfetta o peggio superiore agli altri, ma che, amata da Dio, prova a mettersi a servizio dei fratelli e delle sorelle, per condividerne la vita. Gente salvata, gente perdonata, gente amata gratis che inizia a vedere tutto e tutti con unʼottica diversa.
Altra domanda: come mai Tommaso non era con i discepoli il giorno della risurrezione? Egli è chiamato anche “Didimo” cioè “fratello”. Tommaso che è il fratello per eccellenza non sta con i fratelli. Il Signore ci attende anche in questa mancanza e ci dice: “renditi conto quanto gli altri ti sono necessari, importanti”: è lʼesperienza in questi giorni, a partire dai nostri cari che non riusciamo a vedere perché distanti.
Ecco allora il grande messaggio di Gesù risorto in questa domenica pasquale: “Quanto è bello e felice che i fratelli vivano insieme”, perché è lì che sperimenti la Pasqua, fatta di gioie, di croci, di tradimenti, di incomprensioni, di risurrezioni.
“Nessuno dice che sia facile, ma la promessa è che ne vale sicuramente la pena!”
V DOMENICA DI QUARESIMA – anno A – 2020
Propongo una Lectio Divina (impegnativa!) che potete scaricare qui: La risurrezione di Lazzaro (Gv 11,1-45)
IV DOMENICA DI QUARESIMA – anno A – 2020
Propongo una Lectio Divina (impegnativa!) che potete scaricare qui: La guarigione del cieco nato (Gv 9,1-41)
III DOMENICA DI QUARESIMA – anno A – 2020
Propongo una Lectio Divina (impegnativa!) che potete scaricare qui: La samaritana (Gv 4,1-42)
II DOMENICA DI QUARESIMA – anno A – 2020
Propongo una Lectio Divina che potete scaricare qui: La trasfigurazione (Mt 17,1-9)
I DOMENICA DI QUARESIMA – anno A – 2020
Propongo una Lectio Divina che potete scaricare qui: Le tentazioni di Gesù (Mt 4,1-11)
VII DOMENICA DEL T.O. – anno A – 2020
Il vangelo di questa domenica è la continuazione di quello di domenica scorsa, il discorso della montagna che Gesù propone ai discepoli come nuovo Mosè, come colui che interpreta e rinnova la Legge antica.
Gesù continua con delle antitesi, delle contrapposizioni che, in prima battuta sembrerebbero delle norme morali, in realtà non lo sono per niente. Sapete invece cosa sono? Sono un bel ‘selfie’ che Gesù si autoscatta. Gesù sta raccontando la sua storia, in particolare la sua passione, la sua sofferenza e morte in croce che di lì a poco dovrà affrontare. Arriviamo al cuore dell’esperienza di Cristo, dell’esperienza cristiana, della proposta evangelica.
Quello che Gesù narra sono una serie di atteggiamenti, meglio dire uno stile paradossale, umanamente sciocco, incomprensibile, ma che, alla fine, non ti fa perdere, o meglio ancora, ti fa trovare la felicità che vai disperatamente cercando. Gesù ci sta dicendo: “vuoi vivere da persona non rabbiosa, non incavolata col mondo, non rancorosa, non astiosa, non vendicativa, non ammalata di vittimismo e ingolfata di recriminazioni? Fai come faccio io e sarai felice, e vivrai bene”.
Ma vediamo nello specifico le singole antitesi:
la prima fa riferimento alla cosiddetta “legge del taglione”: occhio per occhio, dente per dente (v.38). Una legge della Torah che aveva lo scopo di ristabilire la giustizia infranta e che aveva come base il principio della proporzionalità: ad ogni atto subìto doveva corrispondere un equo risarcimento. Si voleva limitare la vendetta, contenere la violenza. Gesù direbbe: è un pochino… vi accontentate di poco…
Gesù ci invita a non opporci a chi ci fa del male. E lo fa con due immagini: lo schiaffo sulla guancia destra (v.39): è il malrovescio, il gesto del disprezzo. Gesù ci invita a non corrispondere alla violenza dell’altro.
La seconda immagine: se ti portano in tribunale e ti vogliono togliere la tunica tu lascia anche il mantello (v.40): il mantello non lo si levava a nessuno, perché era il simbolo della dignità del povero (con il mantello, ci si scaldava, diventava coperta per la notte…). Gesù ci invita a cedere, a perdere anche i nostri diritti acquisiti, fondamentali.
Terza immagine: fare due miglia al posto che uno (v.41). Gesù sta parlando della legge sulla schiavitù che impediva allo schiavo di fare un miglio di tragitto con carichi pesanti. Gesù ci invita a portare i pesi, i fardelli, le umiliazioni, le violenze che ci butta addosso l’altro. Gesù sta parlando del giusto innocente, giudicato, perseguitato, violentato e ucciso.
Poi Gesù, nella seconda parte del vangelo passa a parlare dell’amore: se ami chi ti vuole bene cosa fai di strano, di straordinario: lo fanno anche gli altri, anche gli altri ci riescono, (magari a fatica… )
Gesù ci esorta ad amare il nemico (v.44): una cosa che sembra umanamente impossibile! … Impossibile presso gli uomini, ma non per chi abita presso Dio! (Mc 10,27)
Chi è il nemico? il nemico è colui che mi sta accanto; mio marito, mia moglie, i miei figli, i miei parenti, il mio capo o il mio collega di lavoro; il mio amico: colui che mi tratta male, che mi ferisce, che mi delude, che mi tradisce.
Chi ama veramente?
Primo: ama nella verità solo colui che impara a prendere su di sé il male dell’altro. Chi di noi ha fatto esperienza dell’essere (e del sentirsi) veramente e profondamente amato è stato amato quando ha sbagliato: “amami quando me lo merito meno perché sarà il momento in cui ne avrò più bisogno”.
L’amore sa andare oltre ogni giustizia (e oltre ogni ingiustizia) e nessuno di noi si salva se il parametro con cui siamo giudicati è solo la giustizia. L’amore va oltre ciò che è giusto. Per questo per noi cristiani l’amore prende il nome di “misericordia”.
Secondo: ama veramente solo colui che diventa capace di un atto gratuito, autentico, incondizionato. Se non riesci a fare questo significa che non stai amando nella verità. Afferma don Fabio Rosini: Noi sperimentiamo l’amore solo quando varchiamo la soglia del diritto ed entriamo nella zona dell’ingiustizia che viene accolta, redenta e perciò sanata”. Perché ognuno di noi ha bisogno di essere amato “nemico”.
Questa cosa è opera umana? Impossibile! E’ opera di Dio: “affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli” (v.45). Dio mi ama lì dove non sono amabile. E più cresciamo nella vita spirituale più lo capiamo. Come Dio ci ama e come Dio ci tratta: “non ci tratta secondo i peccati, non ci ripaga secondo le nostre colpe”, dice il salmo 103. Il Signore è misericordioso e pietoso, lento all’ira e grande nell’amore. Amare come Dio ci ha amati: è la perfezione dell’amore. E’ questa la vita dei figli di Dio.
VI DOMENICA DEL T.O. – ANNO A – 2020 (Mt 5,17-37)
Il vangelo di questa domenica, molto lungo e ricco di spunti, è tratto dal discorso della montagna di Matteo, dove Gesù vuole evidenziare la novità del vangelo rispetto alla legge.
Anzitutto Gesù dice che non è venuto ad abolire la legge antica, la Torah, la legge di Mosè, ma a darne il pieno compimento, a coglierne il significato più profondo, a svelarne il cuore.
Gesù ci sta dicendo che, davanti alle norme che regolano il vivere civile e la vita di fede, non bisogna guardare tanto all’esteriorità, alla forma, ma occorre capirne l’intenzione, la verità che ci sta sotto. Infatti, questo vale per la vita cristiana, ma anche per il vivere civile: il fine non è l’obbedienza formale alla legge; il fine è il bene che raggiungi attraverso la norma. Per quello Gesù ci dice: “se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (v.20) ossia non avrete in voi la vita, non assaporerete la vera felicità nei rapporti, nelle relazioni, nel vivere con voi stessi e con gli altri.
