Shoah – Olocausto

IL BAMBINO CON IL PIGIAMA A RIGHE – USA 2008 – Drammatico – 93 min. 

Locandina italiana Il bambino con il pigiama a righe

Berlino, anni Quaranta. Bruno è un bambino di otto anni con larghi occhi chiari e una passione sconfinata per l’avventura, che divora nei suoi romanzi e condivide coi compagni di scuola. Il padre di Bruno, ufficiale nazista, viene promosso e trasferito con la famiglia in campagna. La nuova residenza è ubicata a poca distanza da un campo di concentramento in cui si pratica l’eliminazione sistematica degli ebrei. Bruno, costretto ad una noiosa e solitaria cattività dentro il giardino della villa, trova una via di fuga per esplorare il territorio. Oltre il bosco e al di là di una barriera di filo spinato elettrificato incontra Shmuel, un bambino ebreo affamato di cibo e di affetto. Sfidando l’autorità materna e l’odio insensato indotto dal padre e dal suo tutore, Bruno intenderà (soltanto) il suo cuore e supererà le recinzioni razziali.

La drammaticità della Shoah, di un inferno voluto dagli uomini per gli uomini, è inarrivabile e di fatto non rappresentabile ma questo non ha impedito al cinema di provare e riprovare a misurarsi con quella tragedia. L’approccio cinematografico di Mark Herman, regista e sceneggiatore, è diretto e il punto di vista assunto è quello di un bambino, figlio di un gerarca nazista, la cui innocenza (davanti all’orrore) trova corrispondenza soltanto in Shmuel, coetaneo internato all’inferno. A differenza di La vita è bella e di Train de vieIl bambino con il pigiama a righe non è una favola dove ognuno ha un proprio e preciso ruolo, al contrario nel film di Herman i due universi, quello del Bene e quello del Male, si lambiscono fino a confondersi e a sconvolgersi. Nel Bambino col pigiama a righe è l’inadeguatezza e la debolezza degli adulti, anche di quelli buoni, a obbligare i bambini a prendere in mano il proprio destino e a determinarlo. I padri e le madri non fanno “magie” come il Guido Orefice di Benigni e il Male che li circonda finisce per inghiottire i loro figli e renderli all’improvviso consapevoli. Il regista inglese è abile a evitare gli stereotipi della storia “cattiva” e della contrapposizione tra infanzia idealizzata e abiezioni del mondo adulto, analizzando la durezza di un’epoca (la Germania nazionalsocialista) e di un’età (l’infanzia).

Muovendosi tra trappole d’apparenza ed eludendo clichè, sentimentalismi e scene madri, Herman mette in scena le ingiustizie e i rapporti di forza che si definiscono già nell’età più verde. Attraverso il minimalismo di episodi quotidiani, immersi nella severità dei colori freddi, Il bambino col pigiama a righe svolge la memoria, rivisitandola con soluzioni e libertà che rendono la storia intollerabile e lancinante. Per questa ragione, l’autore “chiude la porta” sulla camera a gas, interponendo fra gli spettatori e il volto della Medusa la pietas di un narrare artistico che consenta di guardarla senza soccombere impietriti, atterriti. Tratto dal romanzo omonimo dell’irlandese John Boyne, Il bambino con il pigiama a righe è un film evocativo di un’epoca nera e tragica, rivista attraverso la psicologia di un’amicizia infantile e di una (pre)matura scelta di campo, complicate da una realtà storica di discriminazioni e di selezioni razziali. Immagini che richiamano per tutti la necessità di frequentare (sempre) la Memoria e di non considerare mai risarcito il debito con il nostro passato.

 

IL DIARIO DI ANNA FRANK – USA 1959 – Drammatico – 156 min. 

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Durante la seconda guerra mondiale, due famiglie ebree rimangono nascoste in una soffitta, ad Amsterdam, per due anni. Anna, figlia adolescente di Otto Frank – che sarà l’unico a sopravvivere alla guerra – scrive ogni giorno la cronaca di quella prigionia arricchendola con pagine di drammatica e struggente poesia.

 

IL FIGLIO DI SAUL – Ungheria 2015 – Drammatico – 107 min. 

