INCH’ALLAH – Canada 2012
In Cisgiordania, in una clinica improvvisata all’interno di un campo profughi palestinese, lavora Chloe, una giovane ostetrica del Quebec che, sotto la supervisione del medico di origine francese Michael, si occupa delle donne in gravidanza. Tra i posti di blocco e il muro che delimita i confini tra israeliani e palestinesi, il percorso di Chloe si incontra con quello della guerra e di coloro che la portano o ne portano i segni, come Rand – una giovane paziente con cui stringe amicizia -, i suoi fratelli Faisal – il maggiore della famiglia, un resistente che si innamora di lei – e Safi – il più piccolo dei tre che sogna di oltrepassare i confini e lasciarsi il conflitto alle spalle – e il giovane soldato Ava, suo vicino di casa. Questi incontri la porteranno a far cadere ogni sua certezza e avventurarsi in un territorio molto più grande di lei.
LA RAGAZZA DEL MONDO – Italia 2016 – Drammatico-sentimentale – 101 min.
Giulia, con tutta la sua famiglia, fa parte dei Testimoni di Geova. Le regole che l’appartenenza a questo gruppo religioso le impone sono rigide e comportano una separazione nelle relazioni sentimentali con i non appartenenti alla comunità. Un giorno conosce, durante uno dei suoi impegni di proselitismo, Libero. E’ un ragazzo che la colpisce immediatamente e di cui si innamora perché egli appartiene al mondo delle persone che sbagliano, che si arrangiano cercando un’altra possibilità, che amano senza condizioni. Quando Giulia incontra Libero scopre di poter avere un altro destino, tutto da scegliere. La loro è una storia d’amore purissima e inevitabile e per i due ragazzi inizia un intenso periodo di vita insieme. La sorella di Giulia, una sera li sorprende, ne parla con i genitori e la comunità viene subito coinvolta. Giulia viene diffidata dal continuare a frequentarlo, pena l’allontanamento e l’esclusione dal gruppo, ma decide di non arrendersi. Libero farà a Giulia il dono d’amore più grande di tutti: la libertà di appartenere al mondo, un mondo nuovo, luminoso e pieno di futuro.
Ci sono film che meritano attenzione per ciò che raccontano e per come lo fanno. Altri hanno un valore aggiunto particolare. In questo caso il valore aggiunto ha origine nella modalità produttiva che vede nel Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma non solo un co-produttore ma anche, e soprattutto, come l’istituzione che ha formato gran parte di coloro che hanno contribuito alla realizzazione.
Il tema certo non era dei più semplici da affrontare anche perché sui Testimoni di Geova interviene un immaginario popolare che li identifica come quelli che “suonano ai campanelli” per cercare di portare nuovi adepti alla comunità. Il film di Danieli non manca loro di rispetto anche perché la documentazione che sta a monte della sceneggiatura è corposa. Non siamo dinanzi a una storia che li vede come i ‘cattivi’ perché anche Libero, che pure è lo strumento di una nuova e definitiva apertura al mondo da parte di Giulia, non è certo uno stinco di santo.
Quella che il film cerca di andare a proporre non è una vicenda alla Romeo e Giulietta ma piuttosto una lettura di come l’adesione all’ortodossia religiosa finisca con il trasformarsi in un abbraccio soffocante che, mentre cerca di proteggere ed elevare spiritualmente, rischia quotidianamente di non comprendere proprio quella realtà che vorrebbe trasformare con la forza della fede. La luce di Dio deve, per definizione, illuminare. Se la si propone in maniera accecante o distorta si può rischiare di vanificarne la funzione.
L’ALTRO VOLTO DELLA SPERANZA – Finlandia 2017 – Drammatico – 98 min.