Poi Gesù apre diversi files, accenna e tratta di alcuni argomenti:
il primo è quello che riguarda il quinto comandamento, il non uccidere. In positivo: semina la vita, semina la pace, coltiva rapporti buoni. Non si uccide solo fisicamente, si può uccidere anche con la lingua: accusando ingiustamente, parlando alle spalle, insultando, denigrando, calunniando… e poi Gesù ci dice: impara a ricucire i rapporti, sia se sei stato tu a strapparli, sia se sei stato tu a subire l’ingiustizia, l’affronto, l’attacco. Prova, impegnati ad essere un artigiano di riconciliazione; impara a perdonare e impara pure ad accogliere il perdono.
Secondo argomento: il sesto comandamento (che noi cattolici abbiamo erroneamente tradotto con “non commettere atti impuri”: nella Bibbia non c’è: c’è non commettere adulterio).
Ad-ulterare: falsificare, modificare, contraffare un rapporto.
Gesù ci invita e ci esorta: non è sufficiente che l’adulterio non sia consumato.
- Occhio al cuore! Tutto parte da lì e arriva lì. Il problema non è il comportamento in sé, il singolo atto, ma ciò che ti porta a compiere quell’atto, ad assumere quel comportamento…
- Il male di solito non si mostra mai come male, ma camuffato in bene. E soprattutto campa tante scuse a sostegno della propria tesi; si autogiustifica e si autoassolve. Relativizza tutto: “che male c’è?”
- Occhio a come guardi le persone: ci sono due modi per guardare la gente: da predatori (lo voglio/la voglio, deve essere roba mia), oppure da riceventi (ti accolgo come un dono… ricordiamoci che si prendono le cose e si accolgono le persone e non viceversa…)
Terzo argomento: il giuramento. Ai tempi di Gesù il giuramento nella vita di tutti i giorni era fondamentale perché tutta la vita civile si basava sul giuramento, che era la modalità principale con cui si stipulavano i contratti.
E poi l’ultima frase: il tuo parlare sia sì, sì, no, no; il resto viene dal male (v.37: Gesù non dice tutto il resto è vento, inconsistente… no no, dice, tutto il resto viene da Satana!)
Quante parole al vento, quante dietrologie, quanti oratori senza contenuto; quanto fumo e niente arrosto… Gesù ci esorta: sii sincero, sii leale, sii semplice nei tuoi ragionamenti, sii lucido nelle tue affermazioni; conta fino a cento prima di parlare, prima di ferire una persona, prima di pronunciare (o peggio giurare) il falso, prima di dare giudizi sommari e senza fondamento. E occhio che il male che semini, prima o poi, si ritorcerà su di te (tutto il resto viene dal male e ritorna al male).
In positivo: parla, ascolta, interroga sempre col tuo cuore; sii sempre in contatto con la tua coscienza: facendo così brillerà la tua luce, il tuo sale avrà sapore (in riferimento al vangelo di domenica scorsa), starai bene tu e farai star bene gli altri.
V DOMENICA DEL T.O. – ANNO A – 2020 (Mt 5,13-16)
In questa domenica Gesù ci offre il suo insegnamento attraverso l’uso di due immagini, due similitudini, due metafore, quella del sale e quella della luce: “siate sale, siate luce”!
Mi sa che oggi, a noi uomini moderni e post moderni queste due espressioni del Signore ci dicono ben poco; ma se andiamo ai tempi di Gesù, duemila anni fa, nella terra di Israele e in tutto il medio oriente antico il sale e la luce erano due tra gli elementi essenziali per la vita di tutti: dei poveri e dei ricchi; di chi viveva in città e di chi viveva nelle campagne.
Anzitutto il sale: all’epoca di Gesù non c’erano i frigoriferi né tantomeno i conservanti e dunque l’unico modo per conservare i cibi era il sale. E poi, altra caratteristica il sale non è un prodotto umano come può essere il granoturco, la pasta, il riso ecc… il sale lo trovi in natura. Fuori dalla metafora Gesù invita noi cristiani a dar sapore alla nostra vita e alla vita degli altri, non a partire da noi stessi (non siamo noi a produrre il sale), ma a prendere il sale che è il vangelo e a rendere salato, gustoso, saporito il nostro vivere quotidiano e le nostre relazioni.
Proviamo a pensare cosa significhi continuare a salare anche quando ti trovi a farlo per della carne scaduta o avariata (amare anche chi non se lo merita)… come la parabola del seminatore: “semina, non guardare al terreno, tu semina.. e se raccogli, bene, altrimenti nessuno ti toglierà la gioia di aver seminato…”
Poi la luce: ai tempi di Gesù non c’era la luce elettrica: quando tramontava il sole tutte le attività umane cessavano, si interrompevano (pensate che per millenni, all’inizio dell’era umana, gli uomini preistorici hanno vissuto nell’angoscia le ore notturne, perché avevano paura che il sole non potesse più sorgere il mattino seguente!) Ecco, vale la stessa cosa per il sale: noi non siamo luce; non siamo dei “soli” che irradiano luce e calore di luce propria, ma siamo chiamati da Dio ad essere come delle “lune”: astri che brillano di luce riflessa.
Proviamo a pensare cosa significhi illuminare anche chi vuol stare al buio: tu non ti sei impoverito (perché la tua riserva di luce è infinita); è lui che ha deciso di non arricchirsi…
Che bello questo invito del Signore: Dai sapore alle tue giornate, perché sai dove andare a prendere il sale per rendere salata la tua vita! Illumina, rischiara, scalda, perché sai qual è la fonte dell’energia luminosa che ti consente di vivere!
Quanta gente (putroppo) è ghiaccio e buio; ma quanta gente (per fortuna!) è sale e luce!
Alcuni esempi di questi giorni:
- Il medico cinese che ha dato la vita per mettere in guardia la popolazione dal Coronavirus;
- Il ragazzo malato di SLA che a Sanremo ha cantato il suo amore per la vita, attraverso uno schermo, con l’ausilio solo della vista;
- L’imprenditore che ha illuminato la vita dei suoi dipendenti, regalando il 50% del patrimonio aziendale.
- Il gesto di una imprenditrice milanese che ha messo in motto un intero paese per fare sciarpine e guantini per i koala e i marsupi per i canguri dell’Australia (si può voler bene agli uomini e anche agli animali… le due cose non si oppongono).
- Mia esperienza personale: la disponibilità, l’affabilità, la generosità di un impiegato comunale, che non fa solo il suo lavoro, ma lo fa con uno “stile”…
Sii sale, sii luce:
- per te stesso, quando perdi il gusto delle cose; quando fai esperienza di tenebra; quando si spengono le luci fredde e artificiali; quando ti capita di mangiare cibo insipido e poco nutriente.
- Per la tua famiglia; per i tuoi cari; per chi ti vuole bene;
- Sul posto di lavoro, attraverso la tua competenza, la tua professionalità, la tua passione, la tua onestà;
- Per gli altri; attraverso il volontariato, il buon vicinato, la prossimità, l’empatia, l’ascolto, il perdono;
- Nella Chiesa, nella tua comunità parrocchiale; dando il tuo unico e originale contributo, a partire dai tuoi talenti, dai tuoi doni, dalle tue qualità, dalle tue possibilità.
- Sii sale, sii luce, non nonostante, ma anche attraverso i tuoi difetti, i tuoi limiti, i tuoi sbagli e le tue ferite.