Locandina italiana Il figlio di Saul

Ottobre 1944. Saul Ausländer è un ebreo ungherese deportato ad Auschwitz-Birkenau. Reclutato come sonderkommando, Saul è costretto ad assistere allo sterminio della sua gente che ‘accompagna’ nell’ultimo viaggio. Isolati dal resto del campo i sonderkommando sono assoldati per rimuovere i corpi dalle camere a gas e poi cremarli. Testimoni dell’orrore e decisi a sopravvivervi, il gruppo si prepara alla rivolta prima che una nuova lista di sonderkommando venga stilata condannandoli a morte. Perduto ai suoi pensieri e ai compagni che lo circondano, Saul riconosce nel cadavere di un ragazzino suo figlio. La sua missione adesso è quella di dare una degna sepoltura al suo ragazzo. Alla ricerca della pace e di un rabbino che reciti il Kaddish, Saul farà la sua rivoluzione.

László Nemes, regista ungherese al suo esordio, prova a rispondere prendendosi il rischio e la responsabilità formale e morale attraverso un film che sceglie il 4:3 come luogo di composizione e di ‘ricomposizione’ di un corpo. Perché al centro di Son of Saul c’è il cadavere di un ragazzino che un padre vuole sottrarre alla voracità dei forni crematori, un corpo morto tra milioni di corpi morti che Nemes lascia sullo sfondo sfocato e infuocato dalla furia nazista. Le proporzioni del formato, che limitano lo sguardo e fugano la spettacolarità delle immagini, rimarcano il punto di vista del protagonista. Ma Saul è anche il bersaglio per il fucile delle SS e per la macchina da presa. Sulla giacca che indossa è verniciata una ics rossa che lo rende immediatamente distinguibile e vulnerabile dentro l’inferno della soluzione finale. A un passo dalla rivolta armata messa in atto dai sonderkommando ad Auschwitz nel 1944, la macchina da presa converge sullo sguardo di Saul che ha scelto un’altra forma di resistenza: preservare l’integrità e la sacralità del corpo di suo figlio. L’ossessione con cui Saul persegue quella volontà lo tiene ostinatamente in vita e colma istericamente il trauma di cui è stato complice obbligato e incolpevole. Alle cremazioni sommarie, indifferenti alla liturgia e al commiato, contrappone un gesto umano che lo conduce attraverso una Babele concentrazionaria in cui uomini e donne, ridotti a sofferenza e bisogno, sopravvivono e muoiono per un sì o per un no. In un clima di isteria e assuefazione collettiva, che il regista restituisce con la sfocatura, emerge Saul che perso a se stesso non ha ancora perso tutto.

Dal fondo in cui giacciono uomini ridotti a ‘pezzi’ dalla fabbrica della morte, Nemes separa e mette a fuoco Saul, ricostruendo con lui e attraverso i suoi spostamenti all’interno del campo un luogo al di fuori di ogni senso di affinità umana. È l’assuefazione a regnare davanti alle porte delle camere a gas, un meccanismo naturale di protezione che non fa più caso all’orrore che resta fuori campo e delegato ai suoni, ai rumori, alle parole, agli ordini urlati, alla paura muta, alle preghiere, ai canti sacri. Lo spettatore guarda soltanto l’oggetto della ricerca del protagonista, ricerca che scandisce il ritmo visuale del film, reso instabile e organico dalla pellicola. Sono i frammenti raccolti dal suo sguardo che permettono la ricostruzione della visione e di un’idea fissa che guadagna al film e alla vita di Saul un senso umano, arcaico e sacro. Dentro un formato saturo del meglio e del peggio dell’essere umano, dentro un formato che riduce il movimento e isola una personale ricerca verso una vita che si vorrebbe ancora e disperatamente ingrandita, si svolge la sfida di László Nemes.

Consapevole dell’impossibilità di dire qualcosa di definitivo sull’argomento, l’autore ha coscienza dei vuoti necessari e dei pieni superflui, s’impone dogmi etici ed estetici e prova a resistere dentro un quadro che qualche volta tracima, aprendo ai lati sui predatori, sulla visione piena di luoghi e azioni, sul realismo insopportabile. Negativo de La vita è bella, Son of Saul è un incubo a occhi aperti in cui un padre ha perso la battaglia con la vita ma vuole vincere quella con la morte, ricomponendola con l’assistenza di un rabbino. La follia nazista non può essere nascosta a quel figlio (probabilmente) mai avuto ma così necessario a riparare il senso di colpa indotto dai carnefici alle loro vittime. Un figlio che accende la sua unica intenzione e il suo ultimo sorriso.

 

IL PIANISTA – Polonia 2002 – Drammatico – 148 min.