Khaled è un rifugiato siriano che ha raggiunto Helsinki dove ha presentato una domanda di asilo che non ha molte prospettive di ottenimento. Wilkström è un commesso viaggiatore che vende cravatte e camicie da uomo il quale decide di lasciare la moglie e, vincendo al gioco, rileva un ristorante in periferia. I due si incontreranno e Khaled riceverà aiuto da Wilkström ricambiando il favore. Nella società che li circonda non mancano però i rappresentanti del razzismo più becero.
Kaurismaki ha già però provveduto a metterci sull’avviso: ci sono ben altre tensioni che attraversano il mondo e il volto di Khaled, nero del carbone in cui si è nascosto, ce lo testimonia. Il Maestro finlandese continua a visitare il suo mondo di emarginati ed autoemarginati dalla vita ai quali non è concesso di mostrarsi troppo malinconici (anche se lo sono) e che a buon diritto possono provare gli stessi sentimenti dello Shylock shakespeariano.
A partire da Miracolo a Le Havre in questo universo si è però inserito, con la forza dirompente di un estremo bisogno di solidarietà, il tema dell’immigrazione. Kaurismaki non crede in una religione ed esonera da questo compito anche il suo protagonista siriano, liberandolo così da quel marchio che l’ISIS gli ha imposto e che l’Occidente più retrivo è stato ben lieto di potergli indiscriminatamente applicare. Crede però nell’umanità e i suoi personaggi, a differenza di sacerdoti e leviti, sono buoni samaritani in cui l’egoismo cerca magari di farsi strada ma senza troppe possibilità di successo.
Ciò che fanno, come reagiscono, quello che dicono sembra a tratti surreale contrapponendosi quasi alla concretezza del dolore e della morte che accompagna nell’intimo chi ha abbandonato la propria terra per cercare scampo da una sorte univoca. Ma al contempo ci ricorda che se anche solo una minima parte di quel sentire surreale si impadronisse della società tutti potremmo vivere un po’ meglio. Mettendo magari in condizione di non nuocere non chi chiede giustamente una gestione seria del problema ma chi ne approfitta per seminare una paura che si traduce in odio. Questa è la lezione più importante che Kaurismaki continua ad impartirci. Non dimenticando di farci anche sorridere come solo i grandi del cinema hanno saputo fare.
PITZA E DATTERI – Italia 2015 – Commedia – 92 min.
C’è una certa nobiltà che alcuni film arrivano umilmente a toccare. Sono infiniti i temi che un autore può decidere di raccontare e nella maggioranza dei casi, la scelta cade su qualcosa di personale. Il messaggio della storia riflette senz’altro una visione soggettiva e ciò che la nobilita non è il suo contenuto, che può essere condiviso o meno, bensì il modo in cui viene narrata. Pitza e datteri è una commedia in apparenza innocua che introduce, sviluppa e conclude i propri argomenti usando gentilezza.
Ogni fedele può rivendicare il diritto di pregare. Il regista di origine iraniana Fariborz Kamkari lo sostiene fermamente, qualunque siano la religione, il dio, il luogo di culto. Toccando un tema sensibile e attuale, Pitza e datteri prende una comunità di mussulmani e li illumina con una luce diversa, rispetto a quanto farebbe un pregiudizio europeo. Kamkari ambienta la storia a Venezia, la più orientaleggiante delle città italiane, e qui priva del luogo di culto un piccolo gruppo di variegati fedeli di Allah, tra cui un egiziano, un curdo, un africano e un friulano convertito (Giuseppe Battiston). Al danno dello sfratto dal locale adibito a moschea, si aggiunge l’onta di vederlo trasformato in un negozio di parrucchiere unisex, gestito per giunta da una donna. Per risolvere la spinosa questione, un Imam (Mehdi Meskar) arriva in supporto dall’Afghanistan. Un Imam neanche vent’enne al suo primo incarico.