Gesù dice: “non ho bisogno di cristiani insipidi; non ho bisogno di discepoli tristi, insoddisfatti, pigri, annoiati, acidi, chiusi dentro le loro false sicurezze… ho bisogno di cartelli catarifrangenti, che indichino agli altri che è possibile vivere da persone saporite e saporose; che è possibile vivere da persone illuminate e illuminanti perché hanno scoperto la sorgente della vera luce e del vero appetito.
Anche perché occorre che ci ricordiamo e non ci dimentichiamo, che “comunque, fa buio presto… fa buio presto” (cit. di Enrico Nigiotti, Festival di Sanremo “Baciami adesso”).
IV DOMENICA DEL T.O. – ANNO A – 2020 (Lc 2,22-40)
Celebriamo la giornata mondiale per la vita, nella festa della presentazione di Gesù al tempio.
Questa festa che vede Maria e Giuseppe presentare Gesù al Padre per la sua purificazione e per la sua consacrazione, ci ricorda che la vita non è un prodotto umano; non è opera solo, unicamente, anzitutto e prima di tutto umana. La vita non te la dai, la vita la accogli.
Dice Massimo Recalcati: La vita viene alla vita sempre da un’altra vita, è da sempre, in questo senso stretto, il debito con l’Altro… La condizione del figlio definisce l’umano come una forma di vita che non può essere concepita senza considerare la sua necessaria provenienza dall’Altro. Questo significa che – nonostante quello che il nostro tempo sembra credere – nessuno mai può essere genitore di se stesso, nessuno mai può farsi da sé, nessuna vita è artefice della sua condizione.
Il secondo annuncio è che la vita, proprio perché è un dono, va custodita, va valorizzata, va fatta crescere perché ha valore in se stessa. Non ci devono assolutamente essere vite perse, vite scartate, vite senza senso, come ci ricorda spesso papa Francesco. La vita va amata e accompagnata, dal suo inizio (dal suo concepimento nel grembo materno) alla sua morte naturale (la Chiesa dice no all’eutanasia, perché quando una persona chiede di mettere fine alla propria vita, è sempre una sconfitta per tutti).
Detta in altro modo, ciascuno di noi ha valore in sé e non per quello che produce. Questo, per noi cristiani, deve essere un principio fondamentale e irrinunciabile.
Allora non esistono valori di destra, valori di sinistra, valori di centro. Esistono valori umani e valori cristiani che fanno bella la vita e che è giusto ribadire.
Terzo annuncio: la vita è importante ma non è l’assoluto; il termine, il traguardo, l’orizzonte dell’esistenza. Il fine di tutto è la vita eterna, è la piena comunione con noi stessi, con Dio, con gli altri. La vita allora diventa lo strumento per costruire questo orizzonte, questa mèta.
Pablo Picasso, grande pittore e scultore spagnolo del ‘900 affermava: Il senso della vita è quello di trovare il nostro dono. Lo scopo della vita è quello di regalarlo.
Chiediamo al Signore la grazia di saper rispondere a questa grande, unica, irripetibile vocazione.
Ultimo accenno: il Centro di aiuto alla vita, presente anche nella nostra diocesi. Nel 2019 il Centro ha accolto 120 mamme collaborando in rete con i servizi sociali, i consultori familiari e facendo riferimento ai vari enti erogatori di servizi presenti sul nostro territorio.
III DOMENICA DEL T.O. – ANNO A – 2020 (Mt 4,12,23)
Il vangelo di questa domenica ci presenta Gesù che dalla regione della Giudea, in Palestina, si sposta in Galilea, avendo saputo che Giovanni era stato arrestato dal re Erode. Penso che Gesù non abbia preso questa scelta per paura, quanto per poter esercitare liberamente la sua missione di annuncio del vangelo. Viene sottolineato, in questa breve espressione, il “passaggio di testimone”, da Giovanni a Gesù.
Dicevamo che Gesù si sposta in Galilea, presso la cittadina di Cafarnao, nella Galilea delle genti, come la definivano i profeti. Ai tempi di Gesù la Galilea, a differenza della Giudea era un territorio dove era presente un grande meticciato: un insieme di culture, di razze e di lingue diverse che avevano imparato a convivere insieme.
Con questa scelta l’evangelista ci fa sapere che Gesù non ha paura di contaminarsi con le altre culture, tradizioni, lingue diverse dall’ebraismo. Gesù non ha paura di confrontarsi con chi la pensa diversamente da Lui. Gesù è un uomo aperto, ecumenico: accetta, apprezza, promuove e valorizza la ricchezza dell’altro. E questo deve essere anche lo stile di noi cristiani. La chiusura porta all’ignoranza (non conoscenza), al sentirsi sempre sotto attacco, sotto pressione, presi dalla paura che l’altro ci porti via qualcosa. Ma se uno sa chi è, non teme l’incontro, il confronto, il dialogo. Il nodo della questione sta tutta qui: ad es., succede che quando siamo insieme a persone che la pensano tutte allo stesso modo, corriamo il rischio di sederci, di dare tutto per scontato; ci lasciamo andare all’abitudine, alla routine; mettiamo il pilota automatico e non ci chiediamo più i “perché”.
Al contrario, quando siamo in mezzo a gente che la pensa diversamente da noi, siamo stimolati, come direbbe san Pietro “a dar ragione della speranza che è in noi”; a ricordarmi perché credo; in chi credo, in quali valori mi riconosco. Dunque ogni differenza non è uno ostacolo ma una ricchezza e una pro-vocazione a chi voglio essere, chi voglio diventare, come voglio vivere.
Nella seconda parte del vangelo abbiamo letto la chiamata dei primi discepoli. Gesù dice ai primi apostoli: “venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini” (4,19). Quando ascoltiamo questo brano, mediamente la reazione dell’uditorio è: “oggi passo perché questo vangelo non mi riguarda; è per chi ha avuto una chiamata particolare dal Signore, come, per esempio, il sacerdozio”. E’ un pensiero sbagliato perché pescatori di uomini lo siamo tutti. Tutti siamo chiamati, consacrati e laici, a pescare la vita delle persone, cioè a incontrare la vita degli altri; a saperla condividere, “portando i pesi (e le gioie) gli uni degli altri” (Galati 6,2). Gesù ci chiama a trovare il positivo che c’è in ogni persona, a scovare il bello e il potenziale che c’è in ognuno di noi.
Per fare questo c’è tuttavia una condizione da cui non si può fare a meno: non puoi diventare pescatore di uomini se non accetti il rischio di gettare le tue reti in mare.
E se qualcuno proprio non dovesse sentirsela di essere “pescatore di uomini” e si senta solo pesce, lasciamo stare tonni, sgombri, sardine, pesci spada (tutta roba buona, per carità) ma cerchiamo di essere almeno salmoni, gente che nuota controcorrente, capace di annunciare, con la propria vita, qual è la sorgente del nostro amare, del nostro vivere, del nostro sperare.
II DOMENICA DEL T.O. – ANNO A – 2020
Dopo aver chiuso il tempo natalizio, la Chiesa, attraverso la pedagogia dell’anno liturgico, ci fa ritornare nel tempo ordinario. Penso che il Signore Gesù, in questo tempo, ci inviti a fare una cosa che sembra semplice e scontata, ma di fatto non lo è poi così tanto: siamo chiamati da Dio a benedire la vita, la nostra vita. Spesso, al contrario, ci capitare di maledire la vita: perché non va bene questo, non va bene quello, come degli eterni insoddisfatti. Spesso ci ritroviamo scoraggiati, stanchi, delusi amareggiati dagli sforzi intrapresi che sembra non portino a nulla… Gesù ci esorta: la tua vita è come una conchiglia: ruvida e dura all’esterno, ma se sei capace di aprirla vi troverai dentro un tesoro prezioso: la tua identità più profonda.
Ho sbagliato tante volte nella vita,
Chissà quante volte ancora sbaglierò.
In questa piccola parentesi infinita,
Quante volte ho chiesto scusa e quante no.