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Varsavia, 1939. Wladyslaw Szpilman è un giovane pianista ebreo di grande talento. La sua vita viene improvvisamente sconvolta quando i tedeschi invadono la Polonia: Wladyslaw e la sua famiglia vengono rinchiusi nel ghetto insieme a tutti gli altri ebrei della città, ed in seguito i suoi parenti sono deportati nei lager. Rimasto solo, Wladyslaw è costretto a nascondersi per cercare di sopravvivere…

Dopo quarant’anni di attività nel mondo del cinema, il grande regista polacco Roman Polanski firma una delle opere più importanti della sua carriera: Il pianista, una straziante pellicola sul dramma delle persecuzioni razziali che rievoca la dolorosa esperienza vissuta da Polanski stesso all’epoca della sua infanzia, quando la sua famiglia fu rinchiusa nel ghetto di Cracovia e poi sterminata nei lager. Basato sull’autobiografia scritta dal musicista Wladyslaw Szpilman e sceneggiato da Ronald Harwood, Il pianista ha vinto la Palma d’Oro come miglior film al Festival di Cannes del 2002 ed ha conquistato le lodi della critica internazionale, aggiudicandosi tre premi Oscar (miglior regista, miglior attore e miglior sceneggiatura) e sette premi César. Un autentico trionfo per questo capolavoro con il quale Polanski, sulle orme dell’analogo Schindler’s list di Spielberg, torna a raccontare la tragedia dell’Olocausto e le sofferenze vissute dal popolo ebraico durante l’oppressione nazista.

Ambientato a Varsavia fra il 1939 (data dell’invasione della Polonia e dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale) ed il 1944 (l’arrivo dell’Armata Rossa e la liberazione della città), Il pianista segue le vicende del personaggio di Wladyslaw Szpilman, che sullo schermo ha il volto smagrito e lo sguardo dolente dell’americano Adrien Brody, premiato con l’Oscar come miglior attore per la sua intensa interpretazione. Nella prima parte, il film ci descrive l’impatto delle persecuzioni antisemite sulla comunità ebraica di Varsavia e sulla famiglia del protagonista; nella seconda parte, invece, assistiamo alla solitaria odissea di Szpilman che, animato unicamente da un disperato istinto di sopravvivenza, si aggira come uno spettro in una città-fantasma devastata dalla guerra. E a tendergli la mano, nel momento del bisogno, sarà il Capitano Hosenfeld (Thomas Kretschmann), un ufficiale dell’esercito tedesco che, in nome dell’amore per la musica, gli offrirà un aiuto assolutamente inaspettato.

L’opera di Polanski si propone dunque anche come una riflessione ed una metafora sul potere salvifico dell’arte, capace, perfino negli abissi più oscuri, di ridare luce alla nostra esistenza e di preservare quell’umanità sepolta sotto le macerie della Storia. Szpilman, che nel bel mezzo della guerra si siede a un pianoforte per suonare Chopin, trova così la forza per resistere attraverso le difficoltà incontrate sul suo cammino, sublimando il proprio dolore nella musica. Polanski non si tira indietro nel mostrarci l’orrore, e soprattutto l’assurda insensatezza di ciò che accadde in quegli anni, ma mantiene sempre uno stile lucido e controllato, evitando di scivolare nel patetico; non per questo, però, la pellicola risulta meno coinvolgente ed emozionante per lo spettatore, impegnato a percorrere il medesimo calvario del protagonista. Un film irrinunciabile, per non dimenticare.

 

LA CHIAVE DI SARA – Francia 2010 – Drammatico – 111 min. 

Locandina italiana La chiave di Sara

Julia Jarmond è una giornalista americana, moglie di un architetto francese e madre di una figlia adolescente. Da vent’anni vive a Parigi e scrive articoli impegnati e saggi partecipi. Indagando su uno degli episodi più ignobili della storia francese, il rastrellamento di tredicimila ebrei, arrestati e poi concentrati dalla polizia francese nel Vélodrome d’Hiver nel luglio del 1942, ‘incrocia’ Sara e apprende la sua storia, quella di una bambina di pochi anni e ostinata resistenza che sopravviverà alla sua famiglia e agli orrori della guerra. Impressionata e coinvolta, Julia approfondirà la sua inchiesta scoprendo di essere coinvolta suo malgrado e da vicino nella tragedia di Sara. Con pazienza e determinazione ricostruirà l’odissea di una bambina, colmando i debiti morali, rifondendo il passato e provando a immaginare un futuro migliore.

 

LA SIGNORA DELLO ZOO DI VARSAVIA – USA, Repubblica Ceca, Gran Bretagna 2017 – Biografico/Drammatico/Storico – 127 min. 