Con sensibilità e grande intelligenza culturale, Kamkari traghetta gli estremismi religiosi tra i canali ironici della sua commedia, così come le disavventure del gruppo sfilano tra le calli di Venezia. Di fronte alla naturale esigenza della preghiera e alla ricerca di una nuova moschea, i fedeli si scontrano con tutte le storture dei malsani fondamenti religiosi che portano regolarmente a ridicole derive. Il regista si permette anche di dare uno schiaffo progressista all’insensato e conservatore maschilismo del medio oriente, consegnando alla parrucchiera (Maud Buquet) i destini di tutti i personaggi maschili della storia. Attraverso gli occhi del giovane Imam e una lingua italiana ricca di consonanti fricative, Pitza e datteri spiega gentilmente che guardare il mare e l’immensa quantità d’acqua che contiene, aiuta a percepire la vastità di idee, di pensieri, di ambizioni che affollano il mondo. C’è spazio per tutti, per pregare, desiderare, ridere, comunicare e rispettarsi reciprocamente.
SOLE ALTO – Croazia, Serbia, Slovenia 2015 – Drammatico – 123 min.
1991. Jelena e Ivan si amano stanno per lasciare i paesi in cui vivono per trasferirsi a Zagabria. Ma lei è serba e lui croato e i primi segnali dell’esplodere dell’odio etnico non aiutano questo loro progetto. 2001. Dopo il conflitto la giovane serba Nataša torna con la madre nella casa in cui avevano vissuto e in cui la guerra ha lasciato profonde ferite che segnano anche gli animi. Ante, croato, accetta di lavorare nell’edificio per riattarlo ma la ragazza non sopporta la sua presenza. 2011. Luka, croato, torna al paese in occasione di una festa dopo una lunga assenza. Va a trovare i genitori che non vede da tempo ma, soprattutto, decide di recarsi a casa di Marija, serba con la quale ha avuto molto di più di una relazione.
Sembra appartenere ad un lontano passato il conflitto che ha insanguinato i Balcani tanto che le generazioni più giovani spesso ne sanno poco se non addirittura nulla. È a loro in particolare che si rivolge Dalibor Matani? con questo film che si inscrive, senza ombra di dubbio, nel ristretto gruppo di opere che hanno saputo cogliere nel profondo lo specifico del conflitto che tra il 1991 e il 1995 insanguinò in maniera orribile l’ex Jugoslavia ma anche, e questo è il suo straordinario pregio, le dinamiche che sono proprie di ogni guerra civile. Lo fa attraverso tre storie in cui il rapporto amoroso diviene cartina al tornasole per evidenziare la sofferenza ma anche la possibilità di una speranza che tragga origine dall’accettazione dell’altro visto come persona e non come appartenente a questa o quella etnia o a questo o quello schieramento politico.
Si potrebbe lecitamente pensare ad un archetipo narrativo classico, a un Romeo e Giulietta rivisitati nella contemporaneità ma non è così. Perche Matani ha conosciuto sulla sua pelle la realtà che porta sullo schermo ed era pienamente consapevole del fatto che, nei Balcani, il film avrebbe potuto avere un’accoglienza contrastata perché i lutti non sono stati dimenticati e non tutte le ferite si sono rimarginate. Ma proprio perché questo film guarda oltre ha il coraggio di ricordarci, in un periodo in cui l’intolleranza sembra tornare a dominare le dinamiche mondiali, che si può guardare alla realtà in modo diverso. Lo fa con una scelta anche cinematograficamente non facile. Perché sceglie gli stessi due straordinari giovani interpreti per tutte e tre le storie costringendo lo spettatore a pensarli come diversi (con un diverso passato, con differenti modi di guardare al presente e al futuro in periodi cronologicamente ben distinti). Al contempo però ci chiede anche di pensarli ‘uguali’, uguali a milioni di ragazzi e ragazze che vivono o hanno vissuto in situazioni di conflitto in cui chi preferisce odiare pensa di semplificare la vita appiccicando ad ognuno un etichetta che lo renda immediatamente riconoscibile come amico o nemico e su questa base (e solo su questa) decidere se eliminarlo o affiancarglisi.