È una corsa che decide la sua meta,
Quanti ricordi che si lasciano per strada.
Quante volte ho rovesciato la clessidra,
Questo tempo non è sabbia ma è la vita che passa, che passa…
Che sia benedetta.
Per quanto assurda e complessa ci sembri, la vita è perfetta.
Per quanto sembri incoerente e testarda, se cadi ti aspetta.
E siamo noi che dovremmo imparare a tenercela stretta.
Tenersela stretta.
Siamo eterno, siamo passi, siamo storie.
Siamo figli della nostra verità.
E se è vero che c’è un Dio e non ci abbandona,
Che sia fatta adesso la sua volontà.
In questo traffico di sguardi senza meta,
In quei sorrisi spenti per la strada,
Quante volte condanniamo questa vita,
Illudendoci d’averla già capita,
Non basta, non basta.
Che sia benedetta.
Per quanto assurda e complessa ci sembri, la vita è perfetta.
Per quanto sembri incoerente e testarda, se cadi ti aspetta.
E siamo noi che dovremmo imparare a tenercela stretta.
A tenersela stretta.
A chi trova se stesso nel proprio coraggio,
A chi nasce ogni giorno e comincia il suo viaggio,
A chi lotta da sempre e sopporta il dolore,
Qui nessuno è diverso, nessuno è migliore.
A chi ha perso tutto e riparte da zero,
perché niente finisce quando vivi davvero,
A chi resta da solo abbracciato al silenzio,
A chi dona l’amore che ha dentro.
Che sia benedetta.
Per quanto assurda e complessa ci sembri, la vita è perfetta.
Per quanto sembri incoerente e testarda, se cadi ti aspetta.
E siamo noi che dovremmo imparare a tenercela stretta.
A tenersela stretta.
Che la vita sia benedetta.
Fiorella Mannoia, Che sia benedetta, Sanremo 2017
FESTA DEL BATTESIMO DI GESU’ – anno A – 2020
Celebriamo la festa del Battesimo di Gesù.
La prima cosa che salta all’occhio del vangelo di questa festa che chiude il tempo natalizio è che, dal racconto dell’Epifania, gli evangelisti passano direttamente a questo fatto importante della vita di Cristo.
Dei trent’anni precedenti della vita di Gesù noi non sappiamo nulla. Eppure lui ha vissuto con la sua famiglia; ha imparato il lavoro di falegname da san Giuseppe; ha studiato la Sacra Scrittura, la Torah; ha fatto amicizie, ha giocato, ha amato, ha pregato nel Tempio e nella sinagoga; ha vissuto la sua adolescenza e la sua giovinezza.
Questo tempo di nascondimento ci dice due cose importanti:
La prima è che per vivere bene non occorre essere sotto i riflettori, con le luci puntate addosso. Non occorre essere gente da palcoscenico per avere una vita significativa. Il significato della vita non è il palcoscenico ma è il senso che dai alle cose che fai.
E la seconda cosa che impariamo dalla vita di Gesù è che per affrontare il mondo occorre prepararsi. Tanta gente oggi improvvisa: nelle relazioni, nel mondo del lavoro… per affrontare la vita occorre invece studio, preparazione, competenza, professionalità e chi non ce le ha può fare come un bel fuoco di paglia: in un primo tempo può avere anche successo, poi gli altri capiscono che ti sei veramente e, se ti va bene ti mettono da parte, se ti va male ti scartano e ti danno il foglio di via: “non mi servi più perché non vali; perché non hai le capacità che mi avevi detto di avere”.
Gesù riceve il Battesimo da Giovanni. Questo gesto è molto importante perché da inizio alla missione pubblica di Cristo.
Gesù è pronto per fare la volontà del Padre; per realizzare la sua vocazione; per portare a termine la sua missione. E infatti Dio parla e dice: “questi è mio Figlio, colui che amo, in cui ho posto il mio compiacimento” (Mt 3,17); potremmo anche tradurre: di cui sono orgoglioso; di cui ho stima; in cui mi riconosco.
Domanda: perché Gesù riceve il battesimo da Giovanni, che era un rito di purificazione dai peccati; Lui che è Figlio di Dio e non ha bisogno del perdono perché è senza peccato?
Infatti Giovanni ‘gle la caccia’ e gli dice: “questo battesimo non s’ha da fare! Cosa stai facendo? Perché vieni da me? Sono io che dovrei venire da te!” (3,13) Gesù risponde: “lascia fare perché conviene che adempiamo ogni giustizia” (3,15) potremmo tradurre: lascia fare perché la cosa più importante è fare ciò che Dio ha deciso, ciò che Dio vuole. “Allora Giovanni lo lasciò fare” (3,15).
Gesù resta umile: ormai sa chi è, ha un ruolo, ha dei discepoli, è un Rabbì, un maestro, è riconosciuto nel suo ambiente sociale… eppure non si mette sul piedistallo: non reclama titoli; non pretende privilegi; non accetta scorciatoie, ma fa quello che deve fare. E impara ad amare condividendo la vita degli altri. Ricordiamo le parole di san Paolo: “Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo, diventando simile agli uomini” (Fil 2,6-7). Gesù abbatte il muro di separazione tra l’essere umano e la divinità e si mette vicino, si fa Emmanuele, “Dio-con-noi”.
Penso che in questi anni, una delle più belle rivelazioni di questa sana e genuina umiltà e semplicità di Gesù, ci venga proposta da papa Francesco: papa Francesco non fa l’umile; non recita una parte, è così. E piace tanto (anche e soprattutto ai non credenti) perché è una persona vera, non costruita. E una persona vera è una persona libera; e una persona libera ha anche la libertà e l’autorevolezza di sbagliare e di chiedere scusa, come lo abbiamo visto fare pochi giorni fa.
Infine, come Dio ha incoraggiato suo Figlio (ce lo ha ricordato anche la prima lettura), così Dio incoraggia anche noi: “percorri la strada del bene; fatti prossimo alla vita degli altri; non guardare i tuoi fratelli e sorelle dall’alto in basso, ma sii umile”.
Chissà che, se riusciremo a vivere in quest’ottica evangelica, Dio, alla fine dei nostri giorni non dica anche a noi: “questi è mio figlio, che ho amato, a lui va tutta la mia stima e il mio riconoscimento. Ne vado orgoglioso”.
Anche perché, il più profondo desiderio di un figlio è quello di sentirsi dire dal padre: “sono fiero di te”. E il più grande desiderio di un padre è quello di poter dire del proprio figlio: “sono fiero di lui”.
EPIFANIA – 2019
L’Epifania celebra la manifestazione (epifaneuo) di Gesù al mondo intero (e non solo per Israele). Dio viene per tutti, non solo per un popolo, per una categoria di persone, per una razza, per un’etnia. Dio non discrimina, non esclude, ma accoglie e include. Pensiamo a cosa significhi questo per noi cristiani…
I protagonisti di questa festa sono i Magi: gente sapiente che proviene dall’antico Oriente (probabilmente dalla Persia).
Chi sono questi tipi un po’ leggendari che vanno a Betlemme, guidati da una stella? Tre sottolineature:
I Magi sono dei cercatori. Dei cercatori di Dio. Chi cerca trova, dice il proverbio. Se cerchi Dio si fa trovare; cercatelo, mentre è vicino (dice un salmo). E quando l’hai trovato (o Lui ha trovato te) cercalo ancora, perché Dio è sempre ‘oltre’, è sempre avanti, è sempre un passo in più rispetto alla nostra andatura. Cari fratelli e sorelle, impariamo dai magi ad essere sempre uomini in ricerca, desiderosi di conoscere, di scoprire, aperti al nuovo, curiosi, esploratori, attenti a tutto ciò che ci si presenta davanti. Al contrario, le persone muoiono quando vanno in “stand by”: quando non si aspettano più nulla; quando danno tutto per scontato; quando non c’è più niente o nessuno che provochi meraviglia, interesse stupore. Quando si perde la passione.