Locandina italiana La signora dello zoo di Varsavia

Jan Zabisnki diventa direttore dello zoo di Varsavia nel 1929. Insieme a sua moglie Antonina popola il giardino zoologico, nato da una mostra itinerante ottocentesca di animali, delle specie più belle e più esotiche. Nel ’39, però, l’invasione della Polonia da parte della Germania nazista, e il bombardamento che la precede, distruggono lo zoo e uccidono molti animali. Un accordo con il capo zoologo del Reich, Lutz Heck, permette loro di restare e riprendere il lavoro, ma i coniugi Żabiński faranno molto di più: riempiranno la loro cantina e le gabbie rimaste vuote con tutte le persone che riusciranno a far fuoriuscire in segreto dal ghetto di Varsavia. Rischiando la propria vita e quella di loro figlio, Antonina e Jan metteranno in salvo più di duecento ebrei, amici e sconosciuti, distinguendosi per straordinario coraggio e umanità.

L’impianto del film è classico, narrativo, e poggia saldamente sugli elementi di pathos e di thrilling che sono interni al racconto storico: su tutti il fatto che il trasporto degli esseri umani dentro e fuori lo zoo avvenisse in un luogo presidiato quasi continuamente dai nazisti, sotto il loro naso, con un tasso di rischio da togliere il fiato.

La sceneggiatura romanza alcuni aspetti, per rendere più ricco e complesso il ruolo di Jessica Chastain. Antonina ci viene mostrata mentre “parla” con gli elefanti, mentre avvicina con pazienza una ragazzina violata come farebbe con un animale ferito e impaurito, e mentre tiene le redini di un “gioco” ad alta tensione con l’ufficiale tedesco, attratto da lei, per portarlo dalla propria parte senza cedere sul fronte della dignità personale. E la performance della Chastain, improntata a far trasparire un’eccezionale forza interiore sotto un abito modesto e quasi ingenuo, è effettivamente convincente, ma è anche la parte più convenzionale del tutto. È piuttosto nel racconto dell’istituzione del ghetto, delle condizioni di vita e morte al suo interno, o in quello degli “ospiti” degli Żabiński, che risalgono in superficie la notte per un respiro di normalità, che il film offre il suo contributo più particolare e straziante, senza bisogno di alcun intervento di riscrittura rispetto alla realtà dei fatti.

L’immagine, infine, degli animali spauriti che invadono la città dopo la distruzione dello zoo, vale mille discorsi su cosa vogliano dire i termini “umanità” e “bestialità” e quali terribili ribaltamenti di prospettiva alcuni periodi storici siano stati in grado di inscenare in questo senso.

 

LA VITA E’ BELLA – Italia 1997 – Drammatico – 131 min.

La vita è bella

Verso la fine degli anni Trenta in Toscana, due giovanottelli lasciano la campagna per trasferirsi in città. Guido, il più vivace, vuole aprire una libreria nel centro storico, l’altro Ferruccio fa il tappezziere ma si diletta a scrivere versi comici e irriverenti. In attesa di realizzare le loro speranze, il primo trova lavoro come cameriere al Grand Hotel, e il secondo si arrangia come commesso in un negozio di stoffe. Camminando, Guido si innamora di una maestrina, Dora, e, per conquistarla inventa l’impossibile. Le appare continuamente davanti, si traveste da ispettore di scuola, la rapisce con la Balilla. Ma Dora si deve sposare con un vecchio compagno di scuola, e tuttavia non è soddisfatta perché vede molto cambiato il carattere dell’uomo. Quando al Grand Hotel viene annunciato il matrimonio, Guido irrompe nella sala in groppa ad una puledro e porta via Dora. Si sposano ed hanno un bambino, Giosuè. Arrivano le leggi razziali, arriva la guerra. Guido, di religione ebraica, viene deportato insieme al figlioletto. Dora va da un’altra parte. Nel campo di concentramento, per tenere il figlio al riparo dai crimini che vengono perpetrati, Guido fa credere che loro fanno parte di un gioco a punti, in cui bisogna superare delle prove per vincere. Così va avanti, fino al giorno in cui Guido viene allontanato ed eliminato. Ma la guerra nel frattempo è finita, Giosuè esce, incontra la madre e le va incontro contento, dicendo “abbiamo vinto”.