I magi offrono doni a Gesù. Ricambiano l’affetto, la luce, il sorriso di Gesù Bambino facendogli dei regali. Domandiamoci: siamo capaci di ricambiare il bene che riceviamo oppure “s’èm an pò Genues”, tirchi, avari? Siamo capaci di restituire la fiducia che spesso ci viene accordata e che ancora più spesso non ci meritiamo?
Infine: “Per un’altra strada fecero ritorno al loro paese”. I magi non tornano da Erode. Non si assoggettano al potente di turno, a chi fa la voce grossa, a chi la spara più grossa…
Cari fratelli e sorelle, al termine di questo tempo natalizio domandiamoci:
Sono un po’ cresciuto nell’amicizia con Dio?
Sono riuscito a “limare” certi tratti del mio carattere?
Mi sono preso cura di chi mi sta vicino?
Mi sono fatto messaggero di lieti annunzi; come colui che porta la pace; come colui che testimonia un cammino di felicità?
Santi Magi, avete compiuto un lungo itinerario e avete trovato Cristo, Luce del mondo. Non vi siete fermati; non avete ceduto alla paura; non vi siete fatti scoraggiare dalle difficoltà, dagli imprevisti, da chi vi remava contro.
Avete capito ciò che una frase molto bella evoca: “Il senso della vita è che ciascuno trovi il suo dono. Lo scopo della vita è quello di regalarlo”. Insegnatelo anche a noi, con il vostro esempio e la vostra testimonianza. Amen, così sia.
II DOPO NATALE – 2020
La Parola di Dio di questa seconda domenica del tempo natalizio ha come scopo il farci gustare il mistero dell’incarnazione che abbiamo da poco celebrato. E lo fa con dei testi biblici non più narrativi, ma dallo stile poetico, sapienziale e riflessivo.
Fermiamoci un attimo sul prologo di Giovanni che abbiamo ascoltato nel vangelo (1,1-18). Giovanni evangelista non racconta i fatti della nascita di Gesù ma ne fa una riflessione teologica. Giovanni si fa illuminare dallo Spirito Santo, Spirito di sapienza e di rivelazione, per comprendere, per cogliere, per entrare nella profondità del mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio. Senza Spirito Santo non possiamo gustare, assaporare, contemplare il mistero nel Natale di Gesù Cristo.
Giovanni ci dice che la Parola, potremmo tradurre anche “il legame” che Dio ha voluto intessere con l’umanità, fin dalla creazione del mondo, si è fatta carne; è venuta nel mondo; ha posto la sua casa in mezzo a noi.
E qui saltano fuori le reazioni degli uomini: alcuni non l’hanno accolto; ad altri ha dato il potere (non in senso comune del termine, ma nel senso di possibilità) di diventare figli di Dio. Quelli che hanno creduto nel suo nome sono stati generati da Dio (Gv 1,13).
Cari fratelli e sorelle, alla (quasi) conclusione del tempo di Avvento e del tempo di Natale, penso sia bello, utile e necessario fermarsi un attimo e domandarci seriamente se noi credenti abbiamo davvero ‘creduto’; se davvero siamo tra quelli che ‘lo hanno accolto’. E uno dice: come si fa? Qual è il termometro per misurare la mia fede? C’è uno modo per verificare se ho realmente accolto Gesù nel santo Natale? Sì, c’è, e tuttavia non sono il numero delle messe a cui hai partecipato né le preghiere che hai detto. Questi sono strumenti, fondamentali e indispensabili per coltivare, far crescere, alimentare il nostro rapporto con Dio. Ma non sono il fine: alla fine di ogni messa, il prete dice: “la messa è finita; andate! (non restate) e portare la pace di Cristo”.
Ho accolto Gesù nel natale se sono riuscito ad essere più paziente, meno iroso, scontroso, nervoso con chi mi sta vicino;
ho accolto Gesù nel natale se mi sono sforzato di perdonare chi mi ha fatto un torto;
ho accolto Gesù nel natale se mi sono fatto vicino a chi ne aveva bisogno; a chi ha gridato aiuto e soprattutto a chi non ha avuto la forza o il coraggio di gridarlo;
ho accolto Gesù nel natale se mi sono sforzato di essere strumento di comunione, mantenendo rapporti sereni e cordiali con tutti;
ho accolto Gesù nel natale se sono stato onesto e competente nel mio lavoro e non ho cercato di fregare gli altri;
ho accolto Gesù nel natale se non mi sono tirato indietro al mio dovere; al sacrificio, al “tener duro” nelle situazioni più difficili e complicate;
ho accolto Gesù nel natale se non mi sono fatto prendere dalla banalità; dalla superficialità; dall’ignoranza, dai “luoghi comuni”;
ho accolto Gesù nel natale se non ho pensato solo a me stesso o alla mia famiglia e mi sono ricordato di chi fa più fatica.
E se non ci fossi riuscito? Dio ci sussurra: “non avere paura. Ricordati che Natale può essere tutti i giorni”. Non è una frase fatta; è la realtà della fede, perché Dio può nascere in noi ogni giorno, a patto che lo vogliamo, lo desideriamo e gli facciamo spazio. Come Maria nel suo grembo, come Giuseppe, come i pastori, come i santi Magi che ricorderemo nella solennità dell’Epifania.
Abbiamo accolto Gesù nel Natale, se, con sincerità sappiamo dire, prendendo a prestito le parole di un bravissimo e profondissimo giovane cantautore italiano, Ultimo, che in una sua recente canzone dice così: “sei la piccola stella che porto, nei momenti in cui non ho luce”. “Signore, sei davvero questo per me? Signore, fai crescere la mia fede perché la strada è ancora lunga”.
MARIA SS. MADRE DI DIO – 2020
Il grande annuncio che ci viene rivolto da Dio attraverso la liturgia di questo primo giorno dell’anno civile ha a che fare con una benedizione.
La benedizione che JHWH dona agli Israeliti attraverso Mosè e Aronne continua nei secoli, attraverso Gesù, che è la grande benedizione di Dio per il mondo. Mediante suo Figlio Dio si impegna per in prima persona nel non venir meno alle sue promesse di bene. Mi piace pensare il Signore che dice: “non mi tiro indietro; non tiro il freno a mano; non ritratto ciò per cui ho giocato tutto me stesso”.
Proviamo a riflettere insieme sul significato di questa benedizione: “Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace”.
Innanzitutto il primo verbo: il Signore ti benedica.
Dio dice bene di te; qualunque sia la ‘posizione’ che tu hai nei suoi confronti; qualunque sia il grado della tua moralità, della tua fede, della tua testimonianza.
Come un papà e una mamma che non parla male di suo figlio, così Dio fa con noi perché, come ci ha detto san Paolo, Dio manda il suo figlio del mondo perché noi potessimo partecipare della sua figliolanza.
E se siamo figli, siamo anche eredi: “figlio, tutto ciò che è mio è tuo”, dice il padre della parabola al figlio maggiore. Erede è colui che riceve, colui che accoglie un’eredità. Un impegno ma anche e soprattutto un dono gratuito e immeritato (l’eredità non te la meriti, non la conquisti). Quale eredità: la vita, il tempo, l’amore.
Il secondo verbo che troviamo nella benedizione è custodire, che etimologicamente significa sorvegliare, vigilare. E’ bello all’inizio dell’anno, pensare a Dio come un papà che non interviene direttamente nel tuo esodo (il cammino che percorri per uscire da te stesso) ma ti guarda a debita distanza (per lasciarti libero), e tuttavia con questo sguardo ti protegge e ti accompagna, tirandoti in piedi quando inciampi; abbracciandoti quando ti metti a piangere; con-solandoti (rimettendoti al sole) quando la nebbia o le nuvole vengono a farti visita oppure quando sei tu che ti ci ficchi dentro…
Il terzo verbo della benedizione è sol-levare che significa: “fare alzare il sole”. Dio, con la sua presenza sicura, certa, solida, fa crescere, rafforza, rinsalda la speranza. La virtù bambina, dice il poeta francese Charles Peguy, capace di sorprendere perfino chi l’ha creata.