 

SCHINDLER’S LIST – USA 1993 – Drammatico – 200 min.  (visione consigliata per bambini e ragazzi)

Locandina Schindler's List

Tratto dal libro di Thomas Keneally è la vera storia di Oscar Schindler, industriale tedesco, che nel 1938 capisce che è bene legarsi ai comandanti militari. Li frequenta nei locali notturni, offre bottiglie preziose. Quando gli ebrei sono relegati nel ghetto di Cracovia Schindler riesce a farsene assegnare alcune centinaia come operai in una fabbrica di pentole. All’inizio sembra sfruttarli, in realtà li salva. Di fronte alla persecuzione tremenda, il tedesco trasforma quella sua prima iniziativa in una vera missione, fino a comprare letteralmente le vite di quasi milleduecento ebrei (la famosa lista) che sicuramente morirebbero nel campo di Auschwitz.

Film concepito e costruito per essere definitivo, come memoria, opera d’arte e documento. La qualità cinematografica è altissima.

 

STORIA DI UNA LADRA DI LIBRI – USA/Germania 2013 – Drammatico – 125 min. 

Locandina italiana Storia di una ladra di libri

Germania, 1939. Liesel Meminger è una ragazzina di pochi anni che ha perduto un fratellino e rubato un libro che non può leggere perché non sa leggere. Abbandonata dalla madre, costretta a lasciare la Germania per le sue idee politiche, e adottata da Rosa e Hans Hubermann, Liesel apprende molto presto a leggere e ad amare la sua nuova famiglia. Generosi e profondamente umani gli Hubermann decidono di nascondere in casa Max Vandenburg, un giovane ebreo sfuggito ai rastrellamenti tedeschi. Colto e sensibile, Max completa la formazione di Liesel, invitandola a trovare le parole per dire il mondo e le sue manifestazioni. Perché le parole sono vita, alimentano la coscienza, aprono lo spazio all’immaginazione, rendono sopportabile la reclusione. Fuori dalla loro casa intanto la guerra incombe e la morte ha molto da fare, ricoverando pietosa le vittime di Hitler e dei suoi aguzzini, decisi a fare scempio degli uomini e dei loro libri.

Adattamento del romanzo di Markus Zusak, Storia di una ladra di libri è un racconto di formazione ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale in un piccolo villaggio della Germania. Nato da un’urgenza e dall’infanzia dell’autore, il libro di Zusak descrive una crescita forzata e indotta dalla crudeltà degli uomini. Ma la violenza della guerra e l’assurdità del mondo degli adulti vengono fiaccate dai libri e dalla letteratura, corsie preferenziali per la conoscenza. E attraverso i libri la giovane protagonista abbandona la superficialità tipica dell’età e impara a leggere (tra le righe), capendo quello che la circonda, scoprendo i misteri della vita e della sua assenza. L’innocenza della protagonista si scontra presto coi terribili ‘uomini grigi’ di Hitler, che rubano ‘il tempo’ a chiunque osi contrariarli. E al fuoco della loro follia, la piccola Liesel sottrae i libri, unendo l’attenzione per gli altri alla forza di un sorriso. La speranza risiede nei suoi gesti e in quelli dei suoi genitori, nella loro voglia di libertà, nel loro bisogno comunitario, nel loro amore per il prossimo. Se Hitler ordina ai suoi ‘figli’ di bruciare i libri, un padre protegge sua figlia dall’orrore grazie alle parole di quei libri. Perché l’arte è una sorta di coscienza salutare, e in quegli anni bui provvidenziale a risollevare le persone dall’umiliazione e dall’ignominia subita.

Racconto edificante, Storia di una ladra di libri partecipa a una tendenza attuale che mostra cittadini tedeschi irriducibili e resistenti contro lo stato delle cose. Impeccabilmente interpretato da Geoffrey Rush, Emily Watson e la giovane Sophie Nélisse, abile nell’esibire l’anima più genuina dell’infanzia e a far conoscere tutta la vulnerabilità della fase più delicata nello sviluppo di un individuo, Storia di una ladra di libri rivela una superficie liscia e una narrazione senza asperità. Il film ‘storico’ di Brian Percival ha tutte le caratteristiche ma anche i limiti di uno spettacolo familiare, che rinuncia alla (più) complessa costruzione del romanzo per una maggiore presa spettacolare. ‘Ricostruttore’, piuttosto che autore, il regista inglese pasticcia con la ‘mortale’ voce fuori campo, che dovrebbe essere il filtro tra gli accadimenti e il lettore e finisce invece per penalizzare la storia, intervenendo approssimativamente sullo svolgimento. Nella versione originale poi, in italiano il doppiaggio assorbe il garbuglio linguistico, intercala l’inglese col tedesco, impiegato come mero richiamo realistico ed elementare décor sonoro. Nondimeno Storia di una ladra di libri resta un film comunicativo, in grado di catturare lo spettatore e donargli un insegnamento veramente sentito. Perché per Brian Percival i libri hanno un valore rilevante, culturale e formativo. Insieme al cinema, possono veicolare contenuti importanti, farsi serbatoio dei capitoli della storia universale della formazione umana, nutrimento dell’immaginario, senza rinunciare ad emozionare.