La speranza che il bene cresca e si diffonda;
La speranza che ciò che vivremo abbia un senso;
La speranza che il mondo viva giorni di pace;
La speranza di vivere una vita lieta, serena, possibilmente gioiosa, anche in mezzo a prove, fatiche, difficoltà, tempeste.
Infine, soffermandoci brevemente sul vangelo, ci imbattiamo ancora una volta nella figura di Maria e dei pastori: cos’è che accumuna la Madonna e i pastori? Sono tutt’e due cercatori di Dio. Si mettono in cammino per cercare Colui che sempre ci cerca. Solo chi cerca, trova, dice il proverbio. Siamo cercatori o siamo degli abitudinari? Cerchiamo l’incontro con Dio oppure obbediamo ad una tradizione, peggio ancora all’abitudine: “ho sempre fatto così, mi hanno insegnato questo, mi trascino qualcosa che non ho mai assunto veramente…?” (se la fede ta ghèt da tiràla a drè, non so è fede… può darsi che sia solo atto religioso, abitudine, tradizione…)
Maria medita e custodisce nel cuore: non fa le cose a caso; non mette il pilota automatico. Cerca, pensa, riflette, domanda, spera, ama. Fa funzionare cuore e cervello.
Cari fratelli e sorelle, accogliamo con gratitudine e con semplicità il nuovo anno civile che sorge, perché un nuovo anno è sempre:
un’opportunità da cogliere, un dono da coltivare,
una promessa da credere, un progetto da realizzare,
una sfida da affrontare, una storia da vivere.
Un tempo per AMARE e LASCIARCI AMARE. E qui ripartiamo sempre da zero; siamo sempre principianti. Non ci sono lauree, master, corsi di preparazione che ci abilitano.
Diamo una mano al 2020 affinché ci possa essere amico; affinché ci possa sorridere e possa stare dalla nostra parte.
SANTA FAMIGLIA 2019
All’interno delle feste natalizie la liturgia ci fa celebrare la festa della santa Famiglia.
Una volta la famiglia di Gesù veniva definita “sacra”: con questo aggettivo, magari senza volerlo, se ne sottolineava la distanza, quasi a pensare a Gesù, Giuseppe e Maria come dei superuomini inimitabili. Oggi la Chiesa ha riscoperto l’aggettivo “santa”, ossia la famiglia come luogo di educazione e palestra di santità.
La prima cosa che mi piace mettere in evidenza è che Dio, dopo aver scelto di “venire ad abitare in mezzo a noi” attraverso la nascita di suo Figlio, decide di nascere in una famiglia. Sembra una cosa scontata ma penso non lo sia: con questa scelta Dio vuole sottolineare l’importanza e la necessità dei legami familiari: come dicevamo prima la famiglia è palestra di vita; è la prima scuola della fede; è il primo laboratorio nel quale ciascuno di noi è stato forgiato, cesellato, modellato ad uscire da sé stesso (la fase narcisistica che coincide con il soddisfacimento dei bisogni primari, direbbe Freud), per confrontarsi con i bisogni e le necessità degli altri.
Allora la santa Famiglia di Nazareth diventa davvero modello per le nostre famiglie, perché, come ci ha raccontato il vangelo, ha vissuto le stesse difficoltà, le stesse prove, le stesse gioie di ogni nostra famiglia: Giuseppe deve fuggire in Egitto con la sua sposa perché Erode vuole uccidere il Bambino. Avvertito in sogno dal messaggero di Dio, non si fa prendere dalla paura e si fa “clandestino” in terra straniera.
Noi abbiamo in mente la famiglia del “mulino bianco” e invece il vangelo ci parla di:
- un padre con un figlio non suo, che, per farlo diventare ‘suo’ dovrà accogliere, far crescere, amare (perché è così che si dona la vita… non basta la biologia);
- di una madre che ha concepito per opera dello Spirito Santo (se la volessimo buttare sull’ironico potremmo addirittura parlare di primo caso di fecondazione assistita…);
- di un figlio nato fuori dal matrimonio, i cui genitori venivano mal visti da tutta la popolazione perché Maria considerata adultera e Giuseppe un povero sciocco che non avrebbe saputo ripudiarla;
- di una famiglia in fuga, costretta ad emigrare dal proprio paese perché il male la stava perseguitando…
Quest’anno, il 2019, è stato l’anno in cui ci sono stati più emigrati che immigrati: soprattutto giovani, con un livello di istruzione medio alto, partiti sia dal nord che dal sud del paese. In 13 anni (dal 2006 al 2019) quasi due milioni e mezzo di italiani si sono trasferiti dal nostro paese in altre nazioni, per cercare lavoro, fortuna, per ricongiungimenti familiari e altro… Gli italiani residenti all’estero sono passati da 3 milioni a 5,3 milioni… (dati della Fondazione Migrantes, rapporto italiani nel mondo, 14esima edizione) e noi abbiamo paura di quelli ‘brutti, sporchi e cattivi’, che “vengono a rubarci il lavoro”… (termini che utilizzavano gli americani e gli australiani per definire gli emigrati italiani agli inizi del ‘900… loro ci aggiungevano ‘mafiosi’… “dago’s men”… gli uomini del pugnale).
Ce ne sono a iosa di riferimenti per riflettere sulle “idee” che ci siamo fatti (o che abbiamo in testa) e la rivelazione di Dio, che è sempre sconvolgente, destabilizzante, a tratti scioccante…
Cari fratelli e sorelle, vorrei che rivolgessimo un preghiera speciale per tutte quelle famiglie che si stanno prendendo cura dei propri cari a causa dell’età e della salute. Non è facile star vicino a gente anziana e ammalata, sia a livello fisico, sia a livello psicologico. Occorre tanta forza, tanta pazienza, tanta fede. Ma, come ci ha ricordato la prima lettura, chi onora il padre espia i peccati, 4chi onora sua madre è come chi accumula tesori. 5Chi onora il padre avrà gioia dai propri figli e sarà esaudito nel giorno della sua preghiera. 6Chi glorifica il padre vivrà a lungo… 4L’opera buona verso il padre non sarà dimenticata, otterrà il perdono dei peccati, rinnoverà la tua casa (Siracide).
La famiglia non è importante solo per la nostra fede cristiana; anche la nostra costituzione italiana la tutela e la promuove, ma la politica può e deve fare di più, anche perché un paese di soli anziani non ha futuro… il 2018 è stato l’anno in cui, dall’unità d’Italia, nel nostro Paese si sono fatti meno figli… (a Pianengo i numeri per fortuna sono un po’ diversi, visto che abbiamo avuto 30 nati e 16 morti nel 2019).
E infine, ricordiamoci che non esiste “LA famiglia”. Esistono le famiglie reali, e come cristiani siamo chiamati ad avere rispetto, cura e amore verso ogni tipo di famiglia, che si fondi sull’amore, sull’apertura alla vita e sul grandissimo e prezioso valore della fedeltà a chi si vuole bene. Facendo sì che quei piccoli, magari insufficienti germi di bene presenti in ogni forma di relazione di coppia, affettiva e familiare, possano incontrare la linfa vitale del vangelo di Gesù.
S. NATALE – 2019
Dio parla e ci annuncia il perché è nato.
Sono nato nudo, dice Dio,
perché tu sappia spogliarti di te stesso.
Sono nato povero,
perché tu possa considerarmi l’unica ricchezza.
Sono nato in una stalla
perché tu impari a santificare ogni ambiente.
Sono nato fragile, dice Dio,
perché tu non abbia mai paura di me.
Sono nato per amore,
perché tu non dubiti mai del mio amore.
Sono nato di notte
perché tu creda che posso illuminare qualsiasi realtà.
Sono nato persona, dice Dio,
perché tu non abbia mai a vergognarti di essere te stesso.
Sono nato uomo
perché tu possa essere “dio”.
Sono nato perseguitato
perché tu sappia accettare e superare le difficoltà.
Sono nato nella semplicità
perché tu la smetta di essere complicato.
Sono nato nella tua vita, dice Dio,
per portarti all’incontro con me.
Lambert Noben
In questa notte santa giunga il nostro Buon Natale in modo particolarissimo ai fratelli e alle sorelle che stanno soffrendo per la perdita di una persona cara; che piangono la perdita di un figlio; per una grave malattia in famiglia; per un tradimento, una separazione, un divorzio, una forte incomprensione; per problemi economici; per la perdita del posto di lavoro;
Buon Natale a coloro che sperimentano la precarietà l’insicurezza, in particolare ai fratelli e alle sorelle di Palestina e a tutti i cristiani perseguitati.
Buon Natale a coloro che sentono il peso e la fatica nel costruire il futuro, immaginandosi un avvenire migliore, che non si riesce a intravvedere.
Per noi, per tutti questi fratelli e sorelle, e per coloro che lavorano anche in questa notte per la nostra sicurezza, per la nostra salute, per il bene pubblico;
a tutti auguri di buon Natale, a tutti, in tutto il mondo e per tutti i cuori, arrivi il tenero abbraccio di Gesù Salvatore.
IV DOMENICA DI AVVENTO – anno A – 2019
La Parola di Dio di questa quarta ed ultima domenica di Avvento ci presenta un altro personaggio importante, bello e significativo: dopo Isaia e i Profeti, Maria, Giovanni il Battista, incontriamo Giuseppe.
Giuseppe è un uomo che la Bibbia definisce ‘giusto’, cioè onesto, lavoratore, buono e disponibile. Nei vangeli Giuseppe è uno dei pochi personaggi che non parla. Non dice nulla, ma agisce nel silenzio (al fa mia nà la boca ma l’fa na le mà). E’ un uomo schivo e riservato, a cui non piace mettersi in mostra. Proviamo a pensare a cosa significhi per noi questa caratteristica dello sposo di Maria, in un’epoca di social e di visibilità esasperata, dove se non appari non esisti. Giuseppe si fa da parte, affinché emerga Gesù, in tutta la sua bellezza e la sua forza (chi ama veramente non impone se stesso ma agisce in modo che emerga l’altro).
Il vangelo ci ha raccontato il Sogno di Giuseppe. Noi siamo abituati a pensare al Natale come un qualcosa di bello, di sereno, di tranquillo, stile la pubblicità della Barilla di qualche decennio fa: “dove c’è Barilla c’è casa…”… il vangelo che abbiamo appena ascoltato dice tutto il contrario.
Il Natale, per chi lo ha vissuto duemila anni fa, in particolare per Maria ma ancor più per Giuseppe è stato un vero dramma, un tormento, un ingarbugliamento di fatti, di sentimenti, di emozioni, di scelte tutt’altro che semplici. E quando è tutto un gran casino che si fa? Giuseppe si trova di fronte ad un figlio non suo (e a quei tempi, lo sappiamo, non c’era la fecondazione eterologa!). E il dramma è reso ancora più insopportabile perché Giuseppe è straconvinto che Maria non lo abbia tradito. Allora come è possibile tutto questo? Dio parla e annuncia, e Giuseppe risponde: “il bene del bambino è ciò che conta”. Se Dio ha pensato questo per me, per la mia sposa, per la mia famiglia, significa che è anche il mio bene”. Si fida e si affida, come la sua sposa, anche se non capisce tutto e non gli tornano i conti. E rischia, si mette in gioco, ci prova.
Piantiamola di dire, anche come Chiesa, che Giuseppe è il padre “putativo” (adottivo) di Gesù. Giuseppe è stato padre di Gesù (lo dice anche la Bibbia: è Giuseppe che impone il nome al bambino, gesto che suggella la sua paternità!).
Ci si mette un minuto a fare un figlio. Ci si mette una vita invece ad educarlo, ad amarlo, a insegnargli il faticoso mestiere di vivere, stando con lui, sacrificando buona parte del proprio tempo. Il papà è colui che con il suo esempio ti lancia fuori dal mondo, ti mette in carreggiata, ti da il codice della strada e ti insegna a mettere le mani sul volante (ma non ti sostituisce alla guida!)…
Quanto la nostra società ha bisogno di papà così… un figlio: la più grande croce ma anche la più grande gioia, il più grande investimento, il più grande orgoglio, la più grande opera divino-umana che possa venir realizzata.
Giuseppe ci insegna a credere in ciò che è giusto; a portare avanti i nostri sogni; a non aver paura dei sacrifici per veder realizzati i nostri progetti; a non venir meno alla fedeltà alla nostra vocazione. Se ci impegniamo in tutto questo, allora non faremo fatica ad avere un cuore aperto e disponibile per accogliere Gesù nel Natale
Dalla Bibbia, oggi, ci è arrivato questo esempio. Dalla società civile in questi giorni ce ne sono arrivati almeno 32: uomini e donne, giovani e anziani, laici e consacrati, scelti dal Presidente della Repubblica perché si sono distinti per la loro onestà, per la loro capacità di sacrificio, di impegno nel bene pubblico, nella solidarietà e nell’aiuto agli altri, anche attraverso gesti “ordinari” ma che hanno il sapore dello “straordinario”.
Chissà se in questo lungo elenco potremmo esserci anche noi, oppure il nostro nome comparirebbe nel libro degli egoisti, come i cittadini di Betlemme che manco si accorgono della nascita del Figlio di Dio, perché chiusi in loro stessi, a soddisfare i loro bisogni e le loro voglie… perché Natale o è il vangelo che si fa carne in te, oppure è tutta una grande illusione. E (concedetemela) stiamo attenti che di illusioni è lastricato il pavimento dell’inferno…
III DOMENICA DI AVVENTO – anno A – 2019
In questa terza domenica di avvento (domenica della gioia) la Parola di Dio ci presenta la bella e significativa figura di Giovanni il Battista: Gesù lo definisce il più grande tra i nati di donna (ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui).
Perché Gesù dice questo? Perché Giovanni fa da cerniera, da ponte tra l’A.T. e il N.T.; con l’ultimo grande profeta si chiude la storia antica della salvezza e Dio inizia a scrivere una pagina nuova, che avrà come protagonista non più un re, un profeta, un sacerdote ma Dio stesso, attraverso la venuta del suo Figlio, nella carne di un bambino.
Giovanni è un uomo tutto d’un pezzo. Le sue caratteristiche dovrebbero diventare anche le nostre:
- È deciso, determinato: se deve fare una cosa la fa, se deve dire una cosa, non ha peli sulla lingua; se deve portare avanti un progetto, lo porta avanti fino alla fine, al costo di rimetterci la testa.
- Impegnato;
- Anche rude, ruvido, poco incline al compromesso;
- Carismatico, trascinatore;
- Infine, una caratteristica importante anche per il nostro cammino di avvento: sobrio ed essenziale, che non si perde in mille cose, in mille discorsi; non è disorientato, confuso, in balia degli eventi.
Eppure… Non capisce!
Ai tempi di Giovanni e di Gesù c’era una grande attesa del Messia nel popolo di Israele, ma a Giovanni non tornano i conti. Perché Giovanni ha una certa idea di Messia che non coincide con la rivelazione di Gesù: l’uomo forte al comando, l’uomo che risolve tutti i problemi e lo fa con la violenza, con la prevaricazione e l’imposizione; l’uomo che sbaraglia e vince sui nemici. Ma Dio sta decidendo diversamente: sta scegliendo di diventare bambino.
Per questo chiede a Gesù: “Sei tu il Messia che deve venire oppure dobbiamo aspettarne un altro?” E Gesù che gli dice: “impara e guarda i segni; fatti re magio!” Impara a interpretare i segni dell’amore di Dio perché la vera forza sta nell’amare! Guarda, osserva e ascolta: non essere distratto, non dormire, non appesantirti e non appisolarti!
Siamo chiamati a scoprire le tracce di Dio, le sue orme, se volete, le sue “zampate”. Per fare questo però occorre un cuore vigilante, pronto, attento, curioso.
L’apostolo Giacomo nella seconda lettura ci invita:
- Sopportate (su-perate) le difficoltà dell’oggi;
- Smettete di lamentarvi, anche perché sono di più le cose che funzionano di quelle che non funzionano;
- Siate e constanti e perseveranti: costanza e perseveranza, due grandi segni di maturità e di amore.
Nella fede; nella preghiera; nella carità; nel ringraziamento Dio, “misericordioso e pietoso, lento all’ira e grande nell’amore, che non ci tratta secondo i nostri peccati; non ci ripaga secondo le nostre colpe”, ma ci vuole bene, solo perché siamo suoi figli.
IMMACOLATA – 2019
Cari fratelli sorelle, celebriamo la solennità dell’Immacolata concezione di Maria, una delle feste più care e più sentite della fede cattolica, legate alla Madonna.
In questo giorno la liturgia ci ricorda che Maria di Nazareth, scelta da Dio per diventare madre del suo Figlio, è stata preservata dal peccato originale (da ogni contagio di male).
Il dogma (la verità di fede) dell’Immacolata parla di un singolare privilegio che Dio avrebbe concesso a Maria. Qui dobbiamo capire bene, altrimenti facciamo diventare la Madonna una superdonna, una diva, una star, una privilegiata e dunque un esempio non raggiungibile e non imitabile.
Prima sottolineatura: Maria è stata una ragazza normale, scelta dal popolo, che ha saputo creare le condizioni affinché avvenisse l’incontro con Dio. E quali sono state queste condizioni? Maria era una ragazza che pregava; una che sapeva fare silenzio, una che sapeva riflettere sui fatti che le succedevano; infine una ragazza aperta, non rigida (direbbe papa Francesco), aperta alle sorprese, all’imprevedibile, allo sconvolgente.
E così accade: Maria viene chiamata da Dio a diventare madre di Gesù: riconosce l’amore di Dio per lei (ti saluto, riempita dell’amore del Signore), si fida, chiede chiarimenti e spiegazioni perché non va in automatico (vuole sapere, vuole conoscere, vuole essere coinvolta in qualcosa che ha a che fare con la sua vita), si affida, dice il suo “Sì”, “ci sto”, “per me va bene”, all’opera che Dio vuole costruire attraverso di Lei.
Maria non è stata scelta e non è diventata Madre di Gesù perché una mattina Dio si è svegliato e ha detto: “prendiamo una ragazza e facciamola diventare madre di mio Figlio”. Maria è diventata Madre di Dio perché ha conosciuto e creduto alla promessa di Dio! Come ogni mamma: non diventi madre prima di tutto a livello biologico; diventi madre quando decidi di accogliere il figlio che porti in grembo come un dono! E ti stupisci, ti meravigli, ringrazi…
Niente privilegi, Maria ha fatto la sua gavetta, il suo tirocinio. Tutta la sua vita è stata un lungo, impegnativo e sofferto apprendistato per imparare a fare la volontà di Dio. Quell’”Eccomi” lo ha ripetuto un sacco di volte, fin sotto la croce. Un “Eccomi” che anche noi siamo chiamati a rinnovare ogni giorno, per attendere Colui che sta per venire.
Maria nel natale partorisce il Figlio di Dio. Anche noi siamo chiamati a partorire Gesù, già dicevano i padri della Chiesa, utilizzando questa immagine forse un po’ azzardata (ma non troppo). Dio ci chiama fa far nascere suo Figlio in noi, a portarlo nel cuore, nella vita, affinché tutti coloro che ci stanno vicino possano essere illuminati dalla Luce che non tramonta: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12). Così sia.
I DOMENICA DI AVVENTO – anno A – 2019
Iniziamo questo tempo liturgico, chiamato anche “tempo forte” che la liturgia della Chiesa ci regala per entrare con profondità in uno dei due misteri della vita di Gesù, che sono le due colonne che sorreggono l’architrave della nostra fede: il mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio e la sua risurrezione.
Di per sé la venuta che ricordiamo durante il tempo dell’avvento (il termine ha proprio questo significato) si esprime in una triplice modalità: come cristiani facciamo memoria della venuta storica di Cristo (la venuta nella carne); l’ultima venuta (escatologica), quella alla fine dei tempi, e quella che sta in mezzo, cosiddetta spirituale, che fa diventare Gesù l’Emmanuele, il Dio-con-noi, un Dio che ci viene a far visita oggi, non ieri, non domani, l’oggi della nostra vita; l’oggi delle nostre deboli certezze, l’oggi delle nostre insicurezze, delle nostre fragilità, dei nostri limiti e dei nostri fallimenti; l’oggi del nostro sorridere e del nostro piangere; l’oggi del nostro stare e del nostro viaggiare; l’oggi del nostro fare, agire, desiderare; l’oggi del nostro amare e del nostro odiare.
Già i padri della Chiesa raccontavano di questa triplice venuta di Cristo: ascoltiamo un brano tratto dal terzo Sermone “De Adventu” di Pietro di Blois (1203):
La prima Venuta fu dunque umile e nascosta, la seconda è misteriosa e piena d’amore, la terza sarà risplendente e terribile. Nella sua prima Venuta, Cristo è stato giudicato dagli uomini con ingiustizia; nella seconda, ci rende giusti mediante la sua grazia; nella terza, giudicherà tutte le cose con equità e misericordia: Agnello nella prima Venuta, Leone nell’Ultima, Amico pieno di tenerezza nella seconda”.
Soffermiamoci ora sul verbo di questa prima domenica di Avvento: vegliare!
Veglia la sentinella, che prima degli altri, scorge l’alba all’orizzonte, oppure il nemico che sta arrivando per attaccare il castello o il fortino, oppure il campo dell’esercito avversario.
Ma per vegliare la sentinella deve farsi un sacco di scale, per arrivare alla torre o comunque al punto più alto, per poter vedere ciò che gli altri non vedono. Fuori dall’immagine, per stare svegli, per stare pronti a Colui che deve venire, occorre prepararsi, occorre impegnarsi, occorre fare la nostra parte. Dio la sua la fa. Ed è certo perché è fedele a quello che promette. Sta a noi, alla nostra libertà fare l’altro tratto di strada, affinché possa avvenire l’incontro.
Quanta gente, sotto Natale, arriva alla confessione e confessa: non sento niente; per me non è Natale… un conto è la fatica a viverlo; un conto è non provare nulla… la domanda che viene spontanea è: ti sei preparato, ti sei avvicinato, hai vegliato?
Come allora vegliare? Con quali modalità, con quali strumenti?
La Chiesa, nel corso dei secoli, ne ha proposti tre, antichi, ma sempre nuovi:
- La preghiera, l’ascolto della Parola di Dio, la riflessione, il silenzio, lo sguardo attento e profondo sul mondo…;
- I sacramenti (segni dell’amore di Dio per noi), in particolare l’Eucarestia e la confessione;
- I gesti di carità e di rinuncia (i cosiddetti digiuni), per aiutare chi ha meno di noi, e per ritrovare quella sobrietà di vita che ci aiuta a capire cosa conta veramente e cosa invece è superfluo o addirittura dannoso per noi e per chi ci sta vicino.
Buon cammino di avvento, incontro al Signore che viene!