 

TRAIN DE VIE – Francia/Romania 1999 – Commedia/drammatico – 103 min. 

Poster Train de vie - Un treno per vivere  n. 0

Una sera del 1941 Schlomo, chiamato da tutti il matto, irrompe allarmato in un piccolo villaggio ebreo della Romania: i nazisti, fa sapere, stanno deportando tutti gli abitanti ebrei dei paesi vicini e fra poco toccherà anche a loro. Durante il consiglio dei saggi, che subito si riunisce, Schlomo tira fuori una proposta un po’ bizzarra che però alla fine viene accolta: per sfuggire ai tedeschi, tutti gli abitanti organizzeranno un falso treno di deportazione, ricoprendo tutti i ruoli necessari, gli ebrei fatti prigionieri, i macchinisti, e anche i nazisti in divisa, sia ufficiali che soldati. Così riusciranno a passare il confine, ad entrare in Ucraina, poi in Russia per arrivare infine in Palestina, a casa.

 

UN SACCHETTO DI BIGLIE – Francia 2017 – Drammatico – 110 min. 

Locandina italiana Un sacchetto di biglie

Parigi. Joseph e Maurice Joffo sono due fratelli ebrei che, bambini, vivono nella Francia occupata dai nazisti. Un giorno il padre dice loro che debbono iniziare un lungo viaggio attraverso la Francia per sfuggire alla cattura. Non dovranno mai ammettere, per nessun motivo, di essere ebrei.

Del romanzo autobiografico di Joseph Joffo, pubblicato nel 1073, esisteva già una versione cinematografica diretta da Jacques Doillon nel 1975. Perché allora realizzare un remake a più di quaranta anni di distanza? La prima risposta è giunta dal diretto interessato, Joffo, in una conferenza di fronte a studenti universitari che si può anche trovare su YouTube: la figura del padre nel primo film non era verosimile mentre in Christian Duguay, che al rapporto padre e figlio è particolarmente attento, ha trovato il regista capace di restituire verità al loro rapporto.

Si aggiunga anche un distacco da uno stereotipo abbastanza diffuso, presente nel film di Doillon, che riguarda l’indifferenza di tutta la Chiesa cattolica alla sorte degli ebrei. Le figure di sacerdote che compaiono nel film corrispondono ad incontri effettivi vissuti dai due ragazzi.

Detto ciò va rilevato come Duguay abbia mutato il punto di vista. Lo sguardo è sempre quello di Joffo ma non dell’adulto che descrive quanto accaduto nel passato. Lo spettatore è posizionato a fianco dei due fratelli che vivono come bambini la tragedia che sta loro intorno. Le biglie divengono così il simbolo di un’infanzia che viene messa alla prova ma finiscono anche con il rappresentare quella vita in famiglia a cui i due fratelli sperano di tornare. Lo sguardo culturalmente ‘distante’ (Duguay è canadese) favorisce poi una rilettura delle vicende che segue una schema noto ma lo depura da qualsiasi accento di retorica consentendo alle vicende vissute dai due fratelli di ‘arrivare’ alle nuove generazioni senza che queste se ne distanzino pregiudizialmente in quanto ‘già viste’ o comunque ‘old style’.

Perché questo è in definitiva il motivo per cui già nel 1973 Joffo dava alle stampe le sue memorie sotto forma di romanzo. Oggi più che mai, mentre venti di guerra tornano a soffiare con insistenza e nostalgie pericolose riaffiorano e trovano adesione anche in chi quei tempi non li ha vissuti, le ultime righe del libro si presentano come un monito e motivano alla visione del film. Joffo scrive: “Guardando dormire mio figlio non posso che augurarmi una cosa: che mai provi il tempo della sofferenza e della paura come l’ho conosciuto io durante quegli anni. Ma cos’ho da temere? Cose del genere non si riprodurranno più, mai più. Le sacche sono in solaio e ci resteranno per sempre. Forse…